Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo. Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga. don Tonino Bello
Su ali d'aquila
SU ALI D’AQUILA (Salmo 96 )
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Il giorno successivo alla Pasqua, detto comunemente Pasquetta, è chiamato anche lunedì di Pasqua, e nel calendario liturgico cattolico, lunedì dell’Ottava di Pasqua.
Questa festività che “allunga” quella di Pasqua, prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Vi trovarono il grande masso che chiudeva l’accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto” (Mc 16,1-7). E aggiunse: “Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli”, ed esse si precipitarono a raccontare l’accaduto agli altri.
L’espressione “lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua, alla stessa stregua degli altri giorni dell’ottava (martedì, mercoledì ecc.)
Perché il giorno dopo la Pasqua si chiama Lunedì dell’Angelo? E perché non è festa di precetto? La tradizione nella Chiesa è fonte certa per la fede del popolo di Dio, e va colto il significato profondo che essa ha attribuito nei secoli a giorni e gesti che hanno un valore determinante per il senso cristiano della storia.
Il Lunedì dell’Angelo è un prolungamento della Pasqua, come rispondendo alla necessità di gustare e contemplare una scena che ha cambiato la storia del mondo, e la nostra personale. Siamo di fronte al punto di svolta per il Creato e l’umanità: e dopo il giorno di festa grande nel quale si è come sopraffatti dalla grandezza della notizia del sepolcro vuoto e del Figlio di Dio risorto e vivo, la fede della gente ha sancito la necessità di soffermarsi sul messaggio dell’annuncio di Pasqua. Recato da un angelo.
Quella alla quale la Chiesa dedica la giornata che segue l’evento della Risurrezione è infatti la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio, alla sua promessa di una compagnia che non verrà mai più meno. La risposta, per la verità, è della donna: perché l’Angelo al quale la Chiesa ci invita a guardare in questa giornata appare alle donne che si erano recate al sepolcro “portando con sé gli aromi che avevano preparato” per il corpo di Gesù calato dalla croce il venerdì e dopo la sosta del sabato ebraico. Le parole dell’Angelo suonano sbalorditive, inaudite: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”.
L’annuncio centrale della fede si realizza in un incontro, suscita stupore, e muove a comunicare subito ciò che si è scoperto. “Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo”. Ancora pieni di gioia per la Pasqua, siamo incoraggiati a tornare al cuore della scena, come se un giorno solo non bastasse. In questo lunedì protagonista è tutto il movimento generato dal dialogo tra Dio e l’essere umano che è dentro il messaggio di Pasqua ma che ha bisogno di un suo spazio, sebbene la definizione liturgica di questa giornata sia “Lunedì nell’Ottava di Pasqua” e l’Angelo sia piuttosto il nome popolare che la tradizione gli ha conferito, a sottolinearne il messaggio proprio.
Devozione, dunque, più che mistero di fede: un’estensione della Pasqua che non a caso popolarmente ha fatto di questo giorno la “Pasquetta”, una piccola Pasqua tutta per festeggiare uscendo dal sepolcro di ciascuno e mettendosi in movimento (la gita fuori porta, sospesa dalla pandemia come uscita fisica, ma non nel nostro intimo). Conseguenza di queste caratteristiche devozionali è il fatto che la Chiesa non preveda il precetto, ovvero il dovere per il credente di partecipare all’Eucaristia nel giorno della festa che ricorda la Pasqua (è ciò che fa ogni domenica dell’anno).
Ma questa giornata devozione alimentata dalla fede delle generazioni credenti ha come costruito un singolarissimo giorno supplementare di festa, che ha trovato anche la forma di una preghiera: la sequenza “Victimae Paschali Laudes”, che risale all’XI secolo e che popolarmente è nota per la domanda in rima a Maria (Maddalena, protagonista della commovente scena in cui è chiamata per nome dal Risorto) cui la Chiesa domanda “cos’hai visto per la via”. E allora, è bello recitarla e meditarla (anche nella versione originale in latino) in questo lunedì che prolunga la Pasqua con una tale forza che anche l’autorità civile ne ha riconosciuto – pressoché ovunque nei Paesi di radice cristiana – il valore di festa per tutti.
Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode. L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.
Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?». «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.
Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).
Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e – si potrebbe dire – degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, … mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?”, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto… Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.
Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!
Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: “Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!” Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf. Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
Idea progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it
POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto e hai preparato la croce al tuo Salvatore
Riflessione (traccia) domenica delle Palme A
HÁGIOS O THEÓS.SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna, t’ho fatto entrare in terra feconda e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara e la mia sete hai spento con l’aceto, hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti, tu mi hai portato davanti al Sinedrio e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.
Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice
La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.
Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).
L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).
Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.
LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO
Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.
I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA
La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.
Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.
Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici
Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile. Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.
Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.
I molti nomi di Sukkot
I riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.
Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?
Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.
Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo
Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.
Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).
Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.
Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.
E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?
Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.
Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].
Cosa simboleggiano le quattro specie?
Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.
Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.
Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.
Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.
Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico
Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?
Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…
Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”
“Gesù sconfina” per dirci che la misericordia di Dio è per tutti. Non dimentichiamo questo: la misericordia di Dio è per tutti e per ognuno di noi. ‘La misericordia di Dio è per me’, ognuno può dire questo”. Così il Papa, a braccio, ha spiegato che “la Parola di Dio è per tutti”: “È un dono rivolto a ciascuno e che perciò non possiamo mai restringerne il campo di azione perché essa, al di là di tutti i nostri calcoli, germoglia in modo spontaneo, imprevisto e imprevedibile, nei modi e nei tempi che lo Spirito Santo conosce”.
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”, di far salire sulla barca di Pietro chi si incontra perché questa è la Parola di Dio, “non è proselitismo”
“E se la salvezza è destinata a tutti, anche ai più lontani e perduti – ha spiegato Francesco nell’omelia della Messa celebrata domenica, nella basilica di San Pietro, per la quarta Domenica della Parola di Dio – allora l’annuncio della Parola deve diventare la principale urgenza della comunità ecclesiale, come fu per Gesù. Non ci succeda di professare un Dio dal cuore largo ed essere una Chiesa dal cuore stretto – questa sarebbe, mi permetto di dire, una maledizione –; non ci succeda di predicare la salvezza per tutti e rendere impraticabile la strada per accoglierla; non ci succeda di saperci chiamati a portare l’annuncio del Regno e trascurare la Parola, disperdendoci in tante attività secondarie, o tante discussioni secondarie”.
“Impariamo da Gesù a mettere la Parola al centro, ad allargare i confini, ad aprirci alla gente”, l’invito: “Metti la tua vita sotto la Parola di Dio. Questa è la strada che ci indica la Chiesa: tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo sotto l’autorità della Parola di Dio. Non sotto i nostri gusti, le nostre tendenze o preferenze, ma sotto l’unica Parola di Dio che ci plasma, ci converte, ci chiede di essere uniti nell’unica Chiesa di Cristo”.
I cristiani, ha spiegato il Papa, sull’esempio di Gesù sono “esperti nel cercare gli altri”: “E questo non è proselitismo, perché quella che chiama è la Parola di Dio, non la nostra parola”, ha precisato. “Questa è la nostra missione”, ha concluso Francesco: “Diventare cercatori di chi è perduto, di chi è oppresso e sfiduciato, per portare loro non noi stessi, ma la consolazione della Parola, l’annuncio dirompente di Dio che trasforma la vita”.
San Francesco di Sales, nato il 21 agosto 1567 a Thorens-Glières, in Savoia (oggi Francia), è stato un vescovo cattolico e dottore della Chiesa. È noto soprattutto per la sua opera di evangelizzazione e per la sua guida spirituale. Ecco una breve panoramica della sua vita:
Gioventù e Formazione: Francesco nacque da una famiglia nobile. Fin da giovane, mostrò una profonda devozione religiosa. Dopo gli studi in diritto a Padova, contro la volontà di suo padre, scelse di seguire la vocazione ecclesiastica.
