Perche’ i francescani vestono di marrone

Perche’ i francescani vestono di marrone

All’inizio avevano solo il marrone: la stoffa non tinta era la più economica disponibile.

Vivere semplicemente

I frati francescani vivono la loro vita in solidarietà con i poveri, prendendo voti di povertà e vivendo con pochi beni. La Regola di San Francesco non prescrive alcun colore particolare all’ordine, ma invita i suoi membri a “indossare abiti umili”, a “vestirsi con abiti scadenti”. I francescani servono i poveri al loro livello e non aiuterebbe la loro missione essere ricoperti di abiti eleganti mentre servono gli indigenti.

I toni della terra riflettono il corpo terreno

Ogni ordine che fa voto di povertà lo fa per dimostrare che i beni non sono ciò che ci definisce e per seguire le parole di Cristo in Matteo 19:21:

Gesù gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo. Allora vieni e seguimi.”

Si menziona l’ammirazione del santo per l’allodola, suggerendo che il marrone riflette la vita terrena e le opere dell’ordine per alleviare la sofferenza terrena:

“Il suo piumaggio è terroso. Dà l’esempio alle religiose e ai religiosi affinché non debbano avere abiti eleganti e raffinati, ma piuttosto indossare colori spenti, come quelli della terra”.

Per saperne di più:
Cappuccino è stato ispirato dai frati cattolici del XVI secolo 

All’inizio il marrone era tutto ciò che avevano

San Francesco iniziò il suo ordine circa 809 anni fa, nel 1209. All’epoca le vesti dei confratelli venivano fornite dai contadini, che spesso non erano molto più ricchi dei francescani. Il colore più comune indossato dalla classe contadina dei secoli bui erano varie tonalità di grigio e marrone, a seconda della fonte di lana utilizzata. Il tessuto non tinto era il più economico disponibile. La veste indossata da San Francesco conservata presso la Basilica di Nostra Signora degli Angeli è grigia. I francescani, il cui abbigliamento doveva essere utile e duraturo, non si preoccupavano del colore, ma man mano che la loro influenza cresceva, il marrone divenne semplicemente “il loro colore”.

Il colore serviva anche ad un altro scopo. Quando iniziò l’ordine, i fratelli vivevano nel lebbrosario di Rivo Torto vicino ad Assisi e trascorrevano gran parte del loro tempo scalando la regione montuosa dell’Umbria per portare soccorso ai bisognosi. I frati dormivano spesso nella terra e il colore marrone era utile per aiutarli a sembrare ancora relativamente puliti.

I Frati Francescani del Rinnovamento, ramo più recente dei seguaci di Francesco, sono noti per il loro abito grigio.
MONACI TRAPPISTI

La cintura

Un altro tratto distintivo del loro abbigliamento francescano è il cingolo, una lunga corda con tre nodi legati che viene indossata intorno alla vita. Mentre il cingolo aiuta a tenere chiuse le vesti del sacco nelle giornate ventose, i tre nodi rappresentano Povertà, Castità e Obbedienza , i tre capisaldi dell’Ordine francescano.

La foresta

Mentre la maggior parte degli abiti francescani hanno un cappuccio attaccato, un ramo si distingue per i suoi lunghi cappucci, noti come capuches. I Francescani Cappuccini prendono il nome da questo tratto distintivo, e hanno a loro volta dato il nome alla scimmia cappuccina (che sembra indossare un cappuccio) e al cappuccino, la bevanda al caffè che riprende la colorazione dell’abito francescano.

Festa di San Francesco d’Assisi

Festa di San Francesco d’Assisi

Commento di Papa Francesco

Testo del Vangelo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Meditazione
Da dove parte il cammino di Francesco verso Cristo? Parte dallo sguardo di Gesù sulla croce. Lasciarsi guardare da Lui nel momento in cui dona la vita per noi e ti attira a Lui. Francesco ha fatto questa esperienza in modo particolare nella chiesetta di san Damiano, pregando davanti al Crocifisso che io oggi potrò venerare. In quel crocifisso Gesù non appare morto, ma vivo! Il sangue scende dalle ferite delle mani, dei piedi e del costato, ma quel sangue esprime vita. Gesù non ha gli occhi chiusi, ma aperti, spalancati: uno sguardo che parla al cuore. E il Crocifisso non ci parla di sconfitta, di fallimento; paradossalmente ci parla di una morte che è vita, che genera vita, perché ci parla di amore, perché è l’Amore di Dio incarnato, e l’Amore non muore, anzi, sconfigge il male e la morte. Chi si lascia guardare da Gesù crocifisso viene ri-creato, diventa una «nuova creatura». Da qui parte tutto: è l’esperienza della Grazia che trasforma, l’essere amati senza merito, pur essendo peccatori. Per questo Francesco può dire, come san Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci a rimanere davanti al Crocifisso, a lasciarci guardare da Lui, a lasciarci perdonare…

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria 
e l’honore et onne benedizione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfane,
e nullu homo ène dignu Te mentovare.

Laudato si’…

Francesco inizia il Cantico così: “Altissimo, onnipotente, bon Signore… Laudato sì… cun tutte le tue creature” (FF, 1820). L’amore per tutta la creazione, per la sua armonia! Il Santo d’Assisi testimonia il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato e come Lui lo ha creato, senza sperimentare sul creato per distruggerlo; aiutarlo a crescere, a essere più bello e più simile a quello che Dio ha creato. E soprattutto san Francesco testimonia il rispetto per tutto, testimonia che l’uomo è chiamato a custodire l’uomo, che l’uomo sia al centro della creazione, al posto dove Dio – il Creatore – lo ha voluto. Non strumento degli idoli che noi creiamo! L’armonia e la pace! Francesco è stato uomo di armonia, uomo di pace…da questa città della pace, ripeto con la forza e la mitezza dell’Amore: rispettiamo la creazione! Non siamo strumenti di distruzione! Rispettiamo ogni essere umano: cessino i conflitti armati che insanguinano la terra, tacciano le armi e dovunque l’odio ceda il posto all’amore, l’offesa al perdono e la discordia all’unione. 

Recita
Sabrina Boschetti

Musica di sottofondo
Arrangiamento musicale con chitarra di Gabriele Fabbri

Meditazione
Papa Francesco, brano tratto dall’omelia tenuta in Piazza San Francesco in Assisi il 4 ottobre 2013

S Pio Da Pietrelcina

S Pio Da Pietrelcina

“Gli anni si sono susseguiti senza che noi ci domandassimo come li avevamo impiegati.

Siate come piccole api spirituali, le quali non portano nel loro alveare altro che miele e cera. La vostra casa sia tutta piena di dolcezza, di pace, di concordia, di umiltà e di pietà per la vostra conversazione.

