In Scena il riadattamento della famosa parabola del Vangelo (Lc. 15,11-32)
I ragazzi della Parrocchia di San Giovanni Battista in Ferro di Cavallo- Perugia, hanno portato in scena la famosa Parabola del Figliol Prodigo tratto dal Vangelo di Luca. Attraverso il teatro, questo gruppo di ragazzi, desiderano lanciare un messaggio d’amore e di speranza rivolto a tutti. L’amore, si sa, è la molla che fa girare il mondo, da sempre, ma c’è un amore più grande di tutti che è l’amore di un padre con la P maiuscola: Dio. Inarrestabile, invincibile, sempre pronto a cercare ovunque e comunque i propri figli e, in generale, l’uomo, il sentimento viscerale tra Dio e la sua creatura, non si arrende davanti a nessun ostacolo, non si scandalizza, spera sempre in una possibilità. In questo caso il Figliol Prodigo, che rappresenta anche ciascun uomo che va per i suoi sentieri e cerca ostinatamente di cavarsela solo con le proprie forze, ritrova poi, tornando indietro sui suoi passi, un accesso privilegiato nel cuore del Padre che lo accoglie a braccia spalancate; infatti Dio, che attende alla porta la sua creatura, spiando in lontananza il suo ritorno verso casa, è sempre misericordia, dolcezza, illimitato perdono e disarmante amore!
Non resta altro che andare a vedere questo coinvolgente Musical che i ragazzi della compagnia di Perugia stanno in questo tempo portando in giro un po’ ovunque: sarà senz’altro una riuscita rappresentazione che seminerà nel cuore del pubblico grandi sentimenti di speranza ricolmi di gratuita testimonianza evangelica.
Rembrandt, il ritorno del figliol prodigo
Esiste anche un famoso dipinto ispirato a una di queste parabole. Si tratta di un quadro a olio su tela del celebre pittore olandese Rembrandt: Ritorno del Figliol Prodigo. Il quadro venne dipinto nel 1668 ed è oggi conservato nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.
Siamo alla fine della parabola, quando il figlio ingrato torna a casa. È vestito di stracci, spezzato nel corpo e nell’anima dai propri vizi e dalle conseguenze dei propri errori. Sta in ginocchio davanti al padre, pentito, consapevole del proprio fallimento e della propria mediocrità, resa ancora più bruciante dalla presenza di quello che con ogni probabilità è suo fratello maggiore, sulla destra della scena, che lo guarda e lo giudica. Il padre no. Non c’è giudizio nei suoi gesti, non c’è condanna nel suo sguardo che avvolge il figlio più giovane. Solo amore e perdono. I suoi occhi sono quelli di un cieco, come se li avesse consumati per guardare i propri figli, per seguire con apprensione le loro vicissitudini. Un altro dettaglio importante sono le sue mani, posate sulle spalle del figlio inginocchiato: una mano maschile, una femminile, come se nell’amore egli diventasse padre e madre nello stesso tempo. Ancora, il cranio del figlio è rasato, come si conviene a un penitente, ma anche come quello di un neonato. Nell’amore del padre misericordioso, nel suo perdono che va oltre ogni colpa, il giovane rinasce a nuova vita. La luce, che avvolge le due figure centrali, i colori, tutto concorre per esprimere la solennità del momento, la trascendenza quasi mistica che l’amore opera su padre e figlio. Rembrandt, profondamente religioso, trascorse tutta la propria vita tra vizio e redenzione, e forse questo quadro ha voluto essere il suo testamento spirituale e il suo atto di contrizione.
Papa Francesco, che ha raccontato la parabola in diverse occasioni, ha ribattezzato il figliol prodigo come il giovane furbo. In effetti a volte si perde di vista il significato del termine prodigo, che non significa ritrovato, come alcuni credono, ma spendaccione! Il Sommo Pontefice ha saputo rendere quanto mai attuale la parabola, portando il giovane figlio ribelle come esempio di tutti i ragazzi che credono di poter prendere la propria strada, ignorando le regole e i consigli dei genitori, salvo poi dover tornare sui propri passi quando le cose si mettono male. E a questo punto interviene il Padre, Dio, che non solo non accusa il figlio ingrato del suo fallimento, ma anzi lo riaccoglie con una grande festa. “Dio è molto buono, approfitta dei nostri fallimenti per parlarci al cuore” ha affermato il Papa, mostrando come anche un fallimento, un errore diventa un’occasione di perdono e amore.
E’celebrato in molte località italiane, tra le quali San Giuliano di Lecce (dove si svolgono esibizioni musicali, spettacoli pirotecnici, processione e degustazione di prodotti tipici locali) e Asola, di cui il santo è patrono e dove viene però festeggiato il 27 gennaio. Nella chiesa di Sant’Andrea di Asola è conservato il busto del santo che, secondo la tradizione, se il giorno delle celebrazioni si rivela lucido allora i raccolti saranno buoni, altrimenti se risulterà opaco l’annata sarà piuttosto scarsa. Nella stessa chiesa è poi conservata anche la mandibola dello stesso S. Giovanni Crisostomo.
San Giovanni Crisostomo, noto anche come Giovanni di Antiochia, è stato un vescovo e teologo cristiano del IV secolo. Nato ad Antiochia nel 349, è considerato uno dei più importanti padri della Chiesa e uno dei più grandi predicatori della sua epoca. La sua eloquenza e la sua profonda conoscenza delle Scritture gli hanno valso il soprannome di “Crisostomo”, che significa “bocca d’oro” in greco. Durante il suo ministero, Giovanni si distinse per la sua predicazione incisiva e per la sua difesa della fede cristiana. Le sue omelie e i suoi scritti teologici hanno avuto un impatto duraturo sulla Chiesa e continuano ad essere studiati e apprezzati ancora oggi. San Giovanni Crisostomo è considerato un santo sia dalla Chiesa cattolica che dalla Chiesa ortodossa.