Ordinazione e Missioni: Francesco fu ordinato sacerdote nel 1593. Inizialmente, desiderava vivere come eremita, ma il suo direttore spirituale, San Francesco di Sales, lo convinse a dedicarsi all’apostolato. Si unì a un gruppo di sacerdoti che cercavano di riconvertire la popolazione calvinista della Savoia al cattolicesimo.
Vescovo di Ginevra: Nel 1602, Francesco di Sales fu nominato vescovo di Ginevra, una città a maggioranza calvinista. Qui affrontò numerose sfide, cercando di riconciliare le divisioni religiose e promuovere la tolleranza.
Scritti Spirituali: Francesco di Sales è noto per i suoi scritti spirituali, tra cui “Introduzione alla vita devota” e “Trattato dell’amore di Dio”. Queste opere riflettono la sua saggezza spirituale e la sua visione dell’amore di Dio come accessibile a tutti.
Ordine della Visitazione: Insieme a Santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal, Francesco di Sales fondò l’Ordine della Visitazione nel 1610, un’istituzione religiosa per donne che desideravano vivere una vita contemplativa.
Morte e Canonizzazione: Francesco di Sales morì il 28 dicembre 1622. Fu canonizzato nel 1665 da papa Alessandro VII e dichiarato dottore della Chiesa nel 1877 da papa Pio IX.
San Francesco di Sales è riconosciuto come patrono dei giornalisti e degli scrittori a causa della sua abilità nel comunicare in modo chiaro e accessibile. La sua eredità spirituale vive attraverso i suoi insegnamenti e l’influenza duratura della sua guida pastorale.
La teologia di San Francesco di Sales è caratterizzata da un approccio gentile e adattabile, centrato sull’amore di Dio e sull’accessibilità della santità per tutti. Alcuni punti chiave della sua teologia includono:
La Dottrina dell’Amore Divino: Francesco di Sales enfatizzò l’amore misericordioso di Dio. Sostenne che Dio ama ogni anima in modo unico e che la salvezza è aperta a tutti, indipendentemente dalla loro condizione o passato. Questa concezione amorevole di Dio è al centro della sua spiritualità.
Universalità della Vocazione alla Santità: Contrariamente all’idea che la santità fosse riservata solo a coloro che abbracciavano la vita monastica, Francesco di Sales insegnò la possibilità della santità in tutte le vocazioni. La sua famosa frase “Tutto è grazia” riflette il suo convincimento che la santità può essere raggiunta in ogni stato di vita.
Il Concetto di Dolcezza Spirituale: Francesco di Sales promosse la “dolcezza spirituale” come via per avvicinarsi a Dio. Invitò i fedeli a praticare la preghiera, la meditazione e le virtù cristiane con dolcezza, evitando la rigidità e la durezza. Questo approccio gentile si riflette nel suo celebre consiglio: “Si prende più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto.”
La Spiritualità della Presenza di Dio: Francesco di Sales sottolineò l’importanza di vivere consapevolmente la presenza di Dio nella vita quotidiana. Invitò i credenti a cercare Dio nelle situazioni comuni e a portare la spiritualità nella vita di tutti i giorni.
Accoglienza e Tolleranza: Data la sua missione di riconciliazione a Ginevra, Francesco di Sales promosse l’accoglienza e la tolleranza verso coloro che professavano fedi diverse. La sua gentilezza e rispetto per gli altri contribuirono alla sua reputazione di “gentiluomo di Dio”.
La teologia di San Francesco di Sales ha avuto un impatto significativo nella spiritualità cattolica, influenzando numerosi pensatori e guidando molti sulla via della santità attraverso un approccio amorevole e pratico alla fede. La sua eredità è ancora viva oggi, specialmente attraverso l’Ordine della Visitazione e la diffusione dei suoi scritti spirituali.