Tanto hai quanto speri. Spera molto, avrai molto” Padre Pio

“S Pio Da Pietrelcina: un faro di fede e speranza.”

Poteri e miracoli di Padre Pio - Porta a porta 19/09/2018

Introduzione

San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, è stato un frate cappuccino italiano vissuto nel XX secolo. Nato il 25 maggio 1887 a Pietrelcina, in provincia di Benevento, Padre Pio è diventato uno dei santi più amati e venerati della Chiesa cattolica. Durante la sua vita, ha sperimentato fenomeni mistici come le stimmate, le visioni e la bilocazione. È stato anche un famoso consigliere spirituale e confessore, dedicando gran parte del suo tempo a guidare le persone sulla via della santità. Padre Pio è morto il 23 settembre 1968 a San Giovanni Rotondo, dove è stato sepolto. La sua figura continua ad essere un punto di riferimento per i fedeli di tutto il mondo, che lo considerano un esempio di fede, umiltà e amore verso Dio e il prossimo.

La vita e l’opera di San Pio da Pietrelcina

S Pio Da Pietrelcina
San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, è stato un frate cappuccino italiano che ha vissuto nel XX secolo. Nato il 25 maggio 1887 a Pietrelcina, un piccolo paese in provincia di Benevento, Pio è diventato uno dei santi più amati e venerati della Chiesa cattolica.

La vita di San Pio è stata segnata da numerosi eventi straordinari e misteriosi. Fin da giovane, ha mostrato una profonda devozione religiosa e un forte desiderio di dedicarsi completamente a Dio. A 15 anni, ha deciso di entrare nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e ha iniziato il suo percorso di formazione spirituale.

Durante il suo noviziato, Pio ha sperimentato le prime manifestazioni dei fenomeni mistici che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Ha riferito di visioni, estasi e stigmate, le ferite simili a quelle di Cristo sulla croce. Questi fenomeni hanno attirato l’attenzione dei suoi superiori e dei fedeli, ma Pio ha cercato di vivere queste esperienze in modo discreto e umile.

Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1910, Padre Pio è stato inviato al convento di San Giovanni Rotondo, dove ha trascorso gran parte della sua vita. Qui ha dedicato se stesso alla preghiera, alla penitenza e all’assistenza spirituale dei fedeli. Molte persone sono venute da lui per chiedere consigli, conforto e guarigione.

Padre Pio è stato anche un grande confessore. Passava molte ore al giorno nel confessionale, ascoltando le confessioni dei fedeli e offrendo loro la misericordia di Dio. La sua capacità di leggere nel cuore delle persone e di offrire parole di conforto e speranza ha fatto di lui un punto di riferimento per molti.

La fama di Padre Pio si è diffusa rapidamente e ha attirato l’attenzione di molte persone, tra cui anche alcuni scettici. Alcuni lo hanno accusato di frode e di essere un impostore, ma Pio ha sempre respinto queste accuse e ha continuato a dedicarsi alla sua missione spirituale.

Durante la sua vita, Padre Pio ha fondato il “Gruppo di preghiera” e ha promosso la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Ha incoraggiato i fedeli a pregare, a fare penitenza e ad amare il prossimo. Ha anche sostenuto l’importanza della confessione e della comunione frequente come mezzi per avvicinarsi a Dio.

Padre Pio è morto il 23 settembre 1968, ma la sua eredità spirituale è ancora viva oggi. È stato canonizzato da Papa Giovanni Paolo II nel 2002 e il suo corpo è stato esposto nella chiesa di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo, diventando un luogo di pellegrinaggio per milioni di persone ogni anno.

La vita e l’opera di San Pio da Pietrelcina sono un esempio di fede, umiltà e amore per Dio e per il prossimo. La sua devozione e il suo impegno nel servire gli altri hanno ispirato e continuano a ispirare milioni di persone in tutto il mondo. La sua santità è stata riconosciuta dalla Chiesa cattolica e la sua figura è diventata un simbolo di speranza e di consolazione per molti.

I miracoli attribuiti a San Pio da Pietrelcina

San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, è stato un frate cappuccino italiano che ha vissuto nel XX secolo. Durante la sua vita, è stato testimone di numerosi miracoli che sono stati attribuiti alla sua intercessione divina. Questi miracoli hanno contribuito a consolidare la sua reputazione come santo e a ispirare la devozione di milioni di persone in tutto il mondo.

Uno dei miracoli più noti attribuiti a San Pio è la guarigione di una donna affetta da un tumore al cervello. La donna, dopo aver ricevuto la benedizione di Padre Pio, ha sperimentato una remissione completa del tumore. Questo caso è stato ampiamente documentato e ha portato a un aumento della fede e della devozione verso San Pio.

Un altro miracolo attribuito a San Pio è la guarigione di un uomo affetto da una grave malattia cardiaca. L’uomo, che era stato dichiarato incurabile dai medici, ha pregato intensamente a San Pio per la sua intercessione. Dopo aver ricevuto la benedizione di Padre Pio, l’uomo ha sperimentato un miglioramento improvviso delle sue condizioni e alla fine è stato dichiarato completamente guarito.

Un altro caso di guarigione miracolosa attribuita a San Pio riguarda un bambino affetto da una malattia genetica rara. I genitori del bambino hanno portato il loro caso a San Pio, pregando per la sua intercessione. Dopo aver ricevuto la benedizione di Padre Pio, il bambino ha mostrato un miglioramento significativo delle sue condizioni e alla fine è stato dichiarato completamente guarito.

Non sono solo le guarigioni fisiche a essere attribuite a San Pio, ma anche i miracoli spirituali. Molti credenti sostengono di aver ricevuto grazie e benedizioni dopo aver pregato a San Pio. Questi miracoli spirituali includono la conversione di peccatori, la liberazione da dipendenze e la guarigione delle ferite emotive.

Un altro aspetto interessante dei miracoli attribuiti a San Pio è la sua capacità di bilocarsi. Ci sono numerosi resoconti di persone che affermano di aver visto Padre Pio in luoghi diversi contemporaneamente. Questi resoconti sono stati ampiamente documentati e hanno contribuito a rafforzare la credenza nella sua santità.

È importante sottolineare che la Chiesa cattolica ha un rigoroso processo di indagine per confermare i miracoli attribuiti ai santi. Prima che un miracolo possa essere ufficialmente riconosciuto, deve essere sottoposto a un’attenta valutazione da parte di esperti medici e teologi. Solo dopo che il miracolo è stato giudicato autentico, viene riconosciuto dalla Chiesa.