La vita e l’opera di San Giovanni Crisostomo
San Giovanni Crisostomo è stato uno dei più importanti teologi e predicatori del cristianesimo primitivo. Nato a Antiochia nel 347 d.C., Giovanni Crisostomo ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa con la sua vita e le sue opere.
Fin da giovane dimostrò una grande intelligenza e una profonda devozione religiosa. Studiò filosofia e retorica ad Antiochia, dove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza delle Sacre Scritture e di sviluppare le sue abilità oratorie. La sua eloquenza e la sua capacità di comunicare con chiarezza e persuasione gli valsero il soprannome di “Crisostomo”, che significa “bocca d’oro”.
Dopo aver completato gli studi decise di abbracciare la vita monastica e si ritirò in solitudine per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione. Tuttavia, la sua fama di predicatore straordinario si diffuse rapidamente e attirò l’attenzione dell’imperatore Arcadio, che lo nominò vescovo di Costantinopoli nel 398 d.C.
Come vescovo, Giovanni Crisostomo si distinse per la sua dedizione al servizio della Chiesa e del popolo. Combatté strenuamente contro la corruzione e l’immoralità che avevano infestato la città di Costantinopoli e si adoperò per promuovere la giustizia sociale e la carità verso i più bisognosi. Le sue omelie, ricche di saggezza e di profonda spiritualità, ispirarono e guidarono molti fedeli nella loro vita di fede.
Tuttavia, la sua franchezza e la sua critica aperta verso l’élite politica ed ecclesiastica gli attirarono numerosi nemici: fu infatti deposto e esiliato due volte, prima nel 403 d.C. e poi nel 407 d.C. Nonostante le persecuzioni e le sofferenze, il suo spirito indomito e la sua fede in Dio non vacillarono mai.
Durante il suo esilio continuò a scrivere e a predicare, lasciando un’eredità di opere teologiche e spirituali di inestimabile valore. Le sue omelie, in particolare, sono considerate dei capolavori di eloquenza e di profondità teologica. Attraverso le sue parole, Giovanni Crisostomo cercò di trasmettere la verità del Vangelo e di guidare i fedeli verso una vita di santità e di amore verso Dio e il prossimo.
La sua opera più famosa è senza dubbio l’omelia sul Vangelo di Matteo, in cui esamina in modo approfondito i principi etici e morali insegnati da Gesù. In questa omelia, Giovanni Crisostomo affronta temi come la povertà, la giustizia, la misericordia e l’amore verso il prossimo, offrendo una guida pratica per vivere una vita cristiana autentica. La sua eredità continua a vivere attraverso le opere e il suo insegnamento ci ricorda l’importanza di vivere una vita di fede e di amore verso Dio e il prossimo, con coraggio e dedizione nel servizio agli altri.
In conclusione, San Giovanni Crisostomo è stato un grande teologo e predicatore che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa. La sua eloquenza e saggezza rimangono un esempio per tutti coloro che cercano la verità e la santità nella loro vita.
L’influenza di San Giovanni Crisostomo sulla teologia cristiana
San Giovanni Crisostomo è stato uno dei più influenti teologi cristiani della storia. Le sue opere e i suoi insegnamenti hanno avuto un impatto duraturo sulla teologia cristiana e hanno contribuito a plasmare la dottrina della Chiesa. In questo articolo, esploreremo l’influenza di San Giovanni Crisostomo sulla teologia cristiana e l’eredità che ha lasciato.
San Giovanni Crisostomo nacque ad Antiochia nel IV secolo e divenne vescovo di Costantinopoli. Durante il suo ministero, si distinse per la sua eloquenza e la sua profonda conoscenza delle Scritture. Le sue omelie e i suoi scritti teologici sono considerati tra i più importanti della tradizione cristiana.
Una delle principali influenze di San Giovanni Crisostomo sulla teologia cristiana è stata la sua enfasi sulla predicazione e l’interpretazione delle Scritture. Egli credeva che la Parola di Dio dovesse essere il fondamento della fede e che i cristiani dovessero studiare e comprendere le Scritture per crescere spiritualmente. Le sue omelie erano famose per la loro chiarezza e profondità, e molti fedeli venivano ispirati e incoraggiati dalle sue parole.
Egli sottolineava l’importanza della vita morale e della pratica della virtù, credeva che la fede cristiana dovesse essere vissuta con coerenza e che i cristiani dovessero impegnarsi nella lotta contro il peccato e la corruzione morale. La sua enfasi sulla santità di vita ha influenzato la teologia morale della Chiesa e ha ispirato molti a vivere una vita di integrità e devozione.
Un’altra importante influenza di San Giovanni Crisostomo sulla teologia cristiana è stata la sua visione della Chiesa come comunità di fedeli. Egli credeva che la Chiesa dovesse essere un luogo di amore, solidarietà e condivisione, in cui i cristiani si sostengono a vicenda e si impegnano per il bene comune. La sua visione della Chiesa come corpo di Cristo ha influenzato la teologia ecclesiologica e ha sottolineato l’importanza della comunione tra i credenti.
San Giovanni Crisostomo ha anche contribuito alla teologia della Trinità. Egli ha sottolineato l’unità e la diversità delle persone della Trinità e ha cercato di spiegare il mistero della Trinità in modo comprensibile. La sua teologia trinitaria ha influenzato la dottrina della Chiesa sulla natura di Dio e ha contribuito a sviluppare una comprensione più profonda della Trinità.
La sua influenza sulla teologia cristiana si estende anche alla liturgia, specie la liturgia bizantina. Ha composto numerosi inni e preghiere liturgiche. La sua enfasi sulla bellezza e la dignità del culto ha influenzato la liturgia della Chiesa e ha contribuito a creare un ambiente di adorazione e devozione.
In conclusione, San Giovanni Crisostomo è stato un teologo di grande importanza nella storia del cristianesimo. La sua enfasi sulla predicazione e l’interpretazione delle Scritture, la vita morale e la pratica della virtù, la visione della Chiesa come comunità di fedeli, la teologia della Trinità e la liturgia hanno avuto un impatto duraturo sulla teologia cristiana. La sua eredità continua ad influenzare la Chiesa oggi e la sua saggezza e il suo insegnamento sono ancora fonte di ispirazione per molti fedeli.