L’approccio di San Francesco di Sales alla teologia ha lasciato un’impronta duratura anche nell’ambito della direzione spirituale. La sua metodologia è enfatizzata nei suoi scritti e lettere pastorali, tra cui la celebre “Introduzione alla vita devota”. Alcuni aspetti chiave includono:
La Dolcezza nella Direzione Spirituale: Francesco di Sales è noto per la sua dolcezza e pazienza nel guidare gli altri sulla via spirituale. Ha sottolineato l’importanza di adattare la direzione spirituale alle esigenze individuali, evitando severità eccessiva e incoraggiando anziché scoraggiare.
La Consapevolezza della Propria Debolezza: Ha insegnato che la consapevolezza della propria debolezza è essenziale per il progresso spirituale. Invitava le persone a crescere nella virtù con gradualità, affrontando con pazienza e fiducia le proprie imperfezioni.
La Preghiera e la Meditazione: Francesco di Sales ha posto un forte accento sulla preghiera e la meditazione come mezzi per sviluppare una relazione personale con Dio. Ha incoraggiato la regolarità nella preghiera quotidiana e ha sottolineato la sua importanza nel nutrire la vita spirituale.
La Libertà Interiore: Ha insegnato l’importanza della libertà interiore, indicando che la vera virtù non è forzata ma libera scelta. Invitava i fedeli a compiere le azioni virtuose con gioia e consapevolezza, senza sentirsi schiavi della perfezione esteriore.
La Devotio Moderna: San Francesco di Sales ha tratto ispirazione dalla tradizione della Devotio Moderna, promuovendo una forma di devozione che integrasse la spiritualità contemplativa con l’azione pratica nella vita quotidiana.
La sua eredità nella direzione spirituale è stata particolarmente apprezzata, tanto che è diventato il patrono dei direttori spirituali. La sua saggezza e il suo approccio amorevole continuano a guidare coloro che cercano una vita spirituale più profonda e un rapporto più intimo con Dio. La sua santità, improntata alla dolcezza e all’umiltà, rimane un faro luminoso per coloro che desiderano seguire la via della fede con cuore aperto e amorevolezza.
DALLA “INTRODUZIONE ALLA VITA DEVOTA” “Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna “secondo la propria specie” (Gn 1, 11). Lo stesso comando si rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producono frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione. La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata. Ciò non basta, bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona. Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini? E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini? Se l’artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso, e il religioso si espone a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo? Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile? Questo errore si verifica tuttavia molto spesso. No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa. L’ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio. Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l’unisce alla devozione. La cura della famiglia è rèsa più leggera, l’amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili”.
Il 24 gennaio del 2023 si è celebrata la Domenica della Parola, voluta da papa Francesco per sottolineare l’importanza delle Scritture nella vita della Chiesa. «Tra chi, già prima del Concilio, mise al centro la Bibbia fu il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina che in quest’anno ha celebra uno speciale Anno Biblico», dice suor Piera Moretti
Suor Piera Moretti, 59 anni
Siamo tutti come i discepoli di Emmaus, impauriti e smarriti. È apparendo loro, dopo la Risurrezione, che Gesù, come racconta il Vangelo di Luca, «aprì la mente all’intelligenza delle Scritture». La Parola come antidoto alla paura. E quindi «sorgente di vita e cammino di approfondimento dell’identità cristiana, della nostra appartenenza a Cristo», dice suor Piera Moretti, Pia Discepola del Divin Maestro (una Congregazione religiosa della Famiglia Paolina fondata dal Beato Giacomo Alberione il 10 Febbraio 1924) nonché liturgista.
Il tema scelto per la Domenica della Parola del 2023 fu una frase tratta dalla Lettera che Paolo, in prigione, scrive ai Filippesi: «Tenendo alta la Parola di vita» (Fil 2,16). Più di un invito, un programma di vita: «Tenendo alta la parola di vita», scrive mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, «i discepoli di Cristo “brillano come astri nell’universo”. È una bella immagine quella che l’apostolo offre oggi anche a tutti noi. Viviamo un momento drammatico. L’umanità pensava di avere raggiunto le più solide certezze della scienza e le soluzioni di un’economia per garantire sicurezza di vita. Oggi è costretta a verificare che nessuna delle due le garantisce il futuro. Emerge in maniera forte il disorientamento e la sfiducia a causa dell’incertezza sopraggiunta in maniera inaspettata. I discepoli di Cristo hanno la responsabilità anche in questo frangente di pronunciare una parola di speranza. Lo possono realizzare nella misura in cui rimangono saldamente ancorati alla Parola di Dio che genera vita e si presenta come carica di senso per l’esistenza personale».