In conclusione, i miracoli attribuiti a San Pio da Pietrelcina sono numerosi e hanno avuto un impatto significativo sulla vita di molte persone. Le guarigioni fisiche e spirituali, insieme alla sua capacità di bilocarsi, hanno consolidato la sua reputazione come santo e hanno ispirato la devozione di milioni di persone in tutto il mondo. La Chiesa cattolica ha riconosciuto ufficialmente molti di questi miracoli, confermando così la santità di San Pio. La sua eredità continua a vivere attraverso la devozione dei fedeli e la sua influenza spirituale.

La spiritualità di San Pio da Pietrelcina

San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, è stato un frate cappuccino italiano che ha vissuto nel XX secolo. È considerato uno dei santi più amati e venerati della Chiesa cattolica, grazie alla sua profonda spiritualità e alla sua vita di santità.

La spiritualità di San Pio da Pietrelcina era caratterizzata da una profonda devozione a Dio e una totale dedizione alla preghiera. Fin dalla giovane età, Padre Pio ha dimostrato una grande passione per la vita religiosa e ha intrapreso il cammino verso la santità. Ha trascorso molte ore in preghiera, sia in solitudine che in comunità, cercando di avvicinarsi sempre di più a Dio.

Uno degli aspetti distintivi della spiritualità di San Pio da Pietrelcina era la sua profonda fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Egli credeva fermamente che il pane e il vino consacrati durante la Messa si trasformassero nel corpo e nel sangue di Cristo. Questa convinzione lo ha spinto a celebrare la Messa con grande devozione e a incoraggiare i fedeli a partecipare attivamente alla liturgia.

Padre Pio era anche noto per la sua devozione alla Madonna. Egli aveva una grande fiducia nella protezione e nell’intercessione della Vergine Maria e incoraggiava i suoi devoti a rivolgersi a lei con fiducia e amore. La sua devozione alla Madonna era così profonda che spesso recitava il Rosario più volte al giorno, invitando i fedeli a unirsi a lui in questa preghiera mariana.

La spiritualità di San Pio da Pietrelcina era anche caratterizzata da una profonda umiltà e umanità. Nonostante i numerosi doni spirituali che ha ricevuto, tra cui la capacità di leggere le anime e il dono della bilocazione, Padre Pio si considerava solo un povero frate cappuccino al servizio di Dio. Ha sempre cercato di vivere in umiltà e di servire gli altri con amore e compassione.

La preghiera era il fondamento della vita spirituale di San Pio da Pietrelcina. Egli credeva che la preghiera fosse il mezzo principale per entrare in comunione con Dio e per ottenere la sua grazia. Padre Pio incoraggiava i suoi devoti a pregare costantemente, sia attraverso la recita del Rosario che attraverso la preghiera personale. Egli credeva che la preghiera fosse un dialogo con Dio e che attraverso di essa si potesse ottenere la forza e la guida necessarie per affrontare le sfide della vita.

La spiritualità di San Pio da Pietrelcina ha ispirato milioni di persone in tutto il mondo. La sua vita di santità e la sua profonda devozione a Dio sono un esempio per tutti coloro che cercano di vivere una vita di fede e di amore. La sua eredità spirituale continua a influenzare le persone oggi, incoraggiandole a cercare una relazione più profonda con Dio e a vivere secondo i valori del Vangelo.

In conclusione, la spiritualità di San Pio da Pietrelcina era caratterizzata da una profonda devozione a Dio, una totale dedizione alla preghiera, una grande fede nell’Eucaristia e una profonda umiltà. La sua vita di santità e la sua eredità spirituale continuano a ispirare e a guidare le persone oggi, offrendo un esempio di come vivere una vita di fede e di amore. San Pio da Pietrelcina è veramente un santo amato e venerato dalla Chiesa cattolica e dalla gente di tutto il mondo.

L’eredità di San Pio da Pietrelcina nella Chiesa cattolica

San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, è stato un frate cappuccino italiano che ha lasciato un’impronta indelebile nella Chiesa cattolica. Nato nel 1887 a Pietrelcina, in provincia di Benevento, Pio è diventato famoso per i suoi stigmi, le ferite che riproducevano le piaghe di Cristo sulla croce. Questo fenomeno misterioso ha attirato l’attenzione di molti fedeli e ha contribuito a consolidare la sua reputazione di santo.

La vita di San Pio è stata caratterizzata da una profonda devozione e da un impegno totale verso Dio. Fin da giovane, ha manifestato una grande passione per la preghiera e la vita religiosa. Dopo aver completato gli studi, è entrato nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e ha preso i voti nel 1904. Da quel momento in poi, ha dedicato la sua vita alla preghiera, alla penitenza e all’assistenza spirituale dei fedeli.

Uno degli aspetti più significativi dell’eredità di San Pio è la sua spiritualità. Era un fervente sostenitore della preghiera e dell’adorazione e incoraggiava i suoi seguaci a coltivare una relazione personale con Dio. La sua profonda devozione e la sua capacità di comunicare con il divino hanno ispirato molte persone a riscoprire la fede e a vivere una vita più vicina a Dio.

Inoltre, San Pio era noto per la sua straordinaria capacità di ascolto e di consolazione. Molte persone si rivolgevano a lui per trovare conforto e sostegno nelle loro difficoltà. La sua empatia e la sua compassione verso gli altri erano evidenti in ogni suo gesto e parola. Nonostante le sue numerose responsabilità, Pio ha sempre trovato il tempo per ascoltare le preoccupazioni degli altri e offrire loro parole di conforto e speranza.

Un altro aspetto importante dell’eredità di San Pio è la sua dedizione alla penitenza. Egli credeva che la sofferenza potesse essere offerta a Dio come un atto di amore e di espiazione per i peccati. Ha incoraggiato i suoi seguaci a abbracciare la croce e ad accettare le difficoltà come un mezzo per crescere spiritualmente. Questo insegnamento ha avuto un impatto significativo sulla spiritualità cattolica, ispirando molte persone a vivere una vita di sacrificio e di amore verso gli altri.

San Pio è stato anche un grande promotore della confessione e della riconciliazione. Era convinto che il sacramento della confessione fosse un dono prezioso che permetteva ai fedeli di ricevere il perdono di Dio e di ristabilire la loro relazione con Lui. Ha incoraggiato le persone a confessare i loro peccati regolarmente e a cercare la riconciliazione con Dio e con gli altri. La sua influenza in questo campo è stata così significativa che molti credenti hanno riscoperto la bellezza e l’importanza della confessione sacramentale.

Infine, l’eredità di San Pio si manifesta anche attraverso le numerose opere di carità che ha fondato. Durante la sua vita, ha creato ospedali, case per anziani e orfanotrofi per aiutare coloro che erano in difficoltà. La sua dedizione verso i più bisognosi è stata un esempio tangibile dell’amore di Dio per l’umanità e ha ispirato molte persone a seguire il suo esempio.