I sermoni di San Giovanni Crisostomo e il loro impatto sulla predicazione
San Giovanni Crisostomo è stato uno dei più influenti predicatori della Chiesa cristiana nel IV secolo. I suoi sermoni hanno avuto un impatto significativo sulla predicazione e hanno contribuito a plasmare la teologia e la pratica della Chiesa. In questo articolo, esploreremo l’importanza dei sermoni di San Giovanni Crisostomo e il loro impatto duraturo sulla predicazione.
I sermoni di San Giovanni Crisostomo sono stati ampiamente apprezzati per la loro profondità teologica e la loro abilità di comunicare in modo chiaro e coinvolgente. Crisostomo era noto per la sua eloquenza e la sua capacità di coinvolgere il pubblico con il suo stile di predicazione vivace e appassionato; erano basati su una solida comprensione delle Scritture e spesso affrontavano temi come la moralità, la giustizia sociale e la vita spirituale.
Uno degli aspetti distintivi dei sermoni di San Giovanni Crisostomo era la sua attenzione per l’applicazione pratica della fede nella vita quotidiana. Egli credeva che la predicazione dovesse essere rilevante per le persone comuni e che i predicatori dovessero essere in grado di connettersi con il loro pubblico in modo significativo. I suoi contenuti i erano pieni di esempi e storie che illustravano i principi spirituali in modo tangibile e concreto.
Un altro aspetto importante dei sermoni di San Giovanni Crisostomo era la sua enfasi sulla moralità e l’etica cristiana. Egli riteneva che i cristiani dovessero vivere una vita di integrità e che la predicazione dovesse incoraggiare e sfidare i credenti a vivere secondo gli insegnamenti di Cristo. I suoi discorsi spesso affrontavano questioni come la corruzione, l’avarizia e l’ipocrisia, invitando i credenti a vivere una vita di umiltà, generosità e amore verso il prossimo.
Oltre alla sua attenzione per l’applicazione pratica della fede e l’etica cristiana, i sermoni di San Giovanni Crisostomo erano anche caratterizzati da una profonda riflessione teologica. Egli era un teologo dotato e le sue predicazioni riflettevano la sua profonda comprensione delle Scritture e della tradizione cristiana. si esploravano temi come la Trinità, la redenzione e la grazia divina, offrendo una prospettiva teologica approfondita e stimolante.
L’importanza dei sermoni di San Giovanni Crisostomo non può essere sottovalutata. La sua influenza sulla predicazione si estende ben oltre il suo tempo e il suo impatto può ancora essere visto oggi. I predicatori moderni spesso si ispirano al suo stile di predicazione coinvolgente e alla sua attenzione per l’applicazione pratica della fede. I suoi sermoni continuano ad essere letti e studiati da teologi e predicatori di tutto il mondo, offrendo una fonte di ispirazione e saggezza per coloro che cercano di comunicare la Parola di Dio in modo efficace.
In conclusione, i sermoni di San Giovanni Crisostomo hanno avuto un impatto duraturo sulla predicazione.
L’eloquenza, l’attenzione per l’applicazione pratica della fede, l’enfasi sulla moralità e l’etica cristiana, la profonda riflessione teologica hanno reso i suoi sermoni una fonte di ispirazione e saggezza per i predicatori di tutte le epoche e Il suo contributo alla predicazione continua ad essere riconosciuto e apprezzato, dimostrando il suo status come uno dei più grandi predicatori della storia della Chiesa.
L’eredità di San Giovanni Crisostomo nella Chiesa ortodossa orientale
San Giovanni Crisostomo è una figura di grande importanza nella Chiesa ortodossa orientale. Il suo impatto e la sua eredità si estendono ancora oggi, influenzando la teologia, la liturgia e la spiritualità di questa tradizione religiosa.
La sua capacità di comunicare e la sua profonda conoscenza delle Scritture gli valsero il soprannome di “Crisostomo”, che significa “bocca d’oro”. Le sue omelie, ricche di saggezza e di profonda spiritualità, sono ancora lette e studiate dai fedeli ortodossi oggi.
Una delle principali eredità di San Giovanni Crisostomo nella Chiesa ortodossa orientale è l’amore e la cura per la liturgia. Egli credeva che la liturgia fosse un momento sacro in cui i fedeli si uniscono a Cristo e partecipano al suo sacrificio redentore. La sua visione della liturgia come un’esperienza mistica e sacramentale ha influenzato profondamente la liturgia ortodossa orientale, che è caratterizzata da una grande enfasi sulla preghiera, sul canto e sulla partecipazione attiva dei fedeli.
Inoltre, San Giovanni Crisostomo ha sottolineato l’importanza della carità e della giustizia sociale. Egli credeva che i cristiani dovessero essere impegnati nel servizio agli altri e nella lotta per la giustizia. Parlava della responsabilità dei ricchi di condividere le loro ricchezze con i poveri: molte opere di carità e di assistenza sociale all’interno della Chiesa ortodossa orientale sono state ispirate da lui.
La teologia di San Giovanni Crisostomo è ancora oggi una fonte di ispirazione per i teologi ortodossi orientali. Egli ha sviluppato una visione della Trinità come una comunità d’amore, in cui il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono uniti in un’unica sostanza divina. Questa visione della Trinità come una comunità d’amore ha influenzato la teologia ortodossa orientale, che sottolinea l’importanza dell’amore e della comunione nella vita cristiana.
Condannava l’immoralità e l’ingiustizia sociale del suo tempo, e ha esortato i fedeli a vivere una vita di virtù e di santità. La sua predicazione sulla necessità di una conversione interiore e di una vita di rettitudine morale ha avuto un impatto duraturo sulla spiritualità ortodossa orientale.