La sensibilità del popolo di Dio verso la Parola ha attraversato diverse fasi storiche ma è indubbio che l’impulso maggiore arriva dal Concilio Vaticano II con la Costituzione dogmatica Dei Verbum per arrivare fino a Benedetto XVI che nel 2008 convoca un Sinodo ad hoc sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” e poi scrive l’Esortazione Apostolica Verbum Domini. Fino a papa Francesco che nel 2019 con la Lettera apostolica Aperuit illis stabilisce che «la III Domenica del Tempo ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio».
In questo cammino l’apporto della Famiglia Paolina, che quest’anno celebra uno speciale Anno Biblico, è stato decisivo e, con il beato Giacomo Alberione, del quale quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte, persino profetico: «Don Alberione», ricorda suor Moretti, «ha celebrato l’Anno Biblico più volte nel corso della sua vita e anche prima del Concilio. In questo è stato un precursore. Ha indicato la strada, invitando a mettere al centro la Parola senza la quale non possiamo vivere. Per questo dobbiamo interpretare la nostra storia alla luce della Parola e solo così troveremo risposta e significato anche in quelle situazioni di male, dolore e sofferenza che in un primo momento e a uno sguardo superficiale sembrano non abbiano risposta».
Perché papa Bergoglio ha voluto collocare la Domenica della Parola nella terza domenica del tempo ordinario? «Perché», risponde suor Moretti, «è quella successiva alla Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani che si svolge dal 18 al 25 gennaio. La Parola, che è Cristo stesso, deve condurci alla comunione. Francesco ha sottolineato più volte che questa Giornata ha una valenza fortemente ecumenica, volta ad approfondire l’identità di ogni battezzato che se non attinge alla Parola di Dio perde la sua identità cristiana, ed è un richiamo a conoscere la Scrittura».
C’è chi afferma che questa venerazione del Libro sia qualcosa che appartiene più alla tradizione protestante che al cattolicesimo: «Ci stiamo avvicinando ai protestanti? Per me è un segno positivo», risponde la religiosa, «loro ci hanno insegnato tanto e noi dobbiamo imparare di più, è un avvicinamento reciproco, un cammino che facciamo insieme nella conoscenza del Signore. Tenere alta la parola di vita significa offrire una testimonianza autentica della Parola: la Torah è qualcosa ma di vivo, è lo Spirito esce dalla bocca di Dio e noi dobbiamo renderne testimonianza».
La Domenica della Parola, in comunione con tutta la Chiesa, è solo la prima tappa dell’Anno Biblico Paolino: «Ci saranno altri eventi», spiega suor Moretti, «approfondimenti, incontri, come il webinar del 12 gennaio scorso. A novembre, a cinquant’anni esatti dalla morte del beato Alberione, la chiusura solenne. San Paolo e il suo impegno instancabile ad annunciare la Parola non sono solo “patrimonio” della Famiglia Paolina. Noi abbiamo il compito di far brillare e risplendere la sua missione che seppe oltrepassare i confini della Palestina coinvolgendo migliaia di persone e interi popoli. Oggi c’è tanto bisogno di persone che tengano alta la Parola e che non siano altisonanti nel proclamarla ma gareggino nel darle testimonianza».
Quando si affronta il tema del combattimento spirituale, si commettono due errori principali: o diamo un’importanza eccessiva a certe cose o le sottovalutiamo. Alcuni danno la colpa di ogni peccato, di ogni conflitto e di ogni problema ai demòni che devono essere scacciati. Altri ignorano completamente la dimensione spirituale e il fatto che la Bibbia c’insegni che il nostro combattimento è contro potenze spirituali. La chiave per il combattimento spirituale di successo sta nel trovare l’equilibrio biblico. Talvolta Gesù scacciò i demòni dalle persone e, talaltra, le guarì senza alcuna menzione dell’aspetto demoniaco. L’apostolo Paolo insegna ai cristiani a far guerra al peccato in se stessi (Romani 6) e a muovere guerra contro il maligno (Efesini 6:10-18).