In conclusione, l’eredità di San Pio da Pietrelcina nella Chiesa cattolica è vasta e significativa. La sua spiritualità profonda, la sua compassione verso gli altri, la sua dedizione alla penitenza e alla confessione, e le sue opere di carità hanno ispirato e continuano ad ispirare milioni di persone in tutto il mondo. La sua vita e il suo insegnamento sono un faro di speranza e di amore per tutti coloro che cercano Dio e desiderano vivere una vita di fede autentica.

Conclusione

San Pio da Pietrelcina è stato un frate cappuccino italiano, noto per i suoi doni mistici e per la sua devozione alla preghiera. È considerato uno dei santi più amati e venerati del XX secolo. La sua vita è stata segnata da numerosi miracoli e stigmate, che hanno attirato l’attenzione di molti fedeli. La sua profonda spiritualità e la sua dedizione alla sofferenza hanno ispirato e continuano a ispirare milioni di persone in tutto il mondo. La sua canonizzazione nel 2002 ha confermato la sua santità e la sua influenza duratura sulla Chiesa cattolica. In conclusione, San Pio da Pietrelcina è un esempio di fede e di amore verso Dio e verso il prossimo, e la sua vita continua ad essere un’ispirazione per molti.

ASCENSIONE DI GESÙ

ASCENSIONE DI GESÙ

Si celebra quaranta giorni dopo la Pasqua e conclude la permanenza visibile di Dio fra gli uomini. È preludio della Pentecoste e segna l’inizio della storia della Chiesa. L’episodio è descritto dai Vangeli di Marco e Luca e negli Atti degli Apostoli. Fino al 1977 in Italia era anche festa civile

Cantiamo assieme “BENEDIRÒ IL SIGNORE IN OGNI TEMPO
GUARDANDO A LUI IL MIO VOLTO SPLENDERÀ”

Con la solennità dell’Ascensione di Gesù al Cielo si conclude la vita terrena di Gesù che con il suo corpo, alla presenza degli apostoli, si unisce fisicamente al Padre, per non comparire più sulla Terra fino alla sua Seconda venuta (Parusìa) per il Giudizio finale. Questa festività è molto antica e viene attestata già a partire dal IV secolo. Per la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti, l’Ascensione si colloca di norma 40 giorni dopo la Pasqua, cioè il giovedì della sesta settimana del Tempo pasquale, ovvero quello successivo alla VI domenica di Pasqua. Nel Credo degli Apostoli viene menzionata con queste parole: «Gesù è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».
Nella Chiesa ortodossa l’Ascensione è una delle 12 grandi feste. La data della celebrazione è stabilita a partire dalla data della Pasqua nel calendario ortodosso. Essa è conosciuta sia con termine greco Analepsis (salire su) sia con Episozomene (salvezza). Quest’ultimo termine sottolinea che Gesù salendo al cielo ha completato il lavoro della redenzione. Più chiari ancora gli Atti, che nominano esplicitamente il monte degli ulivi, poiché dopo l’ascensione i discepoli «ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato.»(Atti 1:12) La tradizione ha consacrato questo luogo come il Monte dell’Ascensione.

Giotto Ascensione Scrovegni

QUAL È IL SENSO BIBLICO DELLA PAROLA ASCENSIONE?

Secondo una concezione spontanea e universale, riconosciuta dalla Bibbia, Dio abita in un luogo superiore e l’uomo per incontrarlo deve elevarsi, salire. L’idea dell’avvicinamento con Dio, è data spontaneamente dal monte e nell’Esodo (19,3), a Mosè viene trasmessa la proibizione di salire verso il Sinai, che sottintendeva soprattutto quest’avvicinamento al Signore; “Delimita il monte tutt’intorno e dì al popolo; non salite sul monte e non toccate le falde. Chiunque toccherà le falde sarà messo a morte”. Il comando di Iavhè non si riferisce tanto ad una salita locale, ma ad un avvicinamento spirituale; bisogna prima purificarsi e raccogliersi per poter udire la sua voce. Non solo Dio abita in alto, ma ha scelto i luoghi elevati per stabilirvi la sua dimora; anche per andare ai suoi santuari bisogna ‘salire’. Così lungo tutta la Bibbia, i riferimenti al “salire” sono tanti e continui e quando Gerusalemme prende il posto degli antici santuari, le folle dei pellegrini ‘salgono’ festose il monte santo; “Ascendere” a Gerusalemme, significava andare a Iavhè, e il termine, obbligato dalla reale posizione geografica, veniva usato sia dalla simbologia popolare per chi entrava nella terra promessa, come per chi ‘saliva’ nella città santa. Nel Nuovo Testamento, lo stesso Gesù “sale” a Gerusalemme con i genitori, quando si incontra con i dottori nel Tempio e ancora “sale” alla città santa, quale preludio all’”elevazione” sulla croce e alla gloriosa Ascensione.

QUALI SONO I TESTI CHE PARLANO DI QUESTO EVENTO?

I Libri del Nuovo Testamento contengono sporadici accenni al mistero dell’Ascensione; i Vangeli di Matteo e di Giovanni non ne parlano e ambedue terminano con il racconto di apparizioni posteriori alla Resurrezione. Marco finisce dicendo: “Gesù… fu assunto in cielo e si assise alla destra di Dio” (XVI, 10); ne parla invece Luca: “Poi li condusse fin verso Betania, e alzate le mani, li benedisse. E avvenne che nel benedirli si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (XXIV, 50-51). Ancora Luca negli Atti degli Apostoli, attribuitigli come autore sin dai primi tempi, al capitolo iniziale (1, 11), colloca l’Ascensione sul Monte degli Ulivi, al 40° giorno dopo la Pasqua e aggiunge: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Gli altri autori accennano solo saltuariamente al fatto o lo presuppongono, lo stesso s. Paolo pur conoscendo il rapporto tra la Risurrezione e la glorificazione, non si pone il problema del come Gesù sia entrato nel mondo celeste e si sia trasfigurato; infatti nelle varie lettere egli non menziona il passaggio dalla fase terrestre a quella celeste. Ma essi ribadiscono l’intronizzazione di Cristo alla destra del Padre, dove rimarrà fino alla fine dei secoli, ammantato di potenza e di gloria; “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo sta assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra; siete morti infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!” (Colossesi, 3, 1-3).

Pietro Perugino, Ascensione di Cristo

Pietro Perugino, Ascensione di Cristo

QUALI SONO LE FONTI STORICHE?