E’ stato un grande sostenitore dell’educazione teologica. Egli credeva che i sacerdoti e i teologi dovessero essere ben formati e preparati per il loro ministero. La sua insistenza sull’importanza dell’educazione teologica ha portato alla fondazione di scuole teologiche e all’istituzione di programmi di formazione per i futuri sacerdoti nella Chiesa ortodossa orientale
il libro dei Salmi è un esorcismo potente, poiché onora i giorni e le notti, le estati e gli inverni dell’anima. C’è spazio per la speranza e l’angoscia, per la gioia e la delusione, per l’entusiasmo e la demoralizzazione, il trasporto e la prostrazione, l’energia e l’affaticamento, il forte desiderio di riconciliazione e l’altrettanto pungente voglia di vendetta, comunione e solitudine. La porta è aperta a tutte le età della vita, vecchiaia compresa. Vi trovano casa tutti i legami: moglie, marito, genitori, figli, amici, nipoti, vicini… e anche i nemici. Nel Salterio sta la città e la campagna, la terra fertile e la polvere, il torrente pieno d’acqua e la siccità. Reagendo alle concrete, diversissime situazioni della vita reale, l’anima chiede, esige, supplica, loda, insiste, si arrende, si ostina e si abbandona, ringrazia e si lamenta. E ciò che più meraviglia e consola è che al termine di ciascuno di questi riverberi si possa esclamare: “Parola di Dio”.
salmo 23
Lo spiega bene, con affettuosa sapienza, monsignor Vincenzo Paglia nell’introduzione al suo commento al Salterio: L’arte della preghiera. La compagnia dei salmi nei momenti difficili (Milano, Terra Santa, 2020, euro 19). Il testo, scritto durante la pandemia causata dal Covid 19, intende, tra l’altro, esprimere la convinzione che, appunto, perfino dentro la bassa marea dell’anima lo Spirito può parlare. L’efficace introduzione è seguita dal commento a ciascun salmo; conciso, vitale, esigente e consolante. Nell’esposizione spicca la capacità dell’Autore di restituire non solo il senso delle parole dei salmi, ma anche la loro voce. È più facile intendere le parole rispetto alla voce. Le parole possono essere bugiarde, difficilmente lo è la voce, poiché è la prima decantazione dell’anima. Imparare a coglierla significa sfiorare il mistero di una persona. È agevole ripetere le parole di qualcuno; arduo echeggiarne la voce. Eppure è questa la sfida lanciata dal Buon Pastore. Altrimenti le pecore, ascoltando le parole di Cristo, ma non sentendone la voce, vanno da un’altra parte. Paglia commenta i salmi facendone risuonare la voce, come un’educazione alla voce di Cristo che, «gridando», recitò il salmo: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?».
Nel titolo del libro si trova la parola magica “arte”. La necessaria originalità di un’opera d’arte è sorprendente, ma mai eccentrica, poiché è anche risultato di disciplina, termine vicino a quello di “discepolo”. Diventa artista solo chi accetta di imparare, andando a bottega. Il lettore di questo libro si troverà simpaticamente in questa condizione.
di Giovanni Cesare Pagazzi
La compagnia dei salmi nei momenti difficili
Un invito a chi crede e chi no a superare l’afasia del nostro tempo incerto, per ritrovare nei salmi le parole più intime e appassionate di un dialogo con l’Eterno.
«L’arte della preghiera non richiede l’apprendimento di regole astratte. A pregare si impara pregando». In sintonia con questa convinzione, mons. Paglia invita chi crede e chi non crede a superare l’afasia del nostro tempo incerto, per ritrovare nei salmi le parole più intime e appassionate di un dialogo con l’Eterno.
Il Salterio è un preziosissimo scrigno di sapienza per cominciare – o ricominciare – a pregare. I salmi sono parole di carne. Nei salmi c’è l’intera vita: dal seno materno alla nascita, dalla giovinezza alla vecchiaia. Nei salmi c’è il lavoro, il riposo, i sensi di colpa, le grida nella malattia e nel dolore, ma anche la gratitudine, la gioia, la meraviglia.
I salmi mostrano le profondità nascoste del cuore umano, e insegnano a pregare non solo per se stessi, ma per l’intera creazione, accogliendo Dio per riversarlo sul mondo. Certo, è un rapporto asimmetrico, che porta la creatura a salire in alto, e il Signore a chinarsi premurosamente su di lei, ma la relazione è calda, intensa: talvolta, è una discussione a suon di imprecazioni e gelosie; talaltra, è una supplica struggente; altre volte ancora, è lode universale. Mai sono monologhi, i salmi. Sono sempre un dialogo tra un Tu che risponde e un io che chiede.
insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente.”
C'È UN TEMPO PER OGNI COSA - Qoelet 3,1-15
Una riflessione a mo’ di galleria fotografica per trarre sempre nuove riflessioni
Il mio secondo figlio si chiama Agustín, e non perché mio padre o mio nonno si chiamino così, e nemmeno perché chiamare i bambini in questo modo è di moda. Si chiama Agustín in onore di Sant’Agostino di Ippona. Ho voluto dargli questo nome, sul quale mio marito fortunatamente ha concordato, per non dimenticare mai quello che la vita di questo santo ha dato alla mia e a quella di tanti altri. Le Confessioni sono il libro attraverso il quale ho conosciuto Sant’Agostino, ed è quello che raccomando maggiormente quando parliamo di conversione e di lotta.
Oltre ad essere un bel dialogo tra Sant’Agostino e Dio, questa autobiografia dimostra che anche i santi sono stati peccatori come te e me. Tra le sue righe molti di noi hanno trovato riflesse la propria storia e le proprie cadute. È servita e serve da ispirazione e da incoraggiamento per la conversione di tanti.
Le confessioni, scritte dal 397 fino al 400 (anche se a riguardo ci sono state numerose dispute), sono un’opera divisa in 13 libri, nella quale Agostino ha voluto porre davanti a Dio e a noi tutti il ricordo della sua anima e, con una profonda umiltà, manifestare il suo vecchio e nuovo “io”.
