Cristianesimo: origini, storia e caratteristiche

Cristianesimo: origini, storia e caratteristiche

Cristianesimo: origini, storia e caratteristicheA cura di Federico Goddi.

Origini e storia del cristianesimo, la religione rivelata da Gesù Cristo nata dal giudaismo nel primo secolo. Significato e protagonisti del cristianesimo.

Frase celebre‹‹Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia››. Dal Vangelo secondo Matteo, 7, 27-29 (La casa sulla roccia)

1Cristianesimo, storia di un culto rivoluzionario

Diffusione dei culti orientali. Nei primi due decenni dell’Impero romano si verificò un evento destinato a mutare le sorti dell’intera umanità: la nascita della religione cristiana. Prima di diffondersi e divenire un fenomeno religioso planetario, il cristianesimo aveva trovato spazio nel processo di diffusione dei culti orientali, come già accaduto per il culto del dio Mitra (divinità protettrice dei soldati), diffusosi in Occidente a partire dalla seconda metà del I secolo d.C.   

Culto del dio MitraIl culto mitraico aveva trovato fedeli soprattutto in ambiente militare, vista la grande mobilità imposta alla professione della armi.     

Nuovi caratteri religiosi.I legionari romani si spostavano nei domini dell’impero, riportando nell’Urbe dei caratteri religiosi nuovi, che in alcuni casi furono assimilati dalla società romana. Il successo dei culti venuti dall’esterno non è però spiegabile col solo processo di mobilità, che è infondo connaturato alla struttura di qualsiasi forma imperiale con ambizioni di lunga durata. 

Dettaglio di Gesù Cristo da un altare catalano frontale raffigurante l'Ascensione di Cristo

  • Tutto Storia: schemi riassuntivi e quadri di approfondimento
    Per conoscere e ricordare i concetti, gli eventi e i principali avvenimenti della storia dalle origini a oggi.

La religione romana nel periodo di Augusto: ricerca

Crisi della religione romana. Ben più rilevante era la crisi del carattere pubblico della religione romana, non più adeguata al mutamento di una società che aspirava, per larghi strati, al coinvolgimento del singolo fedele nei culti misterici, portatori di un messaggio considerato rassicurante e consolatorio e capaci di veicolare un inedito rapporto tra condotta terrena e vita nell’aldilà: il destino della beatitudine passava attraverso i meriti della vita sulla terra.  

Culti misterici in Occidente Diffondendosi in Occidente, non fecero alcuna concorrenza ai culti tradizionali: gli uni non escludevano gli altri, perché tutti partecipavano alla comune sensibilità del politeismo. Ben diverso sarebbe stato il caso del cristianesimo, il cui rigido monoteismo fu ben presto avvertito come una minaccia eversiva che rifiutava il credo ufficiale. 

Destabilizzazione della Palestina La storia delle origini del cristianesimo è legata alle vicende della Palestina, una terra ricca ma martoriata dai continui conflitti. In quel piccolo territorio convivevano popoli diversi, ciascuno attaccato alle proprie tradizioni, ed i tentativi delle potenze straniere di assume il controllo di quel lembo di terra avevano sortito il risultato di destabilizzare la regione.  

Ellenizzazione della Palestina Con il dominio del regno di Siria, avviato nel 200 a. C, si intensificò il processo di ellenizzazione del Paese. Il modello di vita greco richiedeva enormi costi, che normalmente non erano alla portata delle risorse finanziarie delle comunità locali che subivano una pressione fiscale fortissima. 

Nascita dello Stato indipendente di Giudea La conseguenza della tassazione elevata fu un movimento di ribellione guidato da Giuda Maccabeo, che portò nel 168 a.C. alla creazione di uno Stato indipendente di Giudea. Il nuovo Stato “asmoneo” era governato da un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, che avviò un processo di sradicamento della cultura ellenica e di abbattimento dei culti stranieri. Intere comunità furono convertite all’ebraismo, ma la persistenza dell’ellenizzazione arginò, almeno in parte, il processo nazionalistico. 

Tempio di Gerusalemme

Dominazione romana In seguito alla conquista romana della Siria (64 a. C), la Giudea vide restringersi i propri confini e finì nel gorgo della guerre civili e, come se non bastasse, sotto costante minaccia della potenza egiziana. A quel punto, i romani consegnarono il territorio ad Erode, uomo non lontano dai principi della romanizzazione. Erode, che governò dal 37 al 4 a. C, era il classico sovrano permeato dall’ellenismo, e dimostrò di rispettare il culto giudaico, costruendo un nuovo Tempio.  

Giudea: provincia dell’impero romano Alla morte del sovrano, la Giudea divenne una provincia dell’impero romano con a capo un prefetto. Un cambiamento notevole della forma statuale, che però non incise sulla vita del Sinedrio, massima assemblea religiosa per gli ebrei. Il governatore aveva facoltà di sceglie il sommo sacerdote e il popolo giudaico doveva garantire costanti testimonianze di leale sottomissione (sacrifici a favore dei romani), particolarmente umilianti per la più antica religione monoteistica.  

Dominazione romana In seguito alla conquista romana della Siria (64 a. C), la Giudea vide restringersi i propri confini e finì nel gorgo della guerre civili e, come se non bastasse, sotto costante minaccia della potenza egiziana. A quel punto, i romani consegnarono il territorio ad Erode, uomo non lontano dai principi della romanizzazione. Erode, che governò dal 37 al 4 a. C, era il classico sovrano permeato dall’ellenismo, e dimostrò di rispettare il culto giudaico, costruendo un nuovo Tempio.  

Giudea: provincia dell’impero romano Alla morte del sovrano, la Giudea divenne una provincia dell’impero romano con a capo un prefetto. Un cambiamento notevole della forma statuale, che però non incise sulla vita del Sinedrio, massima assemblea religiosa per gli ebrei. Il governatore aveva facoltà di sceglie il sommo sacerdote e il popolo giudaico doveva garantire costanti testimonianze di leale sottomissione (sacrifici a favore dei romani), particolarmente umilianti per la più antica religione monoteistica.  

Gesù, il sermone sul monte

Nascita di Gesù CristoIn quel contesto di costante ostilità al dominatore romano, iniziarono le predicazioni di Gesù Cristo, la cui cronologia di vita è al centro di aspri diatribe tra gli studiosi. Su periodo storico, disponiamo di poche fonti, ed alcune, come i Vangeli, che pur indagano molti aspetti di una realtà storica determinata, non possono essere annoverati come documenti storici in senso stretto. È ineludibile il carattere religioso dei Vangeli. In ogni caso, è ormai lecito affermare, anche tra gli storici, che Gesù nacque negli ultimi anni del regno di Erode

2Il cristianesimo e il verbo del Messia

Gesù Cristo davanti a Erode

Dominazione romana In seguito alla conquista romana della Siria (64 a. C), la Giudea vide restringersi i propri confini e finì nel gorgo della guerre civili e, come se non bastasse, sotto costante minaccia della potenza egiziana. A quel punto, i romani consegnarono il territorio ad Erode, uomo non lontano dai principi della romanizzazione. Erode, che governò dal 37 al 4 a. C, era il classico sovrano permeato dall’ellenismo, e dimostrò di rispettare il culto giudaico, costruendo un nuovo Tempio.  

Giudea: provincia dell’impero romano Alla morte del sovrano, la Giudea divenne una provincia dell’impero romano con a capo un prefetto. Un cambiamento notevole della forma statuale, che però non incise sulla vita del Sinedrio, massima assemblea religiosa per gli ebrei. Il governatore aveva facoltà di sceglie il sommo sacerdote e il popolo giudaico doveva garantire costanti testimonianze di leale sottomissione (sacrifici a favore dei romani), particolarmente umilianti per la più antica religione monoteistica.  

Prime predicazioni di Gesù CristoLa prima fase delle sue predicazioni si svolse in Galilea, dove reclutò i primi discepoli, rispondendo alle esigenze di salvezza degli stati più poveri della popolazione. In quella fase delle predicazioni, Gesù si attirò l’ostilità delle sette dei Farisei e i Sadducei. Il fatto che egli si rivolgesse in primo luogo ai poveri e ai diseredati diffuse, fin da subito, il timore di possibili agitazioni sociali.

Arresto, condanna al supplizio e morte sulla croceFu quindi per ragioni d’opportunismo politico che la classe dirigente giudaica trovò una convergenza d’interessi con governanti romani. Gesù fu arrestato e giudicato congiuntamente dal Sinedrio e dal prefetto Ponzio Pilato. Da un primo nucleo originario, attorno al messaggio di resurrezione di Gesù Cristocondannato al supplizio e morto sulla croce, si moltiplicarono le adesioni. La distinzione tra cristianesimo e le tante sètte giudaiche divenne netta.

San Paolo, padre della teologia cristianaA distinguere i cristiani dagli altri giudei, restava il fatto che questi ultimi non avevano riconosciuto in Cristo il Messia. Frattura che divenne insanabile con l’opera di San Paolo, considerato il padre della teologia cristiana.

La cittadinanza romana L’apostolo Paolo veniva da Tarso, una città portuale dell’Anatolia orientale, i suoi genitori erano ricchi commercianti che erano soliti fare affari con le legioni romane. Grazie ai buoni uffici ottenuti dalla ricca attività, Paolo era divenuto cittadino dell’impero, ottenendo la possibilità di formarsi in Legge ebraica a Gerusalemme, con l’obiettivo di diventare rabbino.

Conversione, predicazione e morte di San Paolo Secondo gli Atti degli Apostoli, la sua conversione fu improvvisa ed avvenne mentre si recava a Damasco per contrastare la sètta cristiana su ordine del Sinedrio. Dal 49 al 52 Paolo intraprese lunghi viaggi con lo scopo di convertire le genti al cristianesimo grazie alla sua fervida attività di missionario. Tornato a Gerusalemme, fu arrestato e condotto a Roma per essere processato. Assolto in una prima occasione, fu nuovamente processato per volere di Nerone, ed in quest’occasione condannato a morte e decapitato (65 d.C.). 

Conversione di San Paolo sulla via di Damasco di Caravaggio

San Paolo predica ad Atene

Strategia di San Paolo per conquistare i fedeli Le Lettere che Paolo inviava alle varie comunità cristiane, e che ancor oggi ispirano la riflessione dei teologi cristiani, attestano una profondità di riflessioni filosofiche ed una finezza politica non comuni. Sotto quest’ultimo punto di vista, Paolo aveva intuito che la strada giusta per allargare la famiglia dei cristiani era l’integrazione all’interno dello Stato, accettandone leggi sottomettendosi all’autorità romana.

Carattere universale della religione cristiana Inoltre, la diffusone del cristianesimo in tutto l’impero sarebbe stata facilitata dall’assenza di prescrizioni che rientravano nella tradizione giudaica. A differenza del giudaismo, che non era soltanto una religione ma rappresentava anche un popolo, convertirsi al cristianesimo non significava anche cambiare patria per entrare nel popolo eletto d’Israele. La religione cristiana aveva infatti un carattere universale

3L’organizzazione del cristianesimo e le persecuzioni dei romani

Il significato del battesimo: ricerca

Battesimo ed eucarestia Per entrare nella comunità cristiana era necessario aver ricevuto il battesimo. Originariamente, per ricevere il sacramento bastava dichiarare il proprio pentimento davanti a Cristo, ma successivamente il rito fu preceduto da un periodo di catechesi durante il quale i futuri fedeli ricevevano i principi fondamentali della religione cristiana. Soltanto i cristiani battezzati avevano accesso all’eucarestia, l’atto con cui il fedele entrava in rapporto con Cristo e la comunità dei fedeli, da qui il termine “comunione” che entrerà solo in seguito nel linguaggio comune. 

Battesimo di Cristo: dipinto di Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci

La comunità cristiana Dal IV secolo in poi, l’aumento dei fedeli impose alle comunità cristiane il delicato problema dell’organizzazione. Ciascuna comunità scelse un vescovo, da cui dipendevano diaconi con funzioni amministrative e presbiteri con compiti spirituali.

Il vescovo di Roma Il primato tra i vescovi spettava a quello di Roma, dipendente dal primato dell’apostolo Pietro. Questa posizione eminente del vescovo di Roma, attestata già dal II secolo, preparò la successiva supremazia del pontefice romano. In quella fase il vescovo di Roma non era ancora “papa”, ed aveva semplicemente più prestigio – ma non maggiore potere – rispetto agli altri vescovi. 