Luca, il terzo evangelista, negli Atti degli Apostoli specifica che Gesù dopo la sua passione, si mostrò agli undici apostoli rimasti, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio; bisogna dire che il numero di ‘quaranta giorni’ è denso di simbolismi, che ricorre spesso negli avvenimenti del popolo ebraico errante, ma anche con Gesù, che digiunò nel deserto per 40 giorni. San Paolo negli stessi ‘Atti’ (13, 31) dice che il Signore si fece vedere dai suoi per “molti giorni”, senza specificarne il numero, quindi è ipotesi attendibile, che si tratti di un numero simbolico. L’Ascensione secondo Luca, avvenne sul Monte degli Ulivi, quando Gesù con gli Apostoli ai quali era apparso, si avviava verso Betania, dopo aver ripetuto le sue promesse e invocato su di loro la protezione e l’assistenza divina, ed elevandosi verso il cielo come descritto prima (Atti, 1-11). Il monte Oliveto, da cui Gesù salì al Cielo, fu abbellito da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino con una bella basilica; verso la fine del secolo IV, la ricca matrona Poemenia edificò un’altra grande basilica, ricca di mosaici e marmi pregiati, sul tipo del Pantheon di Roma, nel luogo preciso dell’Ascensione segnato al centro da una piccola rotonda. Poi nelle alterne vicende che videro nei secoli contrapposti Musulmani e Cristiani, Arabi e Crociati, alla fine le basiliche furono distrutte; nel 1920-27 per voto del mondo cattolico, sui resti degli scavi fu eretto un grandioso tempio al Sacro Cuore, mentre l’edicola rotonda della chiesa di Poemenia, divenne dal secolo XVI una piccola moschea ottagonale.

QUAL È IL SIGNIFICATO DELL’ASCENSIONE?

San Giovanni nel quarto Vangelo, pone il trionfo di Cristo nella sua completezza nella Resurrezione, e del resto anche gli altri evangelisti dando scarso rilievo all’Ascensione, confermano che la vera ascensione, cioè la trasfigurazione e il passaggio di Gesù nel mondo della gloria, sia avvenuta il mattino di Pasqua, evento sfuggito ad ogni esperienza e fuori da ogni umano controllo. Quindi correggendo una mentalità sufficientemente diffusa, i testi evangelici invitano a collocare l’ascensione e l’intronizzazione di Gesù alla destra del Padre, nello stesso giorno della sua morte, egli è tornato poi dal Cielo per manifestarsi ai suoi e completare la sua predicazione per un periodo di ‘quaranta’ giorni. Quindi l’Ascensione raccontata da Luca, Marco e dagli Atti degli Apostoli, non si riferisce al primo ingresso del Salvatore nella gloria, quanto piuttosto l’ultima apparizione e partenza che chiude le sue manifestazioni visibili sulla terra. Pertanto l’intento dei racconti dell’Ascensione non è quello di descrivere il reale ritorno al Padre, ma di far conoscere alcuni tratti dell’ultima manifestazione di Gesù, una manifestazione di congedo, necessaria perché Egli deve ritornare al Padre per completare tutta la Redenzione: “Se non vado non verrà a voi il Consolatore, se invece vado ve lo manderò” (Giov. 16, 5-7). Il catechismo della Chiesa Cattolica dà all’Ascensione questa definizione: “Dopo quaranta giorni da quando si era mostrato agli Apostoli sotto i tratti di un’umanità ordinaria, che velavano la sua gloria di Risorto, Cristo sale al cielo e siede alla destra del Padre. Egli è il Signore, che regna ormai con la sua umanità nella gloria eterna di Figlio di Dio e intercede incessantemente in nostro favore presso il Padre. Ci manda il suo Spirito e ci dà la speranza di raggiungerlo un giorno, avendoci preparato un posto”.

Andrea Mantegna, Ascensione, 1460, Galleria degli Uffizi, Firenze

Andrea Mantegna, Ascensione, 1460, Galleria degli Uffizi, Firenze

È FESTA ANCHE DAL PUNTO DI VISTA CIVILE?

La prima testimonianza della festa dell’Ascensione, è data dallo storico delle origini della Chiesa, il vescovo di Cesarea, Eusebio (265-340); la festa cadendo nel giovedì che segue la quinta domenica dopo Pasqua, è festa mobile e in alcune nazioni cattoliche è festa di precetto, riconosciuta nel calendario civile a tutti gli effetti. In Italia previo accordo con lo Stato Italiano, che richiedeva una riforma delle festività, per eliminare alcuni ponti festivi, la Conferenza episcopale italiana ha fissato la festa liturgica e civile, nella domenica successiva ai canonici 40 giorni dopo Pasqua. Nel Rito ambrosiano, però, si celebra il giovedì. Al giorno dell’Ascensione si collegano molte feste popolari italiane in cui rivivono antiche tradizioni, soprattutto legate al valore terapeutico, che verrebbe conferito da una benedizione divina alle acque . A Venezia aveva luogo una grande fiera, accompagnata dallo “Sposalizio del mare”, cerimonia nella quale il Doge a bordo del “Bucintoro”, gettava nelle acque della laguna un anello, per simboleggiare il dominio di Venezia sul mare; a Bari la benedizione delle acque marine, a Firenze si celebra la “Festa del grillo”.

https://www.famigliacristiana.it/articolo/ascensione-di-gesu-ecco-le-cose-da-sapere.aspx

Card. Ratzinger: “L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre” (Da “Immagini di speranza”)

Ascensione

Nel racconto dell’ascensione di Cristo l’evangelista Luca ha inserito un’osservazione che continuo a trovare sorprendente, per quanto io abbia cercato più volte di chiarirne il significato teologico. Infatti Luca nel suo vangelo dice che i discepoli erano pieni di grande gioia quando dal monte degli ulivi scesero verso Gerusalemme. Secondo la nostra normale psicologia qui c’è davvero qualcosa che non va:
l’Ascensione del Signore al cielo era l’ultima apparizione del Risorto; i discepoli sapevano che non avrebbero più rivisto il Signore in questo mondo.