Agostino inizia quello che sarà il suo libro più importante con un’invocazione a Dio. In seguito racconta i primi peccati infantili (che non ricorda ma che gli vengono raccontati o vede in altri bambini) quando cercava le mammelle per nutrirsi, si beava delle gioie o piangeva per le noie della sua carne.
Un bimbo comune che sorrideva, s’innervosiva e al quale non bastava mai niente. Lentamente imparò a parlare osservando i movimenti degli adulti, cominciò a comunicare con i segni adatti e da bimbo divenne, come si definì lui stesso, un fanciullo chiacchierone.
Ecco una riflessione a mo di galleria fotografica sulle Confessioni. Queste parole continuino ad ispirarci oggi come ieri nella ricerca della verità, ovvero nella ricerca di Dio.
1. I tempi di conversione sono i tempi di Dio
Quanti di noi, pur essendo nati in una famiglia cattolica, hanno conosciuto davvero Dio in età adulta? Non è mai tardi per tornare a Lui, Dio è sempre con noi. Siamo noi che non eravamo con Lui.
“Tardi ti ho amato,bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero se non esistessero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità. Hai effuso il tuo profumo; l’ho aspirato e ora anelo a te. Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace”.
2. Dio chiama sempre, cerca sempre e si incarica personalmente di ciascuno di noi
Quante volte non capiamo cosa ci accade nella vita? Quante cadute, quanti dolori… Anche se sembra che siamo soli in mezzo all’incertezza, Dio è sempre lì; parla, consola e cura con attenzione, anche nel dolore.
“Sotto il lavorio della tua mano delicatissima e pazientissima, Signore, ora il mio cuore lentamente prendeva forma”.
3. Chiedere a Dio significa anche essere disposti ad ascoltare e a ricevere ciò che Egli ci dà. Dio non sbaglia mai
Quante volte abbiamo levato gli occhi al cielo chiedendo qualcosa a Dio? Gli abbiamo affidato i nostri desideri, i nostri sogni. Gli abbiamo chiesto di alleggerire il nostro peso. A volte sembra che non ci ascolti, ma lo fa sempre e dà ciò che sa che è meglio per ciascuno.
“Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode”.
4. Dio conosce il più profondo del nostro essere, è Lui che lo ha modellato con le proprie mani
Costa credere che siamo davvero figli di Dio, tutti e ciascuno di noi. Anche quelli che non credono in Lui. Dio conosce ogni angolo del nostro essere, ogni pensiero, ogni sogno, ogni anelito, ogni caduta, ogni lotta, perché sono state le Sue mani a modellare la nostra esistenza.
“O bontà onnipotente, che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno”
5. Dio ci forma attraverso altri. La responsabilità dell’amore incondizionato
Noi mamme sappiamo quanto costa allevare un figlio. Serve fiducia in Dio per formarli nella libertà e nella verità. Santa Monica, madre di Sant’Agostino, ci insegna che tutti i dolori e le paure nell’allevare i nostri figli, quando sono offerti a Dio, danno frutto. Tutti siamo chiamati ad essere santi, e tutte le madri sono chiamate ad allevare figli santi per Dio.
“Piangeva innanzi a te mia madre, tua fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli. Grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te essa vedeva la mia morte; e tu l’esaudisti, Signore”. “Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore”.
6. Dio è la nostra unica consolazione di fronte alla morte
Perdere qualcuno che amiamo profondamente è così doloroso che si desidera anche la propria morte. Senza Dio siamo perduti, soli, ma Egli comprende questo dolore e ci promette un incontro futuro e senza separazioni nella vita eterna. Questa promessa è quella che ci deve riempire di speranza e far ripristinare la gioia perduta per l’assenza fisica di coloro che se ne sono andati.
“L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in chi non è mai perduto. E chi è costui, se non il Dio nostro, il Dio che creò il cielo e la terra e li colma, perché colmandoli li ha fatti?”
7. La misericordia di Dio è infinita. Non stanchiamoci mai di chiedere perdono
Ci sono giorni in cui vorremmo darci per vinti. È una lotta che sembriamo perdere, stanchi di cadere e di chiedere perdono sempre per le stesse cose. Dio non si stanca di perdonarci, siamo noi che pensiamo di non essere più degni di perdono. La sua misericordia è infinita.
“Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e levato dal fango, e io lo ignoravo”.
8. La generosità nella comunità cristiana è un vero cammino di conversione
Soprattutto in quest’epoca, quanto è importante volgere il nostro sguardo ai nostri fratelli bisognosi della nostra generosità e del nostro amore! C’è tanta gente che muore di fame mentre alcuni sono pieni di ricchezze!
“Tutti i beni che mai possedessimo, sarebbero stati messi in comune, costituendosi, di tutti, un patrimonio solo. In tale maniera, per la nostra schietta amicizia non ci sarebbero stati beni dell’uno o dell’altro, ma un’unica sostanza, formata da tutti; questa sostanza collettiva sarebbe stata di ognuno, e tutte le sostanze sarebbero state di tutti”.
9. Trovano Dio solo gli umili, i più piccoli
In un mondo in cui si ripone il valore nell’immagine e in ciò che si ha, Sant’Agostino ci ricorda che è agli umili che Dio guarda volentieri.
“Volgi lo sguardo sugli umili, mentre gli eccelsi li vuoi conoscere da lontano e solo ai cuori contriti ti avvicini; non ti riveli ai superbi neppure se con la loro curiosa destrezza sappiano calcolare le stelle e l’arena, misurare gli spazi siderei ed esplorare le piste degli astri”.
10. La morte non è la fine. La vera vita è accanto a Dio
Desideroso di essere immortale, l’uomo lotta per evitare la morte, per prolungare la giovinezza, e disprezza tutto ciò che gli ricorda che è passeggero, che il corpo si deteriora e che avrà una fine. Sant’Agostino ci ricorda che la nostra vera dimora è il cielo.