Sottomissione dei cristiani Nel periodo precedente le difficoltà era ben maggiori, tra la fine del II secolo e la metà del III sec. d. C, i cristiani dovevano infatti sottostare a sacrifici dovuti al “genio” dell’imperatore, per non rischiare di attirare ostilità con rifiuti che sarebbero stati interpretati come una dichiarazione di ostilità nei confronti del potere romano.

Tertulliano, autore dell’Apologetico La necessità di rispondere a simili accuse spinse molti autori cristiani di lingua greca e latina a redigere scritti apologetici. In questo senso, la figura di Tertulliano è emblematica. L’autore dell’Apologetico respinse le accuse di lesa maestà rivolte ai cristiani in maniera ben più efficace di autori come Clemente Alessandrino e Origene che tentarono invece di conciliare la tradizione letteraria greca con il credo cristiano, con l’obiettivo di renderlo accettabile per le élites romane. Appunti Tertulliano: opere apologetiche e antiereticali

Persecuzioni sotto il Regno di Domiziano Le fasce più elevate della popolazione erano le più ostili al credo considerato oltremodo pericoloso. I provvedimenti repressivi aumentarono durante il regno di Domiziano (81-96 d.C), che tentò di evitare la penetrazione di elementi cristiani nella corte imperiale

San Pietro Apostolo: dipinto di Meo di Guido da Siena

 

Le ostilità cessarono solo durante il regno di Traiano che avviò una politica moderata, scoraggiando denunce e delazioni nei confronti dei cristiani. Erano solo una tregua, le persecuzioni sarebbero tornate dalla metà del III secolo, sotto l’imperatore Decio, quando i cristiani affrontarono il martirio per le continue accuse di mancato sacrificio. Tuttavia, le persecuzioni non sortirono l’effetto desiderato, ed i supplizi subiti da alcuni non fecero che aumentare il numero di fedeli. 

Resistenza del cristianesimo delle origini Il cristianesimo delle origini non solo resistevama continuava a sfidare il potere sfruttando la profonda inquietudine di un’epoca in cui molti non riuscivano a dare una spiegazione razionale dell’improvvisa decadenza, come testimoniato da uno scritto del vescovo di Cartagine Cipriano dedicato ad un pagano: ‹‹Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi, accadono, perché voi non onorate Dio›› (Cipriano, A Demetriano, 3-5). 

La disperazione delle madri dei migranti

La disperazione delle madri dei migranti

Se Michelangelo fosse vissuto ai nostri giorni, forse La pietà l’avrebbe raffigurata così: con i volti straziati dalla disperazione delle madri che piangono i loro figli. Figli migranti, saliti a bordo di barche di fortuna in cerca di un futuro migliore lontano da casa e finiti, invece, inghiottiti dalle acque del mare, a causa di tragici naufragi.

Le madri ritratte in questa fotografia vivono nella città settentrionale siriana di Manbij, al confine con la Turchia. Le lacrime che rigano i loro volti sono quelle per nove migranti curdi, i loro figli che non torneranno mai più indietro, perché annegati, ad ottobre, al largo delle coste dell’Algeria.

Ma il pianto di queste donne siriane non è diverso da quello della madre del piccolo Hudaifa, di soli due anni, partito a settembre su un “barcone della speranza” da Antalya, in Turchia, e morto di sete in mare aperto, a circa 71 miglia dalla Libia. È stata la mamma ad accorgersi che il piccolo non respirava più. Ed è stata lei a lavarlo e a rivestirlo con abiti puliti, custoditi accuratamente in una busta e pensati per l’arrivo sulla terra ferma. Ed è stata sempre lei ad affidarlo alle acque del mare, che lo hanno travolto per sempre.

Lo stesso dolore e le stesse lacrime le immaginiamo sul volto e nel cuore della giovane mamma di 19 anni che, pochi giorni fa, è stata soccorsa al largo di Lampedusa insieme ad altri migranti e che ha visto morire suo figlio, un neonato di soli venti giorni. E a nulla serve dire che il piccolo soffriva di problemi respiratori, perché ciò non allevia lo strazio della madre.

Quel medesimo strazio accompagna da tempo le donne che partecipano al “Movimiento Migrante Mesoamericano”, organizzazione che, dal 2004, attraversa il Messico con una carovana. A comporla sono le madri di migranti scomparsi durante il loro viaggio dall’America Latina verso la frontiera settentrionale con gli Stati Uniti. Le statistiche diffuse dal Registro nacional de personas desaparecidas y no localizadas (Rnpdno) rivelano che le persone migranti delle quali non si ha più traccia sono quasi 3.000, a cui si aggiungono oltre 20.000 di nazionalità non identificata, per un totale di quasi 100.000 desaparecidos in tutto il Messico. Erano partiti in cerca di fortuna, ma hanno incontrato la morte. Pietà per loro, pietà per le loro madri.

di ISABELLA PIRO

Verso il 25 dicembre

Verso il 25 dicembre

Perché l’albero di Natale ha un significato cristiano

Una tradizione nata nel Nord Europa che rimanda all’Eden, al peccato originale riscattato da Cristo, alla croce come albero della vita. Fra i doni sotto l’abete anche quello per i poveri.

L’albero di Natale evoca sia l’albero della vita piantato al centro dell’Eden, sia l’albero della croce perché Cristo è il vero albero della vita che ha liberato l’uomo dal peccato. Secondo gli evangelizzatori dei Paesi nordici, l’albero è cristianamente ornato con mele e ostie sospese ai rami. Il Direttorio avverte che «tra i doni posti sotto l’albero non dovrà mancare il dono per i poveri».

Scriveva l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 1978: «Quasi tutte le usanze prenatalizie hanno la loro radice in parole della Sacra Scrittura. Il popolo dei credenti ha, per così dire, tradotto la Scrittura in qualcosa di visibile… Gli alberi adorni del tempo di Natale non sono altro che il tentativo di tradurre in atto queste parole: il Signore è presente, così sapevano e credevano i nostri antenati; perciò gli alberi gli devono andare incontro, inchinarsi davanti a lui, diventare una lode per il loro Signore».

Il significato cristiano dell’albero di Natale non va fatto derivare dal solstizio d’inverno, ma ha un’origine propria che risale ad una tradizione medievale e al suo significato religioso: le rappresentazioni dei misteri, che, quale preludio alla festività natalizia, nella Santa Notte mettevano in scena, davanti ai portali delle chiese, la storia del peccato originale nel Paradiso. Nella Bibbia non viene indicata la specie dell’albero, e a secondo delle zone esso si identificava con le piante locali. In Germania si trattava del melo e il suo frutto si è imposto come «frutto proibito».
Poiché il 24 dicembre era difficile trovare un melo in fiore, si ricercò un albero diverso, e naturalmente si impose la scelta del sempreverde abete, tanto più che già in precedenza i suoi rami erano serviti da ornamento dei portali durante il periodo natalizio. All’abete si appese la mela (o parecchie mele). Così questo tipo di rappresentazione conferì all’albero di Natale il suo significato cristiano: nella notte del Natale il peccato dell’uomo è stato espiato per mezzo dell’incarnazione di Cristo.

Perché l’albero di Natale ha un significato cristiano (avvenire.it)

Chi erano i gentili nella Bibbia?

Chi erano i gentili nella Bibbia?

Secondo la Bibbia, i gentili originariamente erano persone non legate al popolo ebraico.

Leggendo la Bibbia, specialmente il Nuovo Testamento, ti imbatterai spesso nella parola Gentile.

Cosa significa?

Parola di origine latina e solitamente impiegata al plurale. Nelle versioni inglesi di entrambi i Testamenti designa collettivamente le nazioni distinte dal popolo ebraico.

Il motivo principale per cui i gentili vengono menzionati nella Bibbia è che “come discendenti di Abramo, gli ebrei si consideravano, ed erano infatti, prima della venuta di Cristo, il popolo eletto di Dio. Poiché le nazioni non ebraiche non adoravano il vero Dio  e generalmente indulgevano in pratiche immorali, il termine  Gôyîm  “Gentili” ha spesso nelle Sacre Scritture, nel Talmud, ecc., un significato denigratorio”.

Inizialmente ci fu molta discussione tra gli apostoli sull’opportunità o meno di predicare ai gentili il Vangelo di Gesù Cristo.

Per fortuna San Paolo divenne l ‘” Apostolo dei Gentili ” e si incaricò di evangelizzare tutte le persone, sia ebrei che gentili, assicurandosi che tutti conoscessero l’opera salvifica di Gesù Cristo.

IL DONO DELLA SALVEZZA
AI GIUDEI E AI GENTILI
(Mc 6,1-8,26).