Certo, questo congedo non è paragonabile a quello del venerdì santo. Allora, infatti, Gesù sembrava aver fallito e tutte le speranze fino ad allora riposte in lui dovevano apparire ora come un grande abbaglio. Al contrario, il congedo da lui il quarantesimo giorno dopo la risurrezione, reca in sé qualcosa di trionfale e rassicurante: questa volta Gesù non è infatti consegnato alla morte, ma entra fino in fondo nella vita. Non è sconfitto, ma Dio gli ha reso giustizia.
Per questo c’è motivo di gioia. Ma quando l’intelletto e la volontà gioiscono, non è detto che il sentimento debba fare lo stesso. Pur comprendendo la vittoria di Gesù, si può soffrire per la perdita della sua vicinanza umana. La paura dei discepoli di essere abbandonati potrebbe essere cresciuta, tanto più all’idea del compito smisurato che si prospettava
loro: uscire verso l’ignoto e rendere testimonianza a Gesù davanti a un mondo che li vedeva solo come gente di poco conto venuta dalla Giudea, per di più emarginata dal suo stesso popolo.
Ma proprio qui si collocano, inamovibili, le parole della grande gioia di coloro che tornavano a casa. Non riusciremo mai a chiarire queste parole, finchè non capiremo fino in fondo la letizia dei martiri: il canto di un Massimiliano Kolbe nel bunker della fame; il gioioso inno di lode a Dio, che Policarpo intona sul rogo, e molto altro ancora. Nei santi dell’amore del prossimo troviamo la stessa grande gioia proprio nei momenti in cui essi rendono agli ammalati e ai sofferenti i servizi più difficili; e grazie a Dio non si tratta solo di storie passate. Così, da simili esperienze possiamo intuire qualcosa di come la gioia della vittoria di Cristo coinvolga non solo l’intelletto, ma possa comunicarsi anche al cuore e giungere in tal modo alla sua pienezza. Solo quando qualcosa di simile avviene anche in noi stessi, possiamo comprendere la festa dell’Ascensione di Cristo. Quello che è accaduto qui è la vittoria della definitività della redenzione nel cuore dell’uomo, così che la conoscenza diventa gioia.
Come siano andate le cose nei particolari non lo sappiamo. Ma la Sacra Scrittura ci dà comunque dei punti di riferimento. Luca ci racconta per esempio che Gesù, nei quaranta giorni dopo la risurrezione, si mostrò agli occhi dei discepoli e si fece udire da loro, spiegando le cose del regno di Dio. Aggiunge poi una terza espressione, con la quale documenta la convivenza e la comunione di quei giorni, un’espressione un po’ strana, che la traduzione ecumenica rende con “pasto in comune”. Ma il testo alla lettera dice che il Signore aveva “mangiato il sale con loro”. Il sale era il preziosissimo dono con cui si accoglievano gli ospiti e, quindi, espressione della vera ospitalità. Per questo si dovrebbe piuttosto tradurre: egli li accolse nella sua ospitalità, in un’ospitalità che non è solo un evento esteriore, ma che significa condivisione della propria vita. Ma il sale è anche un simbolo di passione; è condimento ed è mezzo di conservazione che agisce contro la corruzione, contro la morte. Malgrado tutto ciò che quelle parole enigmatiche possono voler dire, l’intenzione è in qualche modo chiara: Gesù aveva reso percepibile il mistero alla sensibilità e al cuore dei discepoli. Non era più solo un’idea, si era appena rivelato alla loro consapevolezza razionale, eppure essi erano toccati fin nella loro fisicità dalla sua sostanza.

Essi non conoscevano più solo dall’esterno Gesù e il suo messaggio, esso viveva dentro di loro.
C’è un’altra annotazione dell’evangelista che mi pare importante. Egli afferma che Gesù aprì le braccia e li benedisse. Mentre li benediceva, scomparve dinanzi a loro. La sua ultima immagine sono le sue braccia aperte, i gesti della benedizione. L’icona dell’Ascensione dell’Oriente cristiano, che nel suo nucleo risale fino alle prime forme di arte cristiana, ha fatto di questa scena il vero centro di tutto.
L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre e, insieme, la forza che apre la porta del mondo verso l’alto. E’ benedicendoli che egli se ne va, ma vale anche il contrario: benedicendoli egli resta. E’ questo, da allora, il suo modo di rapportarsi con il mondo e con ciascuno di noi: egli benedice, è divenuto lui stesso benedizione per noi. Proprio queste parole potrebbero allora cogliere nel modo più semplice il centro di quell’evento e chiarire la strana contraddizione di quel congedo che è gioia piena:
l’evento che i discepoli avevano sperimentato era stato benedizione, ed essi se ne andarono come persone che erano state benedette, non abbandonate.
Sapevano di essere stati benedetti per sempre e di trovarsi sotto quelle mani benedicenti, dovunque fossero andati.
Letta in questo senso, l’annotazione di san Luca viene a trovarsi molto vicina ad alcune frasi dei discorsi d’addio di Gesù, riferiti da Giovanni. Colpisce anzitutto il ruolo riservato alla gioia. In primo luogo i discepoli dovevano passare attraverso l’esperienza della tristezza; si, l’esperienza della perdita, del venir meno della comunità, è necessaria perché essi possano arrivare alla gioia. “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”, dice Gesù (Gv 14,18), e con questo venire si intende proprio quella nuova esperienza della vicinanza che Luca descrive con il termine “benedizione”. Infatti questa frase del discorso d’addio corrisponde all’altra: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Intercessore, perché rimanga con voi per sempre” (Cv 14,16). La teologia della Chiesa d’Oriente ha posto sullo stesso piano la preghiera del Signore per un altro Intercessore e la benedizione nel giorno dell’Ascensione: le mani benedicenti sono anche mani offerenti, mani oranti.
Esse sono sempre elevate dinanzi al Padre e lo pregano che non lasci mai più soli i suoi, che il Consolatore rimanga sempre con loro. Se leggiamo insieme Luca e Giovanni, possiamo dire: i discepoli, guardando Gesù benedicente e orante, hanno capito che era proprio vero: “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”. Hanno avuto la certezza definitiva: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Hanno saputo che Cristo viene ora e per sempre come benedizione; che egli, per così dire, continua a mangiare il sale con loro, che essi erano e sarebbero rimasti benedetti in mezzo a tutte le tribolazioni.
I testi liturgici della Chiesa d’Oriente mettono in evidenza anche un altro aspetto di quell’evento. Vi si legge: “ Il Signore è risorto, per risollevare l’immagine decaduta di Adamo e per mandarci lo Spirito che santifica le nostre anime”. L’Ascensione di Cristo rivela anche l’aspetto a prima vista nascosto dell’Ecce homo. Pilato ha mostrato alla folla radunata il Gesù reietto e abbattuto, rinviando in tal modo al volto oltraggiato e umiliato dell’uomo come tale.
“Guardate, questo è l’uomo”, aveva detto. Cinema e teatro contemporanei continuano a metterci davanti – talvolta con compassione, più spesso cinicamente e molte volte anche con il piacere masochistico dell’autodistruzione – l’uomo umiliato e sconfitto, in tutte le forme di orrore: questo è l’uomo, continuano a dirci. L’evoluzionismo ci riporta al passato, ci mostra il risultato delle sue ricerche, l’argilla da cui è venuto l’uomo, e ci martella: questo è l’uomo.