“La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità”.
11. Il riposo e il senso della nostra esistenza si vedranno saziati solo da Dio
Il desiderio di infinito che ha l’essere umano non è altro che un’espressione della nostalgia di Dio, della chiamata ad essere eterni. Riusciremo a saziare questo anelito, questa fame, solo nutrendoci di Dio.
“Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.
I vari volti della santità. Pensiamo a Maria sposa, madre, sorella, anche lei Donna dell’impossibile che ha reso tutto possibile!
Come tu mi vuoi Eccomi Signor, vengo a te mio Re Che si compia in me la tua volontà Eccomi Signor vengo a te mio Dio Plasma il cuore mio e di te vivrò Se tu lo vuoi Signore manda me e il tuo nome annuncerò
Santa Rita nacque a Roccaporena (Cascia) verso il 1380. Secondo la tradizione era figlia unica e fin dall’adolescenza desiderò consacrarsi a Dio ma, per le insistenze dei genitori, fu data in sposa ad un giovane di buona volontà ma di carattere violento. Dopo l’assassinio del marito e la morte dei due figli, ebbe molto a soffrire per l’odio dei parenti che, con fortezza cristiana, riuscì a riappacificare. Vedova e sola, in pace con tutti, fu accolta nel monastero agostiniano di santa Maria Maddalena in Cascia. Visse per quarant’anni anni nell’umiltà e nella carità, nella preghiera e nella penitenza. Negli ultimi quindici anni della sua vita, portò sulla fronte il segno della sua profonda unione con Gesù crocifisso. Morì il 22 maggio 1457. Invocata come taumaturga di grazie, il suo corpo si venera nel santuario di Cascia, meta di continui pellegrinaggi. Beatificata da Urbano VIII nel 1627, venne canonizzata il 24 maggio 1900 da Leone XIII. E’ invocata come santa del perdono e paciera di Cristo.Patronato: Donne maritate infelicemente, Casi disperati Etimologia: Rita = accorc. di Margherita Martirologio Romano: Santa Rita, religiosa, che, sposata con un uomo violento, sopportò con pazienza i suoi maltrattamenti, riconciliandolo infine con Dio; in seguito, rimasta priva del marito e dei figli, entrò nel monastero dell’Ordine di Sant’Agostino a Cascia in Umbria, offrendo a tutti un sublime esempio di pazienza e di compunzione.
E’ la piccola borgata di Roccaporena, in Umbria, a dare i natali, molto probabilmente nel 1371, a Margherita Lotti, chiamata col diminutivo “Rita”. I genitori, modesti contadini e pacieri, provvedono a farle avere una buona educazione scolastica e religiosa nella vicina Cascia, dove l’istruzione è curata dai frati agostiniani. Matura in tale contesto la devozione verso Sant’Agostino, San Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, che Rita sceglie come suoi santi protettori. Rita moglie e madre Intorno al 1385 sposa Paolo di Ferdinando di Mancino. Contese e rivalità politiche sono i tratti che contraddistinguono la società di allora; anche il marito di Rita ne è coinvolto. Ma la giovane sposa, con la preghiera, la sua pacatezza e con quella capacità di pacificare appresa dai genitori, lo aiuta pian piano a vivere una condotta più autenticamente cristiana. Con l’amore, la comprensione e la pazienza, quella di Rita e Paolo diviene così un’unione feconda, allietata dall’arrivo di due figli maschi: Giangiacomo e Paolo Maria. Al sereno focolare domestico si contrappone però la spirale d’odio delle fazioni dell’epoca. Lo sposo di Rita vi si trova coinvolto anche per i vincoli di parentela, e viene assassinato. Per evitare di indurre i figli alla vendetta, nasconde loro la camicia insanguinata del padre. In cuor suo Rita perdona chi ha ucciso il marito, ma la famiglia di Mancino non si rassegna, fa pressioni; ne scaturiscono rancori ed ostilità. Rita non smette di pregare perché non si sparga altro sangue e fa della preghiera la sua arma e consolazione. Eppure le tribolazioni non vengono meno. Una malattia provoca la morte di Giangiacomo e Paolo Maria: l’unico conforto è pensare le loro anime salve, non più nel pericolo della dannazione nel clima di ritorsioni suscitato dall’assassinio del coniuge.
Monaca agostiniana Rimasta sola, Rita comincia una vita di più intensa preghiera, per i suoi cari defunti, ma anche per i “di Mancino”, perché perdonino e trovino la pace. All’età di 36 anni chiede di essere accolta tra le monache agostiniane del Monastero Santa Maria Maddalena di Cascia, ma la sua richiesta viene respinta: le religiose, forse, temono con l’ingresso di Rita – vedova di un uomo assassinato – di mettere a repentaglio la sicurezza della loro comunità. Le preghiere di Rita e le intercessioni dei suoi santi protettori portano invece alla pacificazione tra le famiglie coinvolte nell’uccisione di Paolo di Mancino e dopo tanti ostacoli avviene l’ingresso in monastero. Si racconta che, durante il noviziato, la badessa, per provare l’umiltà di Rita, le abbia chiesto di innaffiare un arido legno e che la sua obbedienza sia stata premiata da Dio con una vite tutt’ora rigogliosa. Negli anni Rita si distingue come religiosa umile, zelante nella preghiera e nei lavori affidatile, capace di frequenti digiuni e penitenze. Le sue virtù divengono note anche fuori dalle mura del monastero, pure a motivo delle opere di carità cui Rita si dedica insieme alle consorelle, che alla vita di preghiera affiancano le visite agli anziani, la cura degli ammalati, l’assistenza ai poveri.