È scritto in Efesini 6:10-12: “Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate star saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti”. Questo testo c’insegna alcune verità cruciali: (1) possiamo essere forti sono nella potenza del Signore; (2) è l’armatura di Dio che ci protegge; (3) il nostro combattimento è contro le forze spirituali della malvagità di questo mondo di tenebre.
(1) Un esempio potente di questo è quello dell’arcangelo Michele in Giuda 9. Michele, probabilmente il più potente fra tutti gli angeli di Dio, non sgridò Satana nella sua potenza, ma disse: “Ti sgridi il Signore!”. Apocalisse 12:7-8 riferisce che, negli ultimi tempi, Michele sconfiggerà Satana. Lo ripeto: quando si trovò a scontrarsi con Satana, Michele lo sgridò nel nome e nell’autorità di Dio, non nei propri. È solo mediante la nostra relazione con Gesù Cristo che noi, come cristiani, abbiamo tutta l’autorità su Satana e sui suoi demòni. È solo nel Suo Nome che il nostro rimprovero ha tutto il potere.
(2) Efesini 6:13-18 ci dà una descrizione dell’armatura spirituale che ci dona Dio. Dobbiamo stare saldi con (a) la cintura della verità, (b) la corazza della giustizia, (c) le calzature del Vangelo della pace, (d) lo scudo della fede, (e) l’elmo della salvezza, (f) la spada dello Spirito e (g) la preghiera mediante lo Spirito. Che cosa rappresentano questi pezzi dell’armatura spirituale, per noi, nel nostro combattimento spirituale? Dobbiamo dire la verità contro le menzogne di Satana. Dobbiamo riposare nel fatto che siamo dichiarati giusti a motivo del sacrificio di Cristo per noi. Dobbiamo proclamare il Vangelo a prescindere da quanta opposizione incontriamo. Non dobbiamo vacillare nella fede, per quanto forti siano gli attacchi che riceviamo. La nostra difesa fondamentale è la sicurezza che abbiamo della nostra salvezza e il fatto che le forze spirituali non possono rubarcela. La nostra arma offensiva dev’essere la Parola di Dio, non le nostre opinioni e i nostri sentimenti personali. Dobbiamo seguire l’esempio di Gesù riconoscendo che alcune vittorie spirituali sono possibili solo mediante la preghiera.
Gesù è il nostro esempio definitivo per il combattimento spirituale. Osserva come Gesù affrontò i diretti attacchi di Satana: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. E il tentatore, avvicinatosi, gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani’. Ma egli rispose: ‘Sta scritto: Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio’. Allora il diavolo lo portò con sé nella città santa, lo pose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; poiché sta scritto: Egli darà ordini ai suoi angeli a tuo riguardo, ed essi ti porteranno sulle loro mani, perché tu non urti con il piede contro una pietra’. Gesù gli rispose: ‘È altresì scritto: Non tentare il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: ‘Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori’. Allora Gesù gli disse: ‘Vattene, Satana, poiché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi il culto’. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli si avvicinarono a lui e lo servivano” (Matteo 4:1-11). Il modo migliore per combattere Satana è quello mostratoci da Gesù e che consiste nel citare la Scrittura, perché il diavolo non può impugnare la spada dello Spirito, la Parola del Dio vivente. Riassumendo, quali sono le chiavi per avere successo nel combattimento spirituale? Primo, dobbiamo confidare nella potenza di Dio, non nella nostra. Secondo, dobbiamo sgridare nel nome di Gesù, non nel nostro. Terzo, dobbiamo proteggerci con la completa armatura di Dio. Quarto, dobbiamo muovere guerra con la spada dello Spirito — la Parola di Dio. “Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati” (Romani 8:37).