Gerusalemme, Edicola dell'Ascensione

Gerusalemme, Edicola dell’Ascensione

Si, l’immagine di Adamo è decaduta; giace nella sporcizia e continuerà ad essere sporcata. Ma l’Ascensione di Cristo dice ai discepoli , dice a noi:
il gesto di Pilato è solo una mezza verità, e ancor meno di questo. Cristo non è solo il volto insanguinato e trafitto; egli è il Signore di tutto il mondo. Ma la sua signoria non umilia la terra, le restituisce il suo splendore, la possibilità di parlare della bellezza e della potenza di Dio. Cristo ha risollevato l’immagine di Adamo: voi non siete solo sporcizia; vi innalzate al disopra di tutte le dimensioni cosmiche fino al cuore di Dio. L’Ascensione di Cristo è la riabilitazione dell’uomo: non l’essere colpiti abbassa e umilia, ma il colpire; non l’essere oggetto di sputi abbassa e umilia , ma lo sputare addosso a qualcuno; non chi è offeso, ma chi offende è disonorato; non è la superbia che innalza l’uomo, ma l’umiltà; non è l’autoglorificazione a renderlo grande, ma la comunione con Dio, di cui egli è capace.
L’Ascensione di Cristo non è uno spettacolo per i discepoli, ma un’evento in cui essi stessi sono inseriti. E’ un sursum corda, un movimento verso l’alto, a cui tutti veniamo chiamati. Ci dice che l’uomo può vivere rivolto verso l’alto, che è capace dell’altezza. Di più: l’altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso.
A questa altezza l’uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. L’immagine dell’uomo è elevata, ma noi abbiamo la libertà di tirarla verso il basso e strapparla oppure di lasciarci elevare, innalzare verso l’alto. Non si comprende l’uomo se ci si chiede solo da dove viene.
Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. E solo quando questa altezza viene percepita, nasce un rispetto incondizionato verso l’uomo, un rispetto che lo considera sacro anche in tutte le sue profonde umiliazioni. Solo partendo da qui si può imparare ad amare l’umanità in sé e negli altri. Per questo la parola più importante nei riguardi dell’uomo non può essere l’accusa. Certo, anche l’accusa è necessaria, perché la colpa sia riconosciuta come colpa e sia distinta dalla vera essenza dell’uomo. Ma l’accusa da sola non basta: se la si isola in se stessa, diventa negazione e per ciò stesso uno strumento di devastazione dell’uomo.
Per questo non è neppure giusto dire, come qualche volta si fa oggi, che la fede dovrebbe tenere desta la memoria sovversiva dell’umanità, che essa deve impedire di venire a compromesso con l’ ingiustizia di questo mondo. E’ vero comunque che la fede ci insegna una memoria, la memoria della Croce e della risurrezione di Cristo. Ma questa memoria non è sovversiva. Ci ricorda sicuramente che l’immagine di Adamo è decaduta, ma ci ricorda soprattutto che questa immagine è stata risollevata e che, anche se decaduta, resta pur sempre l’immagine della creatura amata da Dio. La fede ci impedisce di dimenticare; desta in noi l’autentica, sconvolgente memoria dell’origine: del fatto che noi veniamo da Dio; e vi aggiunge la nuova memoria che si esprime nella festa dell’Ascensione di Cristo: la memoria che il luogo autenticamente appropriato della nostra esistenza è Dio stesso e che è da lì che dobbiamo guardare l’uomo. La memoria della fede è in questo senso pienamente positiva: libera la dimensione ultima positiva dell’uomo. Riconoscere questo è una difesa ben più efficace contro ogni riduzione dell’uomo rispetto alla semplice memoria delle negazioni che, alla fine, può lasciare dietro di sé solo il disprezzo per l’uomo. L’antidoto più efficace contro la rovina dell’uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L’Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull’uomo.
Essa ci insegna il rispetto per l’umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini.
Se si pensa a tutto questo, svanisce da sé l’idea che l’Ascensione di Cristo sia la canonizzazione di un’immagine del mondo ormai superata. Il problema centrale è infatti la grandezza dell’umanità, non i piani del cosmo. Si tratta di Dio e dell’uomo, dell’autentica altezza dell’umanità, non del posto delle stelle. Questa visione non deve però ingannarci, inducendoci a pensare il cristianesimo del tutto fuori e del mondo e a fare della fede una semplice questione di sentimento. C’è sempre anche un riferimento giusto, pienamente sensato della fede all’insieme del mondo creato, per la quale, tra l’altro, la vecchia immagine del mondo può comunque servire da strumento di orientamento. Non è tanto facile da spiegare, dato che la nostra capacità immaginativa ha subito un cambiamento dovuto all’utilizzo tecnico del mondo.
Possiamo forse trovare una possibile via d’accesso se pensiamo ancora una volta al tipo classico d’icona con cui la Chiesa d’Oriente ha rappresentato l’Ascensione di Cristo. In esse si percepisce che lo scenario in cui si svolge l’evento è quello del monte degli Ulivi grazie ad alcuni rami d’ulivo che si irradiano dalla figura che separa cielo e terra. Con ciò è subito revocata anche la notte del Getsemani :il luogo dell’angoscia diventa il luogo della sicurezza fiduciosa. Proprio là dove è stato vissuto da Cristo nel suo intimo il dramma della morte e della sua umiliazione si compie il rinnovamento dell’uomo.
Proprio là comincia la sua vera ascensione. Ma le foglie d’ulivo hanno a loro volta qualcosa da dire:
esse esprimono la bontà della creazione, la ricchezza dei suoi doni, l’unità tra la creazione e l’uomo, in cui ambedue sono compresi a partire dal Creatore. Essi sono segni della pace, per questo divengono qui segni di una liturgia cosmica. La storia di Gesù Cristo non è solo un avvenimento capitato tra gli uomini su un povero pianeta smarrito nella vastità e nel silenzio dell’universo. E’ un evento che abbraccia cielo e terra, la realtà tutta intera. Quando noi celebriamo la liturgia, non siamo di fronte a una sorta di riunione tra parenti in cui ci concediamo a vicenda l’appoggio di una limitata comunione. La liturgia cristiana ha una dimensione cosmica: ci uniamo alla lode della creazione e, nel contempo, le prestiamo la nostra voce.
In conclusione, desidero aggiungere ancora un pensiero, questa volta tutto dalla tradizione figurata dell’Occidente. Tutti voi conoscete sicuramente quelle immagini tanto squisitamente naif in cui sopra le teste degli apostoli rimangono visibili solo i piedi di Gesù che sporgono ancora dalla nuvola circostante.
A sua volta la nuvola si presenta esternamente come un cerchio scuro, ma all’interno è di una luminosità fulgida. Mi sembra che dietro l’apparente ingenuità di questa rappresentazione si celi qualcosa di molto profondo. Tutto quello che noi vediamo di Cristo nel tempo della storia sono i suoi piedi e la nube. I suoi
piedi: che cosa significa ciò? Torna alla mente una strana espressione del vangelo di Matteo, tratta dal racconto della risurrezione, in cui si dice che le donne si strinsero ai piedi di Gesù e lo adorarono.
In quanto risorto egli supera e sovrasta qualsiasi ordine di grandezza terrena: solo i suoi piedi possiamo ancora toccarli e li tocchiamo nell’adorazione. Qui si potrebbe riflettere sul fatto che, mettendosi sulle sue tracce, seguiamo i suoi passi nella preghiera. Pregando andiamo verso di lui, pregando arriviamo a toccarlo, anche se in questo mondo ciò avviene sempre da lontano, sempre dal basso, sempre e solo sulle tracce del suo cammino terreno.
Nel contempo diventa chiaro che non possiamo trovare le tracce dei piedi di Cristo se guardiamo solo in basso, se ci limitiamo a misurare le impronte e intendiamo la fede come qualcosa di tangibile. Il Signore è movimento verso l’alto e possiamo riconoscerlo solo se anche noi ci mettiamo in movimento, guardando in alto e salendo.
Dalla lettura dei Padri della Chiesa ci viene ancora un importante suggerimento: la vera elevazione dell’uomo avviene quando, nel donarsi umilmente agli altri, impara ad abbassarsi totalmente, fino a terra, fino al gesto del lavare i piedi. Proprio questa umiltà che sa abbassarsi porta l’uomo verso l’alto; proprio questo modo di andare verso l’alto vuole farci imparare l’Ascensione.
L’immagine delle nuvole va nella stessa direzione. Ci ricorda quella nuvola che precedeva Israele nella sua peregrinazione attraverso il deserto: di giorno era nuvola, di notte una colonna di fuoco.
Anche “nuvola” è un’espressione che indica un movimento, una realtà di cui noi non possiamo impadronirci e che non possiamo fissare; essa rappresenta un segno di orientamento che ci aiuta solo se le andiamo dietro, rappresenta il Signore, che è sempre davanti a noi.
Essa è insieme nascondimento e presenza: per questo è divenuta immagine sensibile dei segni sacramentali in cui il Signore ci precede, in cui egli si nasconde e, insieme, si lascia toccare.
Torniamo ancora una volta al nostro punto di partenza.
L’Ascensione è stata motivo di gioia per i discepoli.
Essi sapevano che non sarebbero stati più soli.
Sapevano di essere benedetti. E’ proprio questa la consapevolezza che la Chiesa vuole imprimere dentro di noi nei quaranta giorni dopo Pasqua. Essa desidera che anche per noi la consapevolezza diventi un sapere non solo della ragione ma del cuore, perché anche in noi possa scaturire la grande gioia che ai discepoli non poteva più essere tolta. Perché sorga questa sapienza del cuore è necessario l’incontro, un addentrarci nel discorso con il Signore, una profonda familiarità con lui, che la Scrittura descrive con l’espressione del “mangiare insieme il sale”. A questa apertura interiore ci invita la festa dell’Ascensione di Cristo. Quanto più ci riesce, tanto più comprenderemo la grande gioia scaturita nel giorno di quell’apparente congedo che, in verità, è stato l’inizio di una nuova vicinanza.