La santa delle rose Sempre più immersa nella contemplazione di Cristo, Rita chiede di poter partecipare alla sua Passione e nel 1432, assorta in preghiera, si ritrova sulla fronte la ferita di una spina della corona del Crocifisso che persiste fino alla morte, per 15 anni. Nell’inverno che precede la sua morte Rita, malata e costretta a letto, chiede a una cugina, venuta in visita da Roccaporena, di portarle due fichi e una rosa dall’orto della casa paterna. É il mese di gennaio, la donna l’asseconda, pensandola nel delirio della malattia. Rientrata, trova, stupefatta, la rosa e i fichi e li porta a Cascia. Per Rita sono segno della bontà di Dio che ha accolto in cielo i suoi due figli e il marito. Rita spira nella notte tra il 21 e il 22 maggio dell’anno 1447. Per il grande culto fiorito immediatamente dopo, il suo corpo non è mai stato sepolto. Oggi lo custodisce un’urna in vetro. Rita ha saputo fiorire nonostante le spine che la vita le ha riservato, donando il buon profumo di Cristo e sciogliendo il gelido inverno di tanti cuori. Per tale ragione, e a ricordo del prodigio di Roccaporena, il simbolo ritiano per eccellenza è la rosa.
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n’è uno in particolare che riguarda santa Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte. Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena. Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti. Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza. La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità. Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione. Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante. E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio. Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo. Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente. Frequentava anche la chiesa di s. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento. Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto. Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie. I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta. E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite. Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita. Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fa’ di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre. A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc. Al contrario di santa Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio. Santa Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente. Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia. Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero. Secondo la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso: si narra che una notte, Rita, come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al di sopra del villaggio di Roccaporena) e che qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori sopra citati, i quali la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero; era l’anno 1407. Quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro. Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni. La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere. Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione. La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente. Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio. E in questa fase finale della sua vita avvenne un altro prodigio: essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente la quale, nel congedarsi, le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena; Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto; la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile. Ma Rita insistè. Tornata a Roccaporena, la parente si recò nell’orticello e, in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata. Stupita, la colse e la portò da Rita a Cascia la quale, ringraziando, la consegnò alle meravigliate consorelle. Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli. Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene spesso ritenuto) Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì: sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura. Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa. Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di santa Rita a Cascia. Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di santa Rita. Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte. Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente. Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di santa Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino. Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.
Santa Rita da Cascia, modello di donna, di sposa, di mamma e di religiosa, io ricorro alla tua intercessione nei momenti difficili della mia vita. Tu sai che spesso la tristezza mi opprime perché non so trovare la via d’uscita in tante situazioni dolorose. Ottienimi dal Signore le grazie di cui ho bisogno, specialmente la serena fiducia in Lui e la tranquillità interiore. Fa’ che io imiti la tua dolce mitezza, la tua forza nelle prove e la tua eroica carità e chiedi al Signore che sappia sopportare le mie sofferenze perché possano giovare a tutti i miei cari e che tutti possano camminare sereni verso la Patria eterna, dove tu ci attendi nella gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Padre Nostro, Ave Maria, Gloria al Padre
Ideazione Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Dieci parabole moderne per approfondire il tema “L’altro è un dono”
Seguendo il Messaggio per la Quaresima 2017 di papa Francesco, il sacerdote gesuita messicano Sergio Guzmán ha pubblicato sulla pagina web dell’agenzia cattolica SIGNIS una recensione di dieci film che possono servire ad approfondire il tema del Messaggio papale, “La Parola è un dono. L’altro è un dono”.
Basandosi su questo documento e intercalandolo con la trama, padre Guzmán, che scrive dalla città messicana di Monterrey, raccomanda “alcune pellicole che, come parabole, possono aiutarci a riflettere sulla nostra vita, su come stiamo vivendo e come possiamo tornare a Dio e agli altri con tutto il cuore”.
La Strada, di Federico Fellini (Italia, 1954, 104 min.)
Questo film ci parla di un amore fino all’estremo (cfr. Gv 13,1). Gelsomina (Giulietta Masina) viene venduta dalla madre al circense e brutale Zampanò (Anthony Quinn). Nonostante l’atteggiamento aggressivo e violento dell’uomo, la ragazza si sente attratta dallo stile di vita della strada, soprattutto quando il suo padrone la inserisce nello spettacolo. Anche se vari dei personaggi che incontra le offrono di unirsi a loro, Gelsomina non si separa dal suo amato. Nel Messaggio per la Quaresima, papa Francesco dice: “Ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza, rispetto, amore. La Parola di Dio ci aiuta ad aprire gli occhi per accogliere la vita e amarla, soprattutto quando è debole”. Gelsomina, la ragazza della strada, il pagliaccio dallo sguardo tenero, è maestra in questo.
Il ladro, di Alfred Hitchcock (USA, 1956, 105 min.)
Il film racconta una storia reale: quella di Christopher Emmanuel Balestrero, un uomo accusato di un crimine che non ha commesso. Richiama l’attenzione il significato dei suoi nomi: Christopher, ovvero “colui che porta Cristo”, ed Emmanuel, “Dio con noi”. Con un’eccellente intepretazione di Henry Fonda, vediamo quest’uomo buono (onesto, felicemente sposato, padre esemplare) portato da una parte all’altra come Gesù nella sua passione (cfr. Lc 22-23). Davanti al tribunale, in alcune scene toccanti, possiamo esclamare: “Davvero quest’uomo era giusto” (Lc 23, 47). Una film, come tanti di Hitchcock, che non ci lascia tranquilli e può portarci a riflettere su ciò che ci dice papa Francesco: “La Quaresima è un tempo propizio per aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di Cristo”.
Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini (Italia, 1964, 130 min.)
Un capolavoro della cinematografia che presenta con rispetto, emotività e realismo la vita di Gesù in base al Vangelo di San Matteo. Con poche risorse, attori non professionisti, utilizzando scenografie minime, con una colonna sonora che va dalle Messe di Bach e Mozart al blues, Pasolini crea una storia convincente di Gesù. Il film segue in modo lineare i 28 capitoli di Matteo, dall’Annunciazione alla Resurrezione. Non potremo mai sapere esattamente come fosse Gesù di Nazareth, ma il Gesù che ci presenta Pasolini convince, commuove e ci può aiutare ad avvicinarci al volto pieno d’amore, tenerezza e compassione di Gesù.