  1. GIUDEI E GENTILI NELLA CHIESA PRIMITIVA
    I primi cristiani dovettero ben presto affrontare un problema che a noi oggi può sembrare
    estraneo al discorso religioso, quello cioè che riguarda gli alimenti di cui un credente può
    nutrirsi e quelli ai quali deve rinunciare. A sua volta questo era solo un aspetto di una
    questione più grande: quale atteggiamento i credenti in Cristo devono assumere nei confronti
    della legge mosaica? Avendo ricevuto il vangelo di salvezza che si incarna nella persona di
    Gesù, come devono regolarsi nei confronti della venerabile tradizione del popolo giudaico? In
    altre parole, per essere tali i cristiani devono rimanere o diventare giudei a tutti gli effetti,
    oppure la fede in Cristo è sufficiente per la salvezza? Questo dilemma non si poneva per un
    pio ebreo, il quale, una volta diventato cristiano, non riteneva che questo fosse un motivo
    sufficiente per abbandonare la pratica della legge mosaica, che precedentemente aveva
    regolato tutta la sua vita. La questione si poneva, invece, all’interno della missione, proprio
    perché molti gentili erano disposti a convertirsi; ma non a entrare in una comunità religiosa
    che si identificava con un gruppo etnico isolato all’interno dell’impero romano. Se si fosse
    imposta l’osservanza della legge mosaica, il cristianesimo, che potenzialmente è universale,
    sarebbe diventato nella migliore delle ipotesi la religione di un piccolo gruppo all’interno del
    mondo giudaico, che a sua volta già era una piccola entità nella società di allora. Proprio la
    necessità di annunziare il vangelo ai gentili mise ben presto in crisi l’osservanza della legge
    mosaica anche se la maggior parte dei primi cristiani era di provenienza ebraica.
    Nella chiesa primitiva ci furono forti scontri su questo tema. Dai dati presenti negli scritti
    cristiani delle origini emergono sostanzialmente quattro orientamenti diversi. Anzitutto vi
    erano i giudaizzanti, che rappresentavano l’ala più conservatrice del cristianesimo primitivo:
    essi sostenevano che tutti i cristiani, provenissero essi dall’ebraismo o dal paganesimo,
    dovevano osservare la legge. Altri invece, come Giacomo, fratello del Signore, affermavano
    che, mentre i convertiti dall’ebraismo dovevano continuare ad osservare la legge, ai gentili era
    richiesta soltanto l’osservanza di alcune norme (le cosiddette «clausole di Giacomo»: cfr. Atti
    15,19-20).
    Vi erano poi coloro che, come Paolo, sostenevano che i gentili convertiti non erano tenuti
    all’osservanza della legge mosaica, mentre i giudeo-cristiani potevano regolarsi come meglio
    preferivano, in quanto la legge di Mosè non era più essenziale neppure per loro. Infine gli
    ellenisti (dei quali il rappresentante più illustre era Stefano, il protomartire) sostenevano che
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    nessun credente in Cristo fosse tenuto ad osservare la legge poiché questa aveva perso ogni
    significato (sembra questo il tema del discorso di Stefano in At 7).
    Il solco tra i rappresentanti di questi diversi orientamenti era molto profondo in quanto
    riguardava non solo la prassi, ma anche la fede delle prime comunità. In fondo si trattava di
    stabilire se la persona di Gesù e la fede in lui erano sufficienti per la salvezza, oppure se era
    necessario qualcos’altro, cioè la pratica di quelle norme venerande sulle quali si era fondata
    per secoli la vita del popolo che aveva dato i natali allo stesso Gesù.
  1. MARCO, UN VANGELO DI FRONTIERA
    Oggi si suppone che Marco sia il più antico dei primi tre vangeli, così simili e così diversi
    da essere chiamati «sinottici», cioè in gran parte paralleli. Di fatto i vangeli di Matteo e Luca
    possono essere considerati come due nuove edizioni, rivedute e ampliate, di Marco. Se infatti
    confrontiamo tra loro i tre sinottici, notiamo che Matteo e Luca hanno in comune molto
    materiale, costituito specialmente da detti di Gesù, che non si trova in Marco. Siccome
    utilizzano questo materiale in modi e luoghi diversi del loro scritto, si può ritenere che essi
    non si conoscessero l’un l’altro, ma abbiano ricavato questi detti da una fonte sconosciuta a
    Marco, andata poi perduta, che viene designata oggi con la sigla Q (dal tedesco Quelle,
    «fonte»). Si può dunque concludere che Matteo e Luca hanno fatto uso sostanzialmente di due
    fonti, Marco e Q. Insieme ad esse poi ciascuno di loro ha usato alcune tradizioni a lui solo
    note.
    Pur dipendendo da Marco, è possibile però che Matteo e Luca fossero ancora a contatto
    con la forma orale delle tradizioni da lui raccolte, o magari con una edizione precedente del
    suo vangelo. Solo così si spiega il fatto che a volte contengono dettagli che sembrano più
    arcaici rispetto a quelli che si trovano nel secondo vangelo.
    Marco è dunque l’evangelista che per primo ha fatto una grande raccolta delle tradizioni
    orali riguardanti Gesù di Nazaret, dando così origine a quel genere letterario che chiamiamo
    «vangelo». Probabilmente già prima esistevano collezioni di brani, usate dai catechisti per la
    formazione religiosa dei convertiti, di cui la più antica, e quindi anche la più profondamente
    rielaborata, era quella riguardante la Passione di Gesù. Marco ha unito questo materiale, che
    era ancora in gran parte allo stato fluido, in modo tale che tutto quanto gravitasse sul racconto
    della Passione. Questa constatazione ha fatto sì che un autore definisse il vangelo di Marco
    come il racconto della Passione di Gesù preceduto da una lunga introduzione.
    Lo studio dei rapporti che intercorrono tra i vangeli sinottici mostra chiaramente che né
    Matteo né Luca si sono sentiti liberi di manipolare le tradizioni a loro piacimento. Bisogna
    supporre che anche Marco, sebbene le sue fonti non siano note, sia stato molto legato alla
    tradizione. Malgrado ciò egli ha impresso la sua impronta sul materiale di cui disponeva,
    soprattutto disponendolo secondo un ordine che gli sembrava riflettesse meglio i diversi
    momenti e aspetti della predicazione di Gesù. Naturalmente per fare ciò ha dovuto operare
    alcuni ritocchi, fare collegamenti, armonizzare frammenti diversi. Questo lavoro
    «redazionale» appare chiaramente dagli studi sulla forma letteraria della sua opera.
    Lo scopo fondamentale di Marco è quello di presentare Gesù come il Messia, il Figlio di
    Dio che annunzia e inaugura il «regno di Dio» (cfr. 1,14-15). Egli però è preoccupato non
    tanto di affermare questa sua dignità trascendente, quanto piuttosto di precisare le modalità
    con cui lo ha interpretato il suo ruolo. In altre parole egli intende mostrare al lettore che la
    gloria di Gesù non si manifesta nelle grandi opere da lui compiute, specialmente nei suoi
    miracoli, ma piuttosto nella sua passione e morte. A tale scopo egli fa ricorso a un espediente
    letterario chiamato «segreto messianico»: in altre parole egli ha rielaborato il materiale a sua
    disposizione in modo da far apparire che durante tutto il periodo del suo ministero Gesù ha
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    rifiutato non solo l’appellativo di Messia e di Figlio di Dio, ma ha tenuto nascosto tutto ciò
    che poteva far pensare a queste prerogative, come per esempio i suoi miracoli; solo alla fine,
    nel contesto della sua passione, quando ormai non vi era più alcuna possibilità di malinteso,
    avrebbe svelato la sua dignità (14,62).
    Nel vangelo di Marco il fatto che Gesù non abbia voluto presentarsi con le prerogative del
    Messia atteso dai giudei ha anche un altro significato: secondo lui è vero che Gesù ha
    annunziato la venuta del regno di Dio ai giudei, ma ben presto ha rivolto lo stesso annunzio ai
    gentili, negando così in qualche modo le attese nazionalistiche legate alla figura del Messia.
    Inoltre sempre secondo Marco Gesù sarebbe passato sopra proprio tutte quelle norme della
    legge mosaica, riguardanti circoncisione, riti, alimenti, nelle quali i giudei trovavano la loro
    identità e quindi il motivo di separazione dai gentili. Questo punto di vista è piuttosto isolato
    nel cristianesimo primitivo: infatti secondo Matteo e Luca solo dopo la sua morte e
    risurrezione Gesù avrebbe comandato ai discepoli di rivolgersi ai gentili. Si può dunque
    supporre che Marco, per affermare la sua tesi, abbia ritoccato le tradizioni che gli sono
    pervenute; soprattutto accentuando lo scontro di Gesù con i rappresentanti ufficiali del
    giudaismo e descrivendo una sua attività al di fuori dei territori abitati prevalentemente dai
    giudei (Giudea e Galilea).
    Marco vuole così dimostrare che la missione ai gentili non ha avuto inizio dopo la
    risurrezione di Gesù, ma è stata inaugurata «direttamente» da lui; essa non rappresenta quindi
    uno sviluppo successivo del suo messaggio, ma ne costituisce un aspetto primario e
    qualificante. In altre parole Marco vuole dimostrare che Gesù stesso ha già indicato in
    partenza l’atteggiamento che i cristiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della legge
    mosaica: dal non aver saputo accettare questo insegnamento del Maestro proverrebbero quindi
    le difficoltà sorte in seguito nella comunità cristiana, già anticipate nel comportamento dei
    discepoli.
  1. LA SEZIONE DEI PANI
    Affrontiamo ora la sezione che abbiamo scelto come tema di questa ricerca. La
    chiamiamo per intenderci «sezione dei pani», perché in essa il termine «pane» ritorna ben
    sedici volte a partire da 6,8 fino a 8,20; però diciamo subito che si tratta di una indicazione di
    comodo, spesso utilizzata ma molto discutibile, in quanto non è sufficiente per metterne in
    luce tutti gli aspetti. Il primo passo da fare è quello di delimitare la sezione stessa e poi di
    identificarne le articolazioni interne. Ovviamente non si tratta di una questione secondaria,
    perché è necessario conoscere l’estensione di un insieme di testi e il modo in cui essi sono
    collegati per capire che tipo di discorso l’autore intende fare.
    Anzitutto è chiaro che la sezione termina con la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-
    26): subito dopo questo episodio infatti è riportata la confessione di Pietro, seguita dal primo
    annunzio della passione, che rappresenta chiaramente l’inizio di una nuova sezione. Gli
    esegeti sono invece incerti circa il punto di inizio della sezione. Secondo molti di loro, esso
    coincide con la prima moltiplicazione dei pani (6,30), secondo altri con il racconto
    dell’esecuzione di Giovanni Battista da parte di Erode (6,14-29), secondo altri ancora con la
    missione dei Dodici (6,7). In ogni caso la visita di Gesù a Nazaret (6,1-6) apparterrebbe
    ancora alla sezione precedente.
    A mio avviso, invece, la sezione inizia prima, con la visita di Gesù a Nazaret e con il suo
    rifiuto da parte dei nazaretani (6,1-6a): infatti apparirà soprattutto che, in base alla logica
    interna che presiede a tutta la sezione, questo episodio non si può staccare da quello seguente,
    l’invio dei discepoli (vv. 6b-13) che termina con il loro ritorno presso Gesù (cfr. 6,30).
  • 4 –
    Le articolazioni interne della sezione sono abbastanza chiare. Una prima arco narrativo è
    quello appunto che va dall’episodio di Nazaret fino al ritorno dei discepoli (6,1-30): in esso è
    inclusa una lunga parentesi sulla morte di Giovanni Battista (vv. 14-29).
    Dopo il ritorno dei discepoli da Gesù ha inizio un secondo blocco narrativo caratterizzato
    da due moltiplicazioni dei pani, una in Galilea (6,30-44) e l’altra nella Decapoli (8,1-10).
    Dopo il primo di questi due miracoli si situano l’episodio di Gesù che cammina sulle acque
    (6,45-52), un sommario circa la sua attività in Galilea (6,53-56) e infine una discussione con
    gli scribi e i farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). Al termine di quest’ultimo episodio Gesù
    si reca nel territorio di Tiro e Sidone, dove opera la guarigione della figlia di una donna sirofenicia (7,24-30) e poi di un sordomuto (7,31-37). Dopo la seconda moltiplicazione dei pani è
    riportata la richiesta di un segno da parte dei farisei (8,11-13). Conclude il tutto una
    discussione di Gesù con i discepoli circa il lievito dei farisei e di Erode (8,14-21) e infine la
    guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26).
    Nello sviluppo della sezione è importante soprattutto la discussione con gli scribi e i
    farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). La presenza di questo lungo brano sorprende il lettore
    perché il vangelo di Marco contiene solo due raccolte un po’ estese di detti, il discorso
    parabolico (c. 4) e il discorso escatologico (c. 13). Dunque se Marco ha riportato proprio qui
    questa raccolta, ciò significa che gli serviva ai fini della composizione di questa sezione.
    Subito dopo questa discussione (7,24) Gesù esce dal territorio di Israele e si reca in terra
    pagana, nel territorio di Tiro e Sidone (Fenicia). Già in precedenza aveva compiuto una
    veloce sortita fuori di Israele, quando si era recato sull’altra sponda del lago di Galilea e aveva
    guarito l’indemoniato geraseno (5,1-20), ma era subito rientrato. Invece, da questo momento
    in poi Gesù si trova sostanzialmente «all’estero», come appare all’inizio della sezione
    successiva, quando si trova solo con i suoi discepoli nei pressi di Cesarea di Filippo e chiede
    loro: «Voi chi dite che io sia?» (cfr. 8,27-33). È vero che in singole occasioni Gesù appare
    ancora, sebbene in modo fugace, in Galilea o in Giudea, tuttavia è probabile che in questi casi
    l’indicazione di luogo non sia dovuta dall’evangelista, ma facesse parte delle tradizioni da lui
    utilizzate. Quindi, secondo Marco, Gesù resta fuori dal territorio di Israele finché riappare a
    Gerico, per procedere poi verso Gerusalemme, dove avrà luogo la sua passione e morte.
    Il miracolo compiuto da Gesù nel territorio di Tiro e Sidone in favore di una donna sirofenicia (7,24-30), rappresenta, a parer mio, la chiave interpretativa di questa sezione. Ad esso
    quindi rivolgiamo anzitutto la nostra attenzione, per poter poi studiare, alla sua luce, le due
    parti che la compongono.
  1. GUARIGIONE DELLA FIGLIA DI UNA SIRO-FENICIA
    (7,24-30)
    Il miracolo narrato in questo brano ha luogo mentre Gesù si trova dalle parti di Tiro e
    Sidone, in un territorio abitato quasi esclusivamente da gentili. Egli vi si trova quasi in
    incognito, perché non vuole che alcuno lo sappia. Ma subito si reca da lui una donna che ha
    una figlioletta posseduta da uno «spirito immondo» e, gettandosi ai suoi piedi, gli chiede di
    guarirla.
    Nel corso del suo vangelo Marco dà grande importanza alla liberazione degli indemoniati
    perché in queste persone vede il focalizzarsi di una potenza avversa a Dio. È vero che per lui,
    come per Gesù e per tutto il mondo giudaico, il male risiede nel cuore degli uomini e di lì esce
    e si propaga (cfr. 7,21-23). Tuttavia questo male era visto come qualcosa di oggettivo che
    contamina i rapporti fra le persone e veniva facilmente identificato con un’entità personale di
    carattere mitologico, il demonio, l’angelo decaduto, che si oppone a Dio. Esso poi veniva
    visto all’opera specialmente in persone che avevano gravi disagi di carattere psichico, la cui
  • 5 –
    origine era altrimenti incomprensibile. In realtà, secondo la percezione moderna, l’alienazione
    mentale dipende in gran parte proprio da quelle strutture ingiuste che regolano negativamente
    i rapporti sociali. L’evangelista non esplicita questo ragionamento, ma considera la
    liberazione di un indemoniato come il segno per eccellenza che attesta la venuta del regno di
    Dio: tant’è vero che il primo miracolo compiuto da Gesù nel secondo vangelo è proprio la
    guarigione di un ossesso (1,21-28). Perciò la donna che chiede a Gesù la guarigione della
    figlioletta posseduta da uno spirito immondo, esige senza saperlo un segno di quella salvezza
    piena e definitiva che coincide con la venuta del Regno.
    L’evangelista sottolinea di proposito che «quella donna che lo pregava di scacciare il
    demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia». Per lui è importante che il lettore si
    renda ben conto che si tratta di una donna non ebrea a tutti gli effetti. Ella cerca dunque di
    forzare il principio secondo cui la salvezza è per i giudei. Perciò Gesù le dice: «Lascia prima
    che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Per i giudei
    i cani erano i gentili; il pane dei figli simboleggiava la salvezza che, essendo destinata al
    popolo ebraico, non poteva essere data ai gentili. La durezza di questa affermazione è appena
    attenuta dal diminutivo «cagnolini» con cui i gentili vengono designati. Ma la donna replica:
    «Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli». Con
    queste parole ella riconosce che effettivamente non avrebbe diritto a tale miracolo, perché è
    fuori discussione che la salvezza appartiene ai giudei, ma gli chiede semplicemente di fare
    un’eccezione. Allora egli le dice: «Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia».
    E ciò si attua puntualmente.
    Per capire il discorso di Marco è utile confrontare il suo racconto con quello di Matteo
    (15,21-28). Anche secondo questo vangelo Gesù si è recato dalle parti di Sidone e Tiro, dove
    gli viene incontro la donna cananea; questa si mette a gridare verso di lui, «ma egli non le
    rivolse neppure una parola». Allora i discepoli gli chiedono di esaudirla, se non altro per
    evitare che li segua gridando. Ma Gesù risponde: «Non sono stato inviato che alle pecore
    perdute della casa di Israele». Questa frase, così dura, si trova solo in Matteo, il quale
    prosegue narrando che ella viene, si prostra dinanzi a lui chiedendo di essere aiutata. Allora
    Gesù le dice: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
    Questa risposta è la stessa che si trova in Marco, ma manca la prima parte della frase:
    «Lascia prima che si sfamino i figli». La conclusione, poi, è uguale: la donna ribatte che
    anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora
    Gesù, dopo aver lodato la sua fede, le concede la grazia richiesta. Secondo la versione di
    Matteo Gesù, pur essendo venuto solo per gli israeliti, fa un miracolo per questa donna pagana
    per il semplice motivo che ella ha fede, cioè crede che Gesù è stato effettivamente mandato al
    popolo giudaico, ma ha il potere, se vuole, di fare qualche dono di grazia anche agli altri.
    Quindi Gesù accetta la richiesta della donna pagana, ma lo fa in via eccezionale; in altre
    parole si tratta dell’eccezione che conferma la regola.
    Questa interpretazione è confermata, sempre nel vangelo di Matteo, da un altro racconto,
    quello del centurione che aveva il servo ammalato (8,5-13): egli chiede a Gesù di guarire un
    suo servo, ma quando Gesù dice «Io verrò e lo curerò», si profonde in scuse, dicendo di non
    essere degno di riceverlo in casa sua e chiedendogli di curarlo da lontano. Gesù allora afferma
    di non aver trovato tanta fede in Israele e guarisce il servo. La reazione del centurione si
    spiega solo supponendo che Gesù non ha detto che sarebbe andato a casa sua, ma piuttosto ha
    fatto una domanda: «Dovrò forse venire a curarlo?». A questa domanda si attende una risposta
    negativa: in quanto ebreo Gesù non può entrare in casa di gentili, e quindi non può andare a
    guarire il servo del centurione. Per questo egli allora ribatte che Gesù non ha bisogno di
    andare da lui, ma può guarire il servo a distanza. Anche questa volta la guarigione avviene in
    via eccezionale, restando ferma la regola che la salvezza è per i giudei. Secondo Matteo Gesù
    invierà i discepoli ai gentili solo dopo la sua risurrezione (Mt 28,19).
  • 6 –
    Ritornando ora a Marco, bisogna ammettere che, stando al senso del discorso, la frase che
    non si trova in Matteo («Lascia prima che si sfamino i figli») non sia stata omessa da questo
    evangelista, ma sia chiaramente un’aggiunta di Marco stesso. Infatti l’accenno a un «prima»
    lascia chiaramente supporre l’esistenza di un «dopo»: ora, se Gesù ha limitato la sua attività al
    mondo ebraico, non si vede in che senso si può parlare di un «dopo», almeno durante la sua
    vita terrena. Pur dipendendo da Marco, su questo punto ha ragione Matteo che omette questa
    frase ispirandosi forse a una tradizione più antica di cui era a conoscenza.
    Ma proprio questa dialettica tra «prima» e «poi» che Marco introduce nella risposta di
    Gesù manifesta il modo in cui egli leggeva l’episodio: è vero che il pane della salvezza
    appartiene ai figli, ma dopo di loro esso è donato anche agli altri. E questo «dopo» sta
    iniziando già ora con la guarigione della figlia della donna siro-fenicia. Marco dunque non
    vede in ciò che Gesù sta per fare una semplice eccezione alla regola, ma l’inizio di una nuova
    fase della sua attività in cui la salvezza è offerta ai gentili.
  1. GLI INIZI DELLA MISSIONE AI GENTILI
    Il susseguirsi di un «prima» e di un «poi» appare anzitutto nella prima parte della sezione,
    quella cioè del rifiuto opposto a Gesù dai nazaretani, seguito dal conferimento ai discepoli di
    un compito missionario.
    5.1. L’episodio di Nazaret (6,1-6a)
    La visita a Nazaret si inserisce bene nell’ambito del ministero di Gesù in Galilea. È
    comprensibile che, per parlare ai suoi compaesani, Gesù approfitti del giorno di sabato,
    quando tutti sono radunati nella sinagoga. Marco non dice il tema della predicazione, ma
    mostra lo stupore dei presenti e i loro commenti. Essi trovano difficoltà ad accettare il suo
    insegnamento, nel quale essi riconoscono una manifestazione di sapienza, cioè una grande
    autorevolezza, a causa delle sua origine umile, e soprattutto ben nota a tutti. Ma proprio
    questo è molto strano: non avrebbero dovuto piuttosto essere contenti ed orgogliosi di lui, un
    loro compaesano divenuto famoso?
    Per capire che cosa effettivamente è accaduto a Nazaret dobbiamo soffermarci sulla frase
    finale: «E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li
    guarì. E si meravigliava della loro incredulità» (vv. 5-6). Questa constatazione si spiega più
    chiaramente alla luce di quanto riporta Luca nella sua versione di questo episodio (Lc 4,14-
    30). Secondo il terzo evangelista Gesù commenta la diffidenza dei suoi compaesani con
    queste parole: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo
    udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria!» (v. 23). Questa frase lascia
    capire che i nazaretani reagiscono con freddezza all’insegnamento di Gesù in quanto ritengono
    che questo personaggio, diventato famoso proprio per i suoi miracoli, dovrebbe cominciare a
    farli proprio nel suo paese, tra i suoi parenti e famigliari. A queste attese interessate Gesù
    risponde portando l’esempio di due profeti: Elia durante la carestia non si rivolge a tutte le
    vedove bisognose di Israele, ma sfama miracolosamente una donna straniera, la vedova di
    Sarepta (v. 26); trascurando tutti i lebbrosi presenti in Israele, Eliseo va a guarire proprio uno
    straniero, Naaman il siro (v. 27). I miracoli di Gesù sono segni del regno di Dio, e non un
    servizio sanitario offerto da Dio ai soliti privilegiati. Essi vengono offerti a chi è disposto a
    credere, non a chi li pretende come un diritto acquisito.
    Torniamo a Marco. Anch’egli lascia intendere che il punto di attrito tra Gesù e i
    nazaretani sta nella loro pretesa, delusa da lui, di essere i principali destinatari dei suoi
    miracoli. L’evangelista ha rimanipolato il racconto (o l’ha già trovato così trasformato) in
    chiave cristologica: i nazaretani rifiutano Gesù perché sono delusi nella loro aspettativa di un
  • 7 –
    Messia trascendente, la cui origine è sconosciuta (cfr. Gv 7,27). Ma soprattutto egli mette
    sulla bocca di Gesù questa frase: «Nessun profeta è accetto in casa sua». Il rifiuto dei
    nazaretani appare così come espressione non tanto dell’egoismo di un gruppetto di contadini,
    ma del peccato di tutto Israele, che rifiuta Gesù come ha sempre rifiutato coloro che gli erano
    stati inviati da Dio. Il loro comportamento diventa simbolo e anticipazione di quello che sarà
    il rifiuto che tutto il popolo ebraico opporrà al suo Messia (anche se Marco farà poi capire che
    responsabili sono soprattutto i capi del popolo).
    5.2. L’invio dei discepoli (6,6b-13)
    Alla scena del rifiuto di Gesù a Nazaret fa seguito immediatamente la missione dei
    Dodici: «Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. Allora chiamò i Dodici, e
    incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi» (vv. 6b-7). Il
    potere sugli «spiriti immondi» è il segno per eccellenza del Regno di Dio: l’annunzio della sua
    venuta costituisce dunque il motivo dell’invio dei discepoli (cfr. Lc 10,9). Queste potenze che
    si oppongono a Dio sono le uniche veramente «impure», mentre in seguito Gesù dichiarerà
    puri tutti gli alimenti (7,19), e di conseguenza anche i gentili, come già precedentemente
    aveva reso puri i lebbrosi (1,44).
    Alla notizia dell’invio fa seguito immediatamente la descrizione dell’equipaggiamento
    degli inviati: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né
    pane (ecco che appare per la prima volta questo termine), né bisaccia, né denaro nella borsa;
    ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (vv. 8-9). Secondo Marco Gesù
    permette il bastone, che serviva per facilitare il cammino e per un minimo di difesa, e un paio
    di sandali, che proteggevano i piedi dai sassi e dal calore eccessivo del terreno. Nei passi
    paralleli di Matteo (10,10) e di Luca (9,3; 10,4) invece Gesù è stato molto più radicale nelle
    sue direttive di viaggio, in quanto proibisce, insieme al resto, anche bastone e sandali. Senza
    neppure questi due strumenti essenziali a ogni viandante, i discepoli erano costretti a correre e
    a portare a termine in fretta la loro missione: si ha quindi l’impressione che si tratti di una
    missione ristretta a un piccolo territorio (la Galilea), e a un tempo breve (il regno di Dio è
    vicino). Ciò è sottolineato da Matteo, secondo il quale Gesù ha detto ai discepoli: «Non
    andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore
    perdute della casa d’Israele» (10,5b-6).
    Anche in questo caso si deve supporre che la versione di Matteo e di Luca sia più arcaica
    di quella di Marco: essa infatti si rifà alla fonte Q e per di più è in sintonia con l’esigenza di
    rinuncia totale prospettata da Gesù; inoltre è evidente che la missione dei discepoli è
    circoscritta alla Galilea per la brevità del tempo che secondo Gesù separa dalla venuta del
    Regno. Perché dunque Marco ha cambiato le parole del Signore? Per rispondere a questo
    interrogativo bisogna notare che la finale canonica del secondo vangelo (16,9-20) è ritenuta
    oggi quasi universalmente come un’aggiunta: così come è uscito dalla penna di Marco il
    vangelo finiva con l’episodio delle donne che, dopo aver ricevuto al sepolcro l’annunzio della
    risurrezione di Gesù, fuggono spaventate e «non dissero niente a nessuno perché avevano
    paura» (16,8). Nell’aggiunta successiva si dice che Gesù risorto dà ai suoi discepoli il
    mandato di annunziare il vangelo a tutto il mondo. Ma nel vangelo «autentico» di Marco
    l’invio ai gentili è assente.
    Marco si è forse dimenticato di un dettaglio di tale importanza, lui che è «l’evangelista
    dei gentili»? Certamente no: al contrario per lui l’invio ai gentili ha già avuto luogo quando
    Gesù si trova in Galilea. Per questa ragione egli ritocca la tradizione a sua disposizione:
    dovendo coprire lunghe distanze in territori lontani, i discepoli devono essere meglio
    «equipaggiati», cioè devono indossare almeno un paio di sandali e portare con sé un bastone.
    E in funzione di ciò egli non riporta alcuna limitazione territoriale, come invece aveva fatto
    Matteo. Se le cose stanno così, allora vuol dire che per Marco Gesù, dopo aver offerto la
  • 8 –
    salvezza a Israele (simboleggiato nei suoi compaesani di Nazaret) ed essere stato rifiutato, per
    mezzo dei discepoli estende la sua opera ai gentili. Egli dunque vuole mostrare, in conformità
    al principio emerso nell’episodio della donna siro-fenicia, che il vangelo è stato offerto da
    Gesù «prima» ai giudei, ai quali era stato promesso da Dio mediante i profeti, ma «poi», dopo
    che essi l’hanno rifiutato, è stato messo da lui stesso, già durante la sua vita terrena, a
    disposizione dei gentili, cioè di tutti.
    Il rifiuto di Gesù da parte dei nazaretani e l’invio dei discepoli ai gentili sono dunque in
    Marco due episodi sono strettamente collegati. Non è quindi consigliabile spezzare questa
    unità, come fanno invece Matteo e Luca, nonché quei commentatori che fanno iniziare una
    nuova sezione con Mc 6,6b.
  1. LE DUE MOLTIPLICAZIONI DEI PANI
    La stessa dialettica del «prima» e del «poi» appare anche nella seconda parte della
    sezione, che è caratterizzata da due moltiplicazioni dei pani, separate da alcuni brani, tra
    spicca soprattutto quello in cui è riportata una lunga discussione con gli scribi e i farisei circa
    la questione dei cibi.
    6.1. Prima moltiplicazione dei pani (6,30-44)
    Questo episodio si situa nel territorio della Galilea e viene descritto dall’evangelista
    mediante numerosi simboli tipici del mondo biblico. Gesù sente compassione per la folla,
    «perché erano come pecore senza pastore». La «compassione» esprime la misericordia di Dio
    verso il popolo peccatore (cfr. Es 34,6). Il gregge è un simbolo per eccellenza di Israele (cfr.
    Nm 27,16-17). Il «pane» come dono divino ricorda la manna (Es 16; Nm 11,5), quindi
    l’esodo e la salvezza. I pani sono «cinque», numero che ricorda i libri della Torah (nutrimento
    spirituale di Israele) ed è la metà di dieci, che è il numero dei Comandamenti. I pesci alludono
    alle quaglie date insieme alla manna. Ci sono le dodici «ceste», che erano uno strumento usato
    a Roma prevalentemente dagli ebrei; le ceste nei quali sono messi i resti sono «dodici»,
    ricordo delle dodici tribù di Israele. Poi c’è il fatto che coloro che avevano mangiato erano
    «cinquemila» (ripresa di «cinque»); la divisione della folla in gruppi è un richiamo
    all’organizzazione di Israele nel deserto (cfr. Es 18,21.25); Gesù compie una specie di rituale
    ebraico: leva gli occhi al cielo, pronunzia la benedizione, spezza i pani, li dà ai discepoli.
    Dunque l’evangelista usa un simbolismo che riporta ad una folla giudaica. I presenti sono
    giudei e ciò che Gesù dona loro è «il pane dei figli», cioè la salvezza che Dio aveva promesso
    al suo popolo.
    In questo episodio appare con chiarezza il tipo di salvezza portata da Gesù: essa consiste
    nella riaggregazione del popolo di Dio, che ritrova la sua coesione medianti i rapporti nuovi
    che si stabiliscono tra i suoi membri in forza della fede in JHWH, di cui Gesù è l’inviato.
    Successivamente l’evangelista riporta l’episodio di Gesù che cammina sulle acque (6,45-52):
    anche qui è chiaro il collegamento con l’esodo, dove si racconta che Dio passa attraverso il
    mare dei Giunchi alla testa del suo popolo. Seguono numerose guarigioni (6,53-56), che
    approfondiscono ulteriormente il tema della salvezza portata da Gesù.
    6.2. Discussione con gli scribi e i farisei (7,1-23)
    Contrariamente alla sua abitudine di dare la preferenza ai racconti, l’evangelista riporta
    qui una serie di detti riguardanti il problema degli alimenti puri e impuri che a prima vista non
    hanno nulla a che vedere con la tematica della sezione. Il collegamento si coglie a partire da
    questa affermazione di Gesù, che rappresenta il culmine di tutta la raccolta: «Non capite che
    tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore
  • 9 –
    ma nel ventre e va a finire nella fogna?» (vv. 18-19a). Ma soprattutto è significativo il
    commento che ne dà l’evangelista: «Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (v. 19b).
    Gli usi alimentari dei giudei rappresentavano infatti la barriera più forte che separava i
    giudei dai gentili, i quali erano considerati impuri soprattutto perché mangiavano cibi proibiti
    dalla legge mosaica. La connessione tra l’osservanza delle norme alimentari e i contatti con i
    gentili appare soprattutto nell’episodio del centurione Cornelio, dal quale Pietro accetta di
    recarsi solo dopo che una rivelazione celeste gli ha fatto capire che tutti gli alimenti sono puri
    (At 10,9-16.28-29).
    Proprio l’episodio di Cornelio fa capire che il superamento delle prescrizioni alimentari
    giudaiche si è attuato dopo la morte e risurrezione di Gesù ed è stato accettato solo in parte e
    con difficoltà dagli ambienti giudeo-cristiani di Gerusalemme. Lo stesso Matteo, che riflette
    una comunità moderatamente giudaizzante, pur facendo uso di Mc 7,1-23, non si sente di
    accogliere nel suo vangelo il principio affermato da Marco nel v. 19b. Per Marco invece è
    importante sottolineare che Gesù ha dichiarato puri tutti gli alimenti, perché questa frase gli
    serve per dimostrare che Gesù ha demolito proprio la barriera che divide i gentili dai giudei.
    Ciò significa che egli ha ormai portato a termine la prima parte della sua opera, cioè il
    conferimento della salvezza al popolo eletto. Subito dopo Gesù lascia la Galilea e compie due
    miracoli in territorio pagano, la guarigione della figlia della donna siro-fenicia e la guarigione
    di un sordomuto, che attestano la venuta del regno di Dio anche per i gentili. Per lui il dono
    della salvezza ai gentili non ha avuto inizio con la visione di Pietro e il successivo incontro
    con Cornelio, ma è già stato attuato dallo stesso Gesù, che ha dimostrato così la destinazione
    universale del suo messaggio.
    6.3. Seconda moltiplicazione dei pani (8,1-10)
    A questo punto l’evangelista riporta un altro racconto nel quale Gesù distribuisce il pane
    alla folla. Questa volta però, a differenza di quanto era avvenuto nel primo episodio, il fatto
    avviene nella Decapoli (cfr. 7,31), in territorio abitato da gentili. Di nuovo i discepoli sono
    presi di sorpresa e neppure immaginano che Gesù possa fare qualcosa di simile. Diversi
    dettagli di questo racconto però sono diversi da quelli del precedente. Riguardo ai presenti si
    dice che alcuni di loro venivano «da lontano» (8,3): nella terminologia del Nuovo Testamento
    i «lontani» sono i gentili (cfr. Ef 2,13). I pani non sono più cinque, ma sette, come sette (e non
    più dodici) sono le sporte dei pezzi avanzati: il numero «sette» era facilmente applicato ai
    gentili, come appare dal fatto che settanta (7×10) sono le nazioni del mondo (Gen 10), sette
    sono i precetti che, secondo la tradizione rabbinica, Noè avrebbe promulgato dopo il diluvio
    per i suoi figli e per l’intera umanità, settanta sono i traduttori della Bibbia in greco (la Bibbia
    del mondo gentile). Inoltre il termine «sporta» indica un contenitore usato da tutti e non
    prevalentemente dai giudei, come erano le ceste. Infine il fatto che i presenti fossero
    «quattromila» ricorda i quattro venti da cui saranno radunati gli eletti (cfr. Mc 13,27).
    In vari modi dunque il simbolismo di questo racconto rimanda ai gentili. Probabilmente
    l’evangelista conosceva due versioni di un unico racconto in cui si narrava il dono del pane da
    parte di Gesù alla folla, la prima appartenente a una chiesa di origine giudaica e la seconda
    che rispecchiava la sensibilità di una chiesa di origine gentile: ciò è confermato dal fatto che il
    vangelo di Giovanni e quello di Luca hanno una sola moltiplicazione dei pani. Riportando i
    due racconti nella stessa sezione Marco vuole far vedere in modo plastico che la salvezza,
    donata «prima» ai giudei, è stata «poi» messa da Gesù stesso a disposizione dei gentili, cioè di
    tutti.
    Le due moltiplicazioni dei pani vengono strettamente collegate tra loro mediante un
    dibattito tra Gesù e i suoi discepoli, che viene situato durante la successiva traversata del lago
    (8,14-21). Gesù si rammarica perché, pur avendo assistito due volte a un miracolo così
    strepitoso, essi si preoccupano ancora del pane materiale, e li rimprovera di avere il cuore
  • 10 –
    indurito e di non saper vedere con i loro occhi. Subito dopo viene narrata la guarigione di un
    cieco che avviene in due momenti (8,22-26). Ciò significa che anche i discepoli saranno
    guariti dalla loro cecità. Ma la loro guarigione, come quella del cieco, avverrà in modo
    progressivo, in quanto Gesù nella sezione successiva li istruirà per ben tre volte sulla sua
    imminente passione, morte e risurrezione. Alla fine della sezione il compimento di questa
    opera di illuminazione verrà significato mediante la guarigione di un altro cieco, Bartimeo
    (10,46-52).
  1. CONCLUSIONE
    La sezione del vangelo di Marco che abbiamo esaminato è molto importante perché in
    essa l’evangelista mette a fuoco alcuni temi che gli stanno particolarmente a cuore. Anzitutto
    egli vuole mostrare come la predicazione di Gesù in Galilea rappresenti l’inaugurazione del
    Regno in favore di tutto Israele. Dio non è dunque venuto meno alle promesse fatte al suo
    popolo e gli ha inviato un profeta pieno di sapienza (6,2.4). Per mezzo suo Dio ha fatto
    veramente i segni della salvezza già prefigurati nel periodo dell’esodo e in quello del ritorno
    dall’esilio: raduno del popolo di Dio (gregge e pastore), conferimento della legge
    (l’insegnamento di Gesù), dono della manna, passaggio del mare, guarigione delle malattie e
    delle sofferenze del popolo. Soprattutto Marco ha voluto sottolineare come proprio in questa
    aggregazione del popolo intorno a Gesù si manifesta il tipo di salvezza voluto da Dio, che
    consiste nell’abbattimento di tutte le barriere che separano i suoi figli gli uni dagli altri; tra
    questi fattori disgreganti Gesù indica soprattutto la legge mosaica, la cui pratica era diventata
    un criterio di discriminazione all’interno del popolo.
    La salvezza donata a Israele, proprio perché implica l’eliminazione di tutte le
    discriminazioni, tende a superare la barriera per eccellenza, quella che separa il popolo eletto
    dai gentili e raggiunge necessariamente tutta l’umanità. Ma purtroppo Israele, ancora
    arroccato nei propri privilegi, non è disposto a seguire Gesù su questa strada. Si apre quindi
    una profonda frattura tra il popolo e il suo messia, che appare come il culmine dell’infedeltà al
    suo Dio. Ma proprio questo rifiuto, simboleggiato nel comportamento degli abitanti di
    Nazaret, accelera i tempi e provoca l’invio missionario dei discepoli, aperto ormai a tutta
    l’umanità, e soprattutto spinge Gesù a rivolgersi egli stesso ai gentili.
    L’interesse che, secondo Marco, Gesù stesso ha manifestato durante il suo ministero
    pubblico nei confronti dei gentili implica il superamento del concetto stesso di «popolo di
    Dio» così caro ai suoi connazionali. Se la salvezza è offerta a tutti, non può più esistere un
    popolo eletto (né Israele né la chiesa) a cui i gentili si aggregano; il concetto stesso di alleanza
    viene superato nel senso che in Gesù Dio conferisce ormai a tutti la possibilità di godere la
    comunione con Dio (cfr. 14,24). In questa prospettiva è chiaro che i discepoli hanno ragione
    di esistere solo se annunziano a tutti la venuta del regno, che in modi e tempi diversi deve
    appunto coinvolgere tutta l’umanità. Secondo una terminologia moderna si può dire che la
    teologia di Marco non è né cristocentrica né ecclesiocentrica, ma “regnocentrica”.
    Si spiega allora perché più volte in questa sezione i discepoli stessi sono criticati da Gesù,
    del quale non comprendono le parole e i gesti. Anch’essi come il popolo di Israele sono privi
    di intelletto (7,18), hanno il cuore indurito (6,52; 8,17-18), perché non sanno seguire il
    Maestro su un punto così importante delicato quale l’annunzio universale della salvezza.
    Presentando i discepoli in un modo così impietoso Marco vuole forse criticare non tanto il
    loro atteggiamento prima della morte e risurrezione del Maestro, quanto piuttosto quello della
    comunità a cui è indirizzato il suo vangelo. Essa infatti si è ripiegata su se stessa, sui propri
    problemi e sul suo sviluppo numerico, mettendo in secondo piano l’impegno di annunziare la
    venuta del Regno a tutta l’umanità. La sezione successiva metterà in luce l’opera compiuta da
  • 11 –
    Gesù per guarire insieme ai discepoli anche la comunità che rappresentano. Ma l’evangelista
    sa che si tratta di un’illuminazione parziale e provvisoria, perché nel momento della passione
    tutti i discepoli lo abbandoneranno (14,50)
Donne Chiesa Mondo

Donne Chiesa Mondo

Il cammino delle donne dal Concilio Vaticano II al Sinodo sulla sinodalità

Dal silenzio alla parola

Ripercorre il cammino delle donne nella Chiesa, dal Concilio Vaticano II al recente Sinodo sulla sinodalità, il numero di novembre di “Donne Chiesa Mondo”, il mensile femminile de L’Osservatore Romano, coordinato da Rita Pinci.
“Dal silenzio alla parola” è il titolo di copertina, illustrata con due foto, quasi speculari ma diversissime. La prima è stata scattata nel settembre 1964: sono le “madri conciliari” il giorno in cui entrano a San Pietro, le 23 donne (religiose e laiche) ammesse ai lavori ma solo come uditrici. La seconda è dello scorso ottobre: sono le “madri sinodali” che entrano nell’Aula Paolo VI per il Sinodo dei vescovi, in cui per la prima volta 54 donne hanno potuto votare. “Donne Chiesa Mondo” racconta in che modo posizione, ruolo e consapevolezza delle donne nella Chiesa sono cambiati in sessanta anni; sorti progressive ma, nei decenni, anche qualche retromarcia, come sottolinea Mercedes Navarro Puerto, suora mercedaria e biblista, che scrive sulle religiose dopo il Concilio e offre una testimonianza in prima persona.
Molti gli interventi di chi la lezione del Concilio l’ha recepita e sperimentata da fedele, da religiosa, o nella vita professionale e politica: Cettina Militello, tra le prime donne italiane iscritte a una facoltà teologica; suor Nicla Spezzati, tra le prime ad avere un incarico ai vertici in Curia; Rosy Bindi, dirigente dell’Azione Cattolica e poi ministro della Repubblica italiana. Da scrittrice, Carola Susani racconta attraverso una lettera immaginaria a una ragazza di oggi le riflessioni di una madre conciliare. E c’è l’esperienza nei movimenti laicali femminili, nell’Azione Cattolica, nello scoutismo, nei Focolari: cattoliche che già prima del Concilio avevano scoperto un protagonismo delle donne fuori di casa e dentro la Chiesa.

Donne Chiesa Mondo: nel numero di novembre il cammino delle donne dal Concilio Vaticano II al Sinodo sulla sinodalità | AgenSIR

La Grazia del Cuore Ardente in Missione

La Grazia del Cuore Ardente in Missione

OTTOBRE MISSIONARIO

“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024
LO STILE DI EMMAUS COME STILE DI DISCERNIMENTO E ACCOMPAGNAMENTO
di Rosalba Manes
Consacrata dell’ordo virginum e biblista (Pontificia Università Gregoriana)
La Bibbia ebraica si conclude con questo invito al viaggio: «Chiunque di voi appartiene al suo
popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23). Qual è la meta del salire di ogni
membro del popolo di Dio? È detto poco prima nello stesso versetto: «Così dice Ciro, re di Persia:
“Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli
un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda”».
Il Signore vuole che Gerusalemme sia la meta di attrazione di tutto il suo popolo. A partire da
questa conclusione, si può affermare davvero che «la Bibbia ebraica si pone interamente sotto il
segno del pellegrinaggio»1. E siccome la Bibbia ebraica confluisce negli scritti cristiani, anche il
Nuovo Testamento è posto sotto questo segno. I cristiani sono pellegrini, senza fissa dimora. Essi,
come ricorda la Lettera a Diogneto, «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a
tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e
ogni patria è straniera»2. I cristiani di ogni tempo e di ogni età sono pellegrini muniti di una ricca
collezione di parole, la Bibbia, che si offre sempre come casa “portatile”.
I giovani e la vita come viaggio
Anche la pericope evangelica di Luca relativa al viaggio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)
offre lo spunto per pensare la vita umana come un pellegrinaggio3. Le vite dei due discepoli, come
di tutti i personaggi che la Bibbia ci consegna, più che essere modelli, sono «vite in evoluzione»4,
investite in un pellegrinaggio che può essere percorso in modo spento oppure dinamico, a seconda
della compagnia e della meta. E questo ci fa pensare soprattutto alle vite dei giovani che sono così
tanto in evoluzione a motivo della crescita, della loro curiosità e del desiderio di mettersi alla
prova coinvolgendosi nelle esperienze più disparate.
Luca invita i suoi lettori a immedesimarsi con i suoi due pellegrini5, quasi ad offrire una
sintesi del suo vangelo6. Si tratta, però, di due pellegrini coinvolti in un viaggio drammatico, che si
1 J.-P. SONNET, Il canto del viaggio, Qiqajon, Magnano (Bi) 2009, 12.
2 A Diogneto, Città nuova, Roma 2008, V,5, 83.
3
«Con ogni probabilità, questo insistente richiamo al tema del cammino ha la sua spiegazione nel fatto che il
cammino di cui parla l’evangelista altro non è se non la vita del cristiano recepita a mo’ di pellegrinaggio e che esso ha
bisogno della presenza del Risorto per non diventare alienante e triste» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del Risorto ai
discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», in M. LACONI E COLLABORATORI, Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, Elle di ci,
Leumann (To) 1994, 438).
4 G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio», Esperienza e teologia 30 (2014), 26.
5 «Leggere la Bibbia sino in fondo è diventare pellegrini; diventare pellegrini biblici è accogliere il libro della
Scritture come guida delle nostre strade, divine e umane, da percorrere sino alla Gerusalemme di Dio» (J.-P. SONNET, Il
canto del viaggio, 12).
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024
muove, cioè, in direzione opposta a Gerusalemme. Essi, infatti, dopo aver smarrito l’entusiasmo
durante i tristi eventi della Passione, decidono di lasciarsi la città santa alle spalle, di dimenticare il
cammino fatto fino a quel momento, di tornare indietro, al punto di partenza, quando una parola
“altra” li aveva affascinati, interpellati e mossi a salire a Gerusalemme. Vogliono riabbracciare la
vita di un tempo, prima che la precarietà della sequela venisse a ritmare il cammino, prima di
investirsi in un percorso che ha condotto ad un vicolo cieco. I due partono risoluti verso Emmaus,
ma non è mai piacevole ritornare a casa senza premi o trofei e un senso di sconfitta fa capolino
interiormente: il cuore è gonfio di tristezza e il passo si fa pesante, lento.
Solo alla fine dell’intreccio narrativo, che ha un Sitz im Leben7 squisitamente liturgico, dopo
un incontro illuminante attraverso il quale il cuore si riaccende e gli occhi sono in grado di
riconoscere il Risorto e di vedere la novità, essi potranno riprendere lieti la marcia, consapevoli di
accogliere una chiamata e una missione rinnovate che hanno ancora una volta a che fare con
Gerusalemme, luogo dove germoglia la chiesa madre8.
Luca ci ricorda così che tutta la vita è un cammino di uscita incontro agli altri, un esodo dalla
tirannia dei bisogni, che porta a concentrarsi su di sé, alla ricerca appassionata della libertà da sé
per scoprire la forza del desiderio che allarga gli orizzonti, rende cercatori di senso e permette di
gustare la piena fioritura dei propri doni personali. La vita è un viaggio verso di sé, a contatto con
la propria vocazione più profonda, alla scoperta di un volto che interpella con la sua parola e con la
sua presenza, in un graduale apprendistato delle relazioni che porta chi non teme le salite e i
sentieri impervi alla scoperta della storia di alleanza e di salvezza di cui fa parte. La vita è un
viaggio meraviglioso che contempla, tuttavia, deragliamenti e battute d’arresto, prima di diventare
un «cammino di giustizia» (Sal 23,3) o «sentiero della vita» che è «gioia piena» e «dolcezza senza
fine» (Sal 16,11)
Chiamati a mettere «ali come aquile»
L’evangelista Luca offre ai destinatari della sua diḗghēsis («resoconto ordinato»)9 l’occasione
di riflettere sulla vita come occasione di incontro con un Dio pellegrino che non aspetta che la
creatura umana gli vada incontro, ma che si mette sulle sue tracce, la intercetta, l’accompagna
dispiegando la forza del suo eterno Io-con-te (cfr. Es 3,12; Sal 23,4) e si fa suo commensale (cf Gen
18,1-15).
6
«Lc 24 contiene… la storia biblica: leggendo questo capitolo, si attraversano tutte le promesse, tutte le
Scritture. Capitolo enciclopedico, gravido di tutto il passato: di Gesù e della storia che lo precedeva. […] Inizio e fine
del vangelo si corrispondono… In Lc 1, il narratore e l’angelo avevano invitato a rileggere la storia dei patriarchi e dei
profeti. In Lc 24, l’invito è lo stesso, esplicito stavolta; d’altronde non si tratta più di allusioni sparse qua e là, ma di una
rassegna completa: “E incominciando da Mosè e tutti i profeti, interpretò loro in tutte le Scritture ciò che lo riguardava”
(v. 27; cfr. anche v. 44)» (J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca,
Queriniana, Brescia 1991, 153).
7 Espressione tedesca che indica il «contesto vitale», cioè la situazione storica, sociale e culturale della comunità
primitiva.
8 I due discepoli di Emmaus «“descrivono” un cammino plausibile con cui confrontarsi, aprendo una possibilità
di incontro con il Risorto, che resta a disposizione di chi si lascia intrigare dal racconto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il
secondo annuncio», 27).
9 Si tratta del termine con cui l’evangelista in Lc 1,1, all’inizio del prologo, designa il suo vangelo.
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024
Dalla carenza di energia sperimentata da chi cammina con le sue sole forze il Dio pellegrino
dà a chi cammina in sua compagnia la possibilità di acquisire misteriosamente «ali come aquile»,
com’è descritto all’inizio del Libro della Consolazione di Isaia10. Questa forza supplementare,
queste «ali di aquile» (Es 19,4), la Sacra Scrittura desidera offrirle ai suoi lettori e in modo speciale
ai giovani perché diventino atleti dello Spirito del Risorto, pieni dell’energia che viene dalla Parola,
dall’Eucaristia e dalla comunione con gli altri.
Per questo il Sinodo dei giovani ha privilegiato l’icona biblica dei discepoli di Emmaus e l’ha
letta alla luce del cammino di accompagnamento dei giovani11. Il racconto evangelico che ne parla
non è tanto un racconto di apparizione ma piuttosto il «racconto della trasformazione di due
discepoli a partire dal riconoscimento del Risorto»12. Non il vedere qualcosa è al cuore del
racconto di Luca, ma il riconoscere qualcuno. Non sono, infatti, le cose che trasformano il cuore di
un giovane che si apre alla vita, ma un incontro con una Persona che si incide per sempre nella
memoria del cuore, creando un prima e un dopo. Si tratta di un’esperienza simile
all’innamoramento che aiuta a distinguere la vita da tutto ciò che è una sua copia sbiadita13 e
mette le ali ai piedi…
La delusione del vivere: i giovani in cerca di senso
Lc 24,13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome
Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme.
Il racconto di Luca parte da due discepoli increduli e delusi che si stanno separando da
Gerusalemme e dalla comunità. Si potrebbe parlare di un cammino di «de-vocazione»14. Gli eventi
della Pasqua hanno scandalizzato i seguaci di Gesù, al punto che alcuni di loro decidono di mettere
una pietra sopra alla loro esperienza di discepolato per ritornare alla vita di un tempo. È il
sopravvento dello scoramento che prende quanti si sentono feriti da un’esperienza sulla quale
avevano proiettato tante attese, ma che poi ha lasciato l’amaro in bocca.
L’evangelista Luca ci parla, in particolare, di due discepoli che lasciano Gerusalemme per
riprendere la strada di casa, compiendo il viaggio inverso a quello che domina l’intero Vangelo di
Luca. Sono diretti ad Emmaus, città non molto lontana (forse 7 km), ancora oggi di difficile
identificazione15. Attratti dalla parola di Gesù ed estratti dal loro ambiente, avevano intrapreso il
cammino della sequela, riponendo nel maestro di Nazareth le loro attese e soprattutto le loro
10 «Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti
inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza
affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,29-31).
11 FRANCESCO, Christus vivit, Esortazione Apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV,
Città del Vaticano 2019, nn. 156; 236; 292; 296.
12 L. MANICARDI, Raccontami una storia. Narrazione come luogo narrativo, Messaggero, Padova 2012, 189.
13 «Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai
ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza» (C. YANNARÁS, Variazioni sul Cantico dei cantici, Servitium, Milano
1997, 25).
14 Così viene chiamato il cammino dei due discepoli di Emmaus in L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192.
15 Questo cammino da Gerusalemme a Emmaus appare anche simbolico: Emmaus è la cittadina dove Giuda
Maccabeo nel 167 a.C. aveva sconfitto Gorgia, generale di Antioco IV Epifane (cfr. 1Mac 3,40.57; 4,3), quindi luogo
della vittoria contro un nemico di Israele. Dalla città della Pasqua i due discepoli scelgono di dirigersi alla città della
vittoria e della prospettiva messianica.
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
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speranze messianiche. Dopo gli eventi della Pasqua, però, non restano in loro che delusione e
tristezza per un’operazione non andata a buon fine, per un piano naufragato nel peggiore dei
modi.
Non resta che dimenticare, rimuovere il dolore per il fallimento e tornare alle sicurezze di un
tempo, quando il senso del vivere era dettato dal bisogno di procurarsi i mezzi di sussistenza e
prepararsi un futuro di benessere. Vi è un regresso che porta il cuore all’oblio dell’esperienza
fallimentare per cercare sostegno nel “mondo conosciuto”. La delusione, infatti, è nemica della
memoria e quando la memoria sbiadisce si perde il senso della propria chiamata, si azzera anche
tutto il bene che si è potuto sperimentare e ci si sente attratti a vivere «soltanto di pane» (Dt 8,3;
cfr. Lc 4,4).
Questo è lo sconforto che porta molti giovani a passare frettolosamente da un’esperienza
all’altra, senza il coraggio e la pazienza di rileggere ogni evento per «distinguere ciò che è prezioso
da ciò che è vile» (Ger 15,19).
La grazia del condividere: superare il mutismo dei giovani
Lc 24,14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.
Inizia il viaggio di ritorno. I due se ne vanno da Gerusalemme, quella città che avrebbe dovuto
profumare di pace – come dice il suo nome, che contiene la parola shalom – e che invece è satura
di odio. Imboccano la strada del ritorno, ma il silenzio fa paura e iniziano a conversare, accendono
il dialogo che libera la forza della compagnia che sola tiene a bada le angosce del cuore umano. È
la vittoria della relazione sul silenzio della solitudine, il trionfo della parola che sfida la morte, che
vuole aggrapparsi alla vita, nonostante la tristezza abbia preso il sopravvento nel cuore. Parlano i
due discepoli e parlano di tutto ciò che è accaduto nella città santa. Hanno voglia di parlare, forse
perché il silenzio li mette in un contatto troppo ravvicinato con la propria interiorità o forse
perché, pur volendosi sganciare al più presto dall’esperienza che li ha delusi, si sentono ancora
intimamente connessi ad essa.
La situazione iniziale del brano si caratterizza per un viaggio di ritorno scandito dalle parole di
una conversazione tra amici. Il parlare dei due discepoli presenta dei tratti particolari: Luca usa il
verbo omiléo, «discorrere», che proviene dal contesto liturgico (cfr. At 20,11), e il verbo syzetéo,
«cercare insieme», che evidenzia un conversare orientato a trovare una soluzione comune (cfr. At
15,7). Questo conversare manifesta la grazia di condividere, tenendo i cuori connessi l’uno
all’altro. Parlano i due amici, praticano l’arte salutare e salvifica del racconto16 e testimoniano che
c’è ancora un soffio di vita nel loro cuore indolenzito per via della grande delusione.
16 «la magia fondamentale della narrazione sta nella sua capacità di dare senso. Non è la cronaca dei fatti o la
mera registrazione di ciò che accade, ma solo la loro narrazione che produce senso e quindi rende vivibile e
sopportabile il mondo. Nel racconto i fatti divengono umani, cioè una trama di eventi significativi. Il racconto umanizza
il tempo. […] Così la vita si fa somigliante a un testo, a un tessuto, a un tappeto, per esempio, che è costituito da una
trama infinita di segni ciascuno dei quali, preso in se stesso, è privo di senso, ma che insieme agli altri forma un disegno
misterioso e affascinante. Il racconto crea ordine nel caos, crea unità fra le dimensioni del passato, del presente e del
futuro […] strappa l’uomo alla tirannia del presente…» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 25-26.27).
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024
Anche qui si coglie il bisogno impellente che i giovani hanno di raccontarsi esperienze,
problemi, paure, ignari a volte di non disporre tra coetanei di tutti i mezzi utili ad avanzare.
Parlano i due pellegrini che lasciano la città santa e gli altri amici, ma non come chi parla al vento.
Questa parola è suono che qualcuno riesce ad ascoltare…
La grazia del camminare insieme: vincere la solitudine e lo smarrimento dei giovani
Lc 24,15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con
loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi
discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?».
Il racconto lucano presenta una complicazione per via dell’apparizione di un terzo personaggio,
Gesù, che innesca la tensione drammatica del processo di riconoscimento. Mentre il lettore ne
conosce l’identità, i due discepoli la ignorano. Il Risorto, che è lo straniero per eccellenza, il
pellegrino che si lascia trovare mentre è vicino (cfr. Is 55,6) ed itinera lungo i nostri sentieri, in
cerca della pecora (cfr. Lc 15,4-7), della dracma (cfr. Lc 15,8-10) e dei figli (cfr. Lc 15,11-32)
smarriti, si fa loro compagno di viaggio, anche se “in borghese”. I loro occhi, però, non vedono o
meglio non sanno riconoscere e senza riconoscenza, si smarrisce anche la conoscenza del Maestro
e non è possibile il suo riconoscimento. Gli occhi dei discepoli sono chiusi alla fede, «incapaci di
leggere la storia alla luce della fede»17.
La pedagogia del Risorto sarà allora proprio quella di aiutarli a riconoscerlo, riaccendendo
gradualmente la memoria del cuore. Egli si accosta invitandoli a raccontarsi perché possano tirare
fuori il loro dolore e consegnarlo. Li stimola ulteriormente all’arte del racconto che permette di
dire, di dirsi e di dare senso. La narrazione, infatti, implica, per ogni persona e soprattutto per i
giovani, il coinvolgimento di tutte le facoltà personali alla ricerca dell’unità, della forma e del
senso, che spesso si nascondono nei dettagli della storia o nello sguardo di chi accoglie il racconto,
offrendo il suo tempo, donando se stesso. Essere attesi dallo sguardo di un altro è proprio per ogni
giovane la base per approdare a una comprensione nuova del proprio esistere e della propria
chiamata nella storia.
La grazia di raccontare e raccontarsi: intercettare gioie e dolori dei giovani
Lc24,17Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero
a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli
risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti
a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per
farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe
liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma
alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo
trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano
17 L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192.
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
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che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le
donne, ma lui non l’hanno visto».
Il pellegrino viene scambiato per uno straniero18 ignaro dei fatti. Egli allora sta al gioco e chiede
delucidazioni. Finge non per mentire, ma per guarire. Non vuole giocare con loro, ma aiutarli ad
esternare l’amarezza e riaccendere la memoria. Allora per liberarli dal senso di delusione, libera la
domanda: «Che cosa è successo?» e i due si fermano e mostrano la loro tristezza19 che incontra
finalmente un “luogo” dove poter essere depositata, consegnata: l’orecchio, il cuore, il tempo di
quel pellegrino.
La Christus vivit sottolinea la qualità dell’ascolto del Risorto e offre questo esempio come
prototipo a chiunque si accosti ai giovani per accompagnarli:
La prima sensibilità o attenzione è alla persona. Si tratta di ascoltare l’altro che ci sta
dando sé stesso nelle sue parole. Il segno di questo ascolto è il tempo che dedico
all’altro. Non è una questione di quantità, ma che l’altro senta che il mio tempo è suo:
il tempo di cui ha bisogno per esprimermi ciò che vuole. Deve sentire che lo ascolto
incondizionatamente, senza offendermi, senza scandalizzarmi, senza irritarmi, senza
stancarmi. Questo ascolto è quello che il Signore esercita quando si mette a
camminare accanto ai discepoli di Emmaus e li accompagna per un bel pezzo lungo una
strada che andava in direzione opposta a quella giusta (cfr Lc 24,13-35)20.
Alla domanda del pellegrino uno dei due, l’unico di cui si conosca il nome, Cleopa, imbastisce un
racconto sintetico del ministero di Gesù e della loro sequela, segnata dal ritmo della speranza, una
speranza che però la crocifissione ha spento del tutto e che i racconti della tomba vuota non sono
riusciti ad alimentare. Parla di Gesù di Nazaret, senza sapere che egli è suo compagno di viaggio.
Riprende le grandi tappe della sua vita: nome, luogo di origine, ministero, passione, identità dei
suoi avversari, tipo di morte. Identifica Gesù a «un profeta potente», solidarizza con i sommi
sacerdoti che chiama «nostri», parla di una pasqua priva di risurrezione cui fa cenno solo
rimandando a delle ipotesi (che i due non hanno voluto verificare) e termina con una speranza
naufragata nell’assenza di colui che era stato riconosciuto come un potenziale liberatore.
Cleopa allude a una storia ben precisa, senza però collegarla alla storia sacra. Richiama alla
mente, ma non risveglia la memoria. Sa parlare di Gesù, ma senza evangelizzare. Narra un vangelo
senza gioia e coinvolgimento emotivo, un resoconto cronachistico che lascia indifferenti21.
Cleopa somiglia a molti giovani di oggi che conoscono Cristo solo “per sentito dire”, che lo
nominano solo perché parte di una narrazione familiare trasmessa per via di «carne e sangue» e
non «per la potenza dello Spirito», che lo sentono morto o troppo lontano dalla loro esistenza così
18 Il verbo che Luca mette sulle labbra di Cleopa è paroikéō che indica la situazione di provvisorietà e di
estraneità del suo interlocutore, il fatto di dimorare in una terra straniera, come Abramo che «soggiornò (cioè si stabilì
come straniero) nella terra promessa come in una regione straniera» (Eb 11,9).
19 «Lo stato della loro “salute spirituale” traspare dai riflessi somatici: “scuri in volto”, “occhi impediti”. Sono
simbolicamente in una situazione di morte. Il loro stesso racconto riguardante Gesù appare come un necrologio, una
triste cronaca» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192-193).
20 FRANCESCO, Christus vivit n. 292.
21 Dopo il primo momento in cui si mostra alquanto evasivo, Cleopa si lancia nel racconto e «dà il via alla sua
esposizione, che non è un semplice resoconto dei fatti, ma un’evidente presa di posizione circa Gesù, il suo operato e la
sua sorte: riferisce di un passato ormai finito (vv. 19-20), denuncia un futuro disatteso (v. 21), approda su un presente
segnato dallo sconcerto e dal dubbio (vv. 22-24). Quello che manca non è la ricchezza del vissuto, ma un criterio che gli
dia senso, come dimostra il brusco intervento del Risorto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio, 34).
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lontana dal gergo con cui comunemente si narra la fede, un gergo che rigettano perché
moralistico, volto più a castigare che ad animare e a vivificare.
La grazia della comprensione della Pasqua: appassionare i giovani alle Scritture
Lc 24,25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non
bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando
da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Solo dopo che i due di Emmaus hanno fatto l’autodiagnosi della loro perdita di speranza il
forestiero interviene e prende la parola. Dopo aver ascoltato e aver permesso loro di estrarre tutta
l’amarezza e il non senso, rimprovera i due di mancare di intelligenza e di sentimenti per aver
creduto alla parola dei profeti. I profeti avevano parlato della prova come costante della vita
umana e del Dio che salva non dalle prove, ma all’interno delle prove e inizia a leggere le Scritture
profetiche, mostrando l’intima connessione tra queste e la sua vita. Lo sconosciuto denuncia la
loro fatica di cogliere il filo rosso della storia della salvezza e inaugura un’esposizione cristologica
delle Scritture: il Messia annunciato dai profeti ama gli asini e non i cavalli, elimina i carri e l’arco di
guerra (cfr. Zc 9,9), è compassionevole verso il dolore e la sofferenza umana (cfr. Is 53,4).
Formando i discepoli alla sequela, il Maestro aveva parlato della sua passione come via per
accedere alla gloria. Perciò il forestiero li scuote perché dall’essere ripiegati sulla fine di una storia
si aprano al germogliare di una creazione nuova. È una narrazione ossigenata la sua che va oltre la
lettera per coglierne lo Spirito e che illumina gli occhi del cuore. La Pasqua si può comprendere
solo alla luce delle Scritture d’Israele che contengono una pedagogia dell’umano che si realizza
pienamente in Cristo: «la parola del comando orienta, la parola profetica interviene per cambiare,
la parola sapienziale legge la storia. Gesù non è nella tomba, dietro una pietra che chiude il
passato, ma nelle Scritture gravide di speranza e portatrici di futuro che egli solo è venuto a
compiere (cfr. Lc 4,21)»22.
Gesù conferma le parole della Scrittura, mettendone in luce il loro sensus plenior23: l’eventoCristo, cioè tutti gli eventi connessi alla sua persona, conferma l’agire salvifico del Dio di Israele nel
passato, segno che la sua morte di Croce è la consegna piena di Dio all’uomo e combacia con
l’intenzionalità originaria di Dio di donare all’uomo tutto se stesso in un amore che va fino alla
fine.
Il Risorto insegna ad ogni educatore ed educatrice, ad ogni padre e madre spirituale, l’arte di
comunicare con larghezza la Parola che nutre il cuore e di aiutare la persona a loro affidata «a
decifrare il linguaggio che Dio usa verso di lei e a scoprire negli eventi della vita la parola di Dio per
lei»24. I giovani in tal modo si sentono adottati da qualcuno che li ama e sa donare loro il suo
tempo, che sa consegnare loro parole di senso, che li fa volgere verso un Altro, il Padre, e li aiuta a
vedersi nell’unità e non più nella dispersione, a vedersi con gli occhi di Dio e a tessere la propria
storia con il tessuto della Chiesa, per non rimanere individui ma un organismo vivo, comunitario.
22 R. MANES, «Il cielo si aprì». Il Dio misericordioso e tenero di Luca, Cittadella, Assisi 2015, 149.
23 «è importante rilevare la costante connessione fra la comprensione delle Scritture e la croce… La Croce non è
predetta dalla Scritture ma è “conforme” ad esse. V’è una circolarità ermeneutica: le Scritture rinviano a Cristo e Cristo
rinvia alle Scritture. Nel prisma della Pasqua i discepoli comprendono Gesù alla luce delle Scritture, ma anche le
Scritture alla luce di Gesù» (M. CRIMELLA, Luca. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo
(Mi) 2015, 371).
24 M.I. RUPNIK, Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla vita spirituale, Lipa, Roma 1996, 62012, 97.
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La grazia di riconoscere il Vivente: insegnare ai giovani l’arte del discernimento
Lc 24,28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più
lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione,
lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.
L’ermeneutica di Gesù esercita un tale fascino sui due discepoli di Emmaus che, pur essendo
giunti a destinazione, non possono più staccarsi dallo straniero. Egli fa come per andarsene e i due
reagiscono e lo invitano a restare: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al
tramonto» (Lc 24,29). Lo invitano così a restare e a condividere il pasto con loro, momento sacro
per la cultura orientale per rifare le forze e consolidare il vincolo di amicizia.
La Christus vivit ricorda la potenza della convivialità o ospitalità che il Nuovo Testamento
chiama filoxenía (cfr. Rm 12,13; Eb 13,2): «Quando Gesù fa come se dovesse proseguire perché
quei due sono arrivati a casa, allora capiscono che aveva donato loro il suo tempo, e a quel punto
gli regalano il proprio, offrendogli ospitalità. Questo ascolto attento e disinteressato indica il
valore che l’altra persona ha per noi, al di là delle sue idee e delle sue scelte di vita»25.
Dopo aver ricevuto in dono il tempo di quello straniero, i due discepoli desiderano donare il
proprio: resta con noi è, al tempo stesso, una richiesta e un’offerta. È chiedere aiuto e,
contemporaneamente, dimenticarsi di sé per mettere al centro l’altro. È incominciare a sentire il
sapore del dono e il senso del proprio stare al mondo.
Il pellegrino accetta e la sua presenza, le sue parole e i suoi gesti provocano un forte
impatto. Gli occhi si aprono e lo riconoscono: «dinanzi a loro non vi è più un ospite sconosciuto,
ma quel crocifisso che la tomba non è riuscita a trattenere e che per restare con i suoi si è fatto
parola e pane»26. La fractio panis libera tutta la fragranza del dono di Cristo che scompare ma
accende nei due il fuoco della fede, con il quale possono scaldare il gelo della vita ed infiammare il
mondo.
Alla luce della Parola di Dio letta in chiave cristologica27 inizia l’arte del discernimento, la
capacità di fiutare la presenza del Risorto nella storia e nella propria vicenda esistenziale e di
sperimentarla, in comunione con i fratelli, all’interno della celebrazione liturgica che permette di
accedere sin d’ora alla vita del Regno, alla gloria destinata ai figli.
La grazia del cuore ardente: formare i giovani all’annuncio gioioso
Lc 24,31Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro
cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono
senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano
con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi
i
25 FRANCESCO, Christus vivit, n. 292.
26 R. MANES, «Il cielo si aprì», 150.
27 Nelle Scritture spiegate da Cristo che ne è la chiave si trova «il modo di trarre le fila delle diversissime
esperienze umane, nel campo del bene e della verità, per riunificarle in un quadro coerente in cui l’annuncio della
Risurrezione appaia come il sigillo di Dio su un disegno di salvezza e non come un evento strano e inaspettato» (C.M.
MARTINI, L’evangelizzatore in san Luca, Ancora, Milano 2000, 153).
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narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Prima ancora che si aprissero gli occhi, il cuore aveva già iniziato a scaldarsi e a risvegliarsi,
alimentando quel fuoco che il Cristo è venuto a gettare sulla terra (cfr. Lc 12,49) e la cui fiamma si
propagherà a partire dall’evento dell’effusione dello Spirito a Pentecoste (cfr. At 2,3) come
potenza di Dio che divampa nella predicazione della Parola. Il fuoco ha sempre nelle Scritture una
coloritura teofanica, è cioè un elemento che nel racconto biblico dice l’irruzione di Dio (cfr. Es 3,2)
e la natura del suo amore (cfr. Ct 8,6).
Il Risorto appicca un fuoco nel cuore dei suoi, ma lui non è più visibile, perché egli non è quel
viandante: è il Risorto che vive e si fa sperimentare vivo nella vita stessa di chi crede in lui. Egli è
assente perché «non è più legato all’orizzonte terreno, non è più palpabile, visibile in maniera
fisica; eppure è ancora realmente presente e sperimentabile»28. Inoltre c’è un’importante
pedagogia che il Risorto dispiega come afferma la Christus vivit che ci ricorda che chi accompagna i
giovani deve «scomparire come scompare il Signore dalla vista dei suoi discepoli, lasciandoli soli
con l’ardore del cuore, che si trasforma in impulso irresistibile a mettersi in cammino»29.
È il segno sacramentale che permette di riconoscere il Signore non come uno di fuori che si
può vedere, ma come uno che abita dentro e scalda il cuore. Il riconoscimento del Risorto
trascende l’empiria superficiale: è un’esperienza di fede! Luca gioca sul contrasto tra gli occhi
“impediti” (v. 16) e gli occhi “spalancati” (v. 31). Tra le due situazioni irrompe la fede: «la presenza
del Signore è accessibile tramite la Parola ascoltata, tramite il pane spezzato e, più in generale, per
mezzo della fede»30.
Ed è proprio a partire dalla fede che si compie la trasformazione interiore dei discepoli che
non sono più prigionieri di segni miracolosi. Il gesto del pane spezzato, infatti, «allontana
definitivamente l’attesa idolatrica dei segni e permette ai discepoli di dire l’essenziale – la loro
trasformazione interiore all’ascolto della sua parola sulle Scritture – senza rattristarsi per la sua
scomparsa»31. Il binomio Parola-Pane eucaristico trasfigura il senso della sequela vissuta e
permette di riprendere la strada per tornare dai compagni e annunciare loro che il Maestro è vivo
e a farsi pane per loro32.
I discepoli passano così dall’abbattimento allo slancio, dal bisogno di vedere i segni al
desiderio di ascoltare e annunciare la parola, dall’attesa di un messia foriero di rivoluzione politica
o sociale e capace di spazzare via da Israele ogni presenza ostile all’accoglienza del dono d’amore
di Cristo che spinge a tornare a Gerusalemme, in mezzo agli altri, alla nuova famiglia dei credenti
in Cristo, nel clima fecondo e gioioso della lode e della comunione.
La Scrittura rimane sigillata senza la luce che promana dall’evento della morte e risurrezione
di Cristo e senza narratori, testimoni capaci cioè di attraversare la storia “sacramentalmente”,
28 G. RAVASI, I Vangeli, EDB, Bologna 2016, 431.
29 FRANCESCO, Christus vivit, n. 296.
30 M. CRIMELLA, Luca, 367.
31 J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo, 162.
32
«Perché il Risorto sia veramente presente, non basta la partecipazione al rito. Questo diventa portatore di vita
se riesce a trasformare anche i commensali in pane che si spezza per i fratelli» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del
Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», 439).
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO”
SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024
aprendola a Dio e vivificandola attraverso il loro pellegrinaggio pieno di zelo e dedizione e la loro
parola incisiva e gravida di Spirito Santo.
Il Maestro è vivo e chiede ai giovani, che sono “la promessa del Padre”, di seguirlo lungo le
vie del mondo, non come individui che rifuggono nelle proprie sicurezze o nel benessere
personale, ma come comunione di fratelli e sorelle che sanno nutrire la memoria dell’incontro con
Cristo e ravvivarla mediante la preghiera, la testimonianza, la forza dei sacramenti e degli affetti e
che sanno accogliere «ali come aquile» per collaborare alla corsa di una Parola (cfr. 2Ts 3,1) che
non subisce mai battute d’arresto perché eterna.
Lc 24,13-35, capolavoro catechetico e didattico, invita noi formatori e accompagnatori a
lasciarci lavorare dallo Spirito per generare i giovani alla vita filiale di Cristo che si compie nel dono
di sé. Invita inoltre i giovani a scoprire la bella esperienza di affrontare il pellegrinaggio della vita
sapendosi sempre accompagnati33 in una pastorale feconda perché intesa come un processo
rispettoso, paziente, fiducioso e compassionevole34 e a sentirsi destinatari di una grande
attenzione e di un ascolto profondo35 che li renda capaci di udire il battito del Padre che, nel cuore
del Figlio, palpita per loro di amore eterno.
SOMMARIO
L’articolo propone una lettura narrativa del racconto di Emmaus (Lc 24,13-35) che privilegia il
tema del «viaggio» come metafora della vita e offre una serie di indicazioni preziose per ripensare
la necessità e l’urgenza di avviare i giovani all’arte del discernimento. Attraverso la prossimità
tipica di un accompagnamento che si realizza come un processo graduale e che contempla la
possibilità di una reale esperienza di generazione spirituale, il contatto con la Parola contenuta
nelle Scritture e rivelatrice di senso e l’esperienza sacramentale all’interno di un contesto
ecclesiale che testimoni un’alta qualità dei rapporti e di comunione, è offerta ai giovani
l’opportunità di coltivare sogni e desideri grandi e di aprirsi serenamente al futuro, sentendosi
depositari di una chiamata al dono di sé, a cui dare carne giorno per giorno.