Da Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa”, Edizioni San Paolo 2005

Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it

Primo Maggio-Festa del Lavoro

Primo Maggio-Festa del Lavoro

PRIMO MAGGIO: SANT’ESCRIVÀ E IL LAVORO DA SANTIFICARE

Un’occasione per rileggere le parole del santo Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei, canonizzato nel 2002 da Papa Giovanni Paolo II.

Come santificare il lavoro quotidiano.

“Se mi dicono che Tizio è un buon cristiano,  ma un cattivo calzolaio, che me ne faccio? Se non si sforza di imparare bene il suo mestiere, o di esercitarlo con cura, non potrà santificarlo né offrirlo al Signore; perché la santificazione del lavoro quotidiano è il cardine della vera spiritualità per tutti noi che — immersi nelle realtà terrene — siamo decisi a coltivare un intimo rapporto con Dio”.

 Raccontava così Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei  canonizzato nel 2002 da papa Giovanni Paolo II. A molti il primo maggio festa del lavoro viene in mente tutta la sua predicazione sul lavoro e la santificazione del lavoro. Non a caso l’Opus Dei contribuisce affinchè “persone di tutte le razze e condizioni, cerchino di amare e servire Dio e gli altri attraverso il loro lavoro”. Sono numerosissimi gli insegnamenti sul lavoro del santo che affermava “Chi pensasse che la vita soprannaturale si edifica volgendo le spalle al lavoro, non comprenderebbe la nostra vocazione; per noi infatti il lavoro è il mezzo specifico di santificazione” .
Scegliere tra le sue parole sull’impegno quotidiano di uomini e donne è un percorso difficile ma al contempo entusiasmante per lo sguardo nuovo e vivificante  che regalano sulle fatiche, le ripetitività, i fallimenti che ognuno vive nelle proprie giornata lavorative.   “Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini”, diceva, “non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti degli uomini, ma anche un segno dell’amore di Dio per le sue creature e dell’amore degli uomini fra di loro e per Dio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità.”

Ma vi proponiamo altri pensieri per imparare ad  alzare lo sguardo dal livello orizzontale della vita di tutti i giorni e coniugarla con il Bene che aiuta ad impegnarsi con occhi nuovi. Un compito difficile, forse irraggiungibile, ma che dà nuovo senso alla vita:

È tempo che i cristiani dicano ben forte che il lavoro è un dono di Dio e che non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro; è testimonianza della dignità dell’uomo. (E’ Gesù che passa n.47). 

 • Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzata. (Solco, n.487).

    Siamo venuti a richiamare di nuovo l’attenzione sull’esempio di Gesù che visse trent’anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza. (Colloqui con Monsignor Josemaría Escrivà de Balaguer, n.55). 

 Lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro. (Omelia: Amare il mondo appassionatamente).

 Fate tutto per Amore. – Così non ci sono cose piccole: tutto è grande. – La perseveranza nelle piccole cose, per Amore, è eroismo. (Cammino, n.813).

  Insisto: nella semplicità del tuo lavoro ordinario, nei particolari monotoni di ogni giorno, devi scoprire il segreto – nascosto per tanti – della grandezza e della novità: l’Amore. (Solco, n.489).

    Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature. Non offrirete nulla con qualche difetto, ammonisce la Sacra Scrittura, perché non sarebbe gradito [Lv 22, 20], Pertanto, il lavoro di ciascuno, il lavoro che impiega le nostre giornate e le nostre energie, dev’essere un’offerta degna per il Creatore, operatio Dei, lavoro di Dio e per Dio: in