Gran Torino, di Clint Eastwood (USA, 2008, 116 min.)
Walt Kowalski (Clint Eastwood) è un vedovo che vive con la cagna Daisy a Highland Park (Michigan), un quartiere di recente “invaso” da immigrati di provenienza asiatica (comunità hmong). Walt si mostra sempre freddo e di malumore con i nuovi vicini, fino a quando scopre un ragazzo di nome Thao Vang Lor (Bee Vang) che cerca di rubare la sua macchina Gran Torino. Vedremo la trasformazione del personaggio e come tutto il film possa essere una parabola cristiana. “La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto”, ci dice il papa nel suo Messaggio.
Chocolat, di Lasse Hallström (Regno Unito, 2000, 121 min.)
Il vento del Nord - Chocolat
La pellicola rimanda al 1959 – anno in cui papa Giovanni XXIII sogna e annuncia la celebrazione di un Concilio –, e lo spettatore viene portato in un villaggio grigio e freddo della campagna francese. Nella chiesa del paese, a porte chiuse, il sacerdote annuncia l’inizio della Quaresima ed esorta al digiuno e alla penitenza. Dal pulpito il sacerdote chiede e si chiede: “Dove troveremo la verità? Dove si inizia a cercarla?” Prima di terminare la sua omelia, un forte vento apre le porte e irrompe in tutta la chiesa. In questo periodo di Quaresima, una donna e sua figlia arrivano in paese e aprono una cioccolateria. Mangiare o non mangiare, uscire o rinchiudersi, accogliere o respingere sono i dilemmi che dovranno affrontare i protagonisti di questa storia.
¿Quién sabe cuánto cuesta hacer un ojal?, di Ricardo Larraín (Cile, 2005, 60 min.)
Il film racconta la storia di Sant’Alberto Hurtado dalla sua infanzia e giovinezza fino all’ingresso nella Compagnia di Gesù. Tutto accade agli inizi del Novecento, quando il giovane Alberto si interroga sul senso della sua vita, della sua fede come cristiano, della sua vocazione. Entriamo rapidamente in sintonia con lui: lo vediamo andare in campagna, all’università o dalle sarte povere che aiuta, chiacchierare con sua madre, uscire con gli amici, pregare e digiunare. Risuonano qui le parole del Santo Padre: “La Quaresima è il momento favorevole per intensificare la vita dello spirito attraverso i santi mezzi che la Chiesa ci offre: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Alla base di tutto c’è la Parola di Dio, che in questo tempo siamo invitati ad ascoltare e meditare con maggiore assiduità”.
Casino, di Martin Scorsese (USA-Francia, 1995, 184 min.)
Ace Rothstein (Robert de Niro) è un allibratore, amministratore di un casinò. Egli stesso racconta la sua storia: “In mezzo al deserto guadagniamo denaro, è il risultato di tutte queste luci brillanti, dei viaggi regalati per cortesia, di champagne, suites gratis, donne ed alcool. Tutto è disposto perché vi prendiamo il denaro. Questa è la verità su Las Vegas”. Rothstein pensa di aver ricevuto un paradiso in terra, ma la verità, come vedremo nel corso della pellicola, è diversa. “Dice l’apostolo Paolo che “l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6, 10). Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci, così da diventare un idolo tirannico”, leggiamo nel Messaggio del papa.
Quarto Potere, di Orson Welles (USA, 1941, 119 min.)
Charles Foster Kane (Orson Welles) è un miliardario, magnate della stampa, che negli ultimi anni della sua vita ha vissuto solo nella sua sontuosa residenza Xanadu. Muore nel suo letto pronunciando la parola “Rosebud” mentre una palla di neve gli cade dalle mani e si scioglie. Il giornalista Jerry Thompson (William Allad) indaga sulla vita privata di Kane per scoprire il significato dell’ultima parola che ha pronunciato. Tutto il film ruota intorno a questo enigma. “Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque una sorta di cecità”, ci dice papa Francesco nel suo Messaggio. Riflettiamo: come ha vissuto Kane? Cosa lo ha accecato nella vita? A cosa anela prima di morire?
Fratello sole, sorella luna, di Franco Zeffirelli (Italia, 1972, 130 min.)
Fratello Sole, Sorella Luna - Conversione 1
È un film pieno di colore, bellezza e poesia sulla vita di San Francesco d’Assisi (1181-1226). In poco più di due ore possiamo vedere Francesco quando torna ammalato e trascinando i piedi dopo una guerra, quando ricorda la sua vita piena di lusso, quando scende nella tintoria del padre e si commuove fino alle lacrime di fronte alla miseria di chi vi lavora, quando inizia la sua conversione e si spoglia dei suoi abiti per vivere in povertà e con più libertà, quando va in campagna e ricostruisce una vecchia chiesa, quando ispira molti giovani a vivere il Vangelo. Francesco (Fratello sole) e Chiara (Sorella luna) sono due grandi santi che possono offrirci molta luce, colore e speranza in questo periodo in cui papa Francesco ci invita a vedere l’altro come un dono.
Le chiavi del regno, di John M. Stahl (USA, 1944, 137 min.)
Un classico del genere religioso interpretato da Gregory Peck che ci presenta con rispetto ed emotività la vita di un sacerdote cattolico dedito alla missione, umile, aperto, di buonumore e con un gran cuore. Il film trabocca ecumenismo, misericordia, tolleranza e carità creativa. Vedendo questo film pensiamo a quando il papa ci dice: “La Quaresima è il tempo favorevole per rinnovarsi nell’incontro con Cristo vivo nella sua Parola, nei Sacramenti e nel prossimo. Il Signore – che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto ha vinto gli inganni del Tentatore – ci indica il cammino da seguire. Lo Spirito Santo ci guidi a compiere un vero cammino di conversione, per riscoprire il dono della Parola di Dio, essere purificati dal peccato che ci acceca e servire Cristo presente nei fratelli bisognosi”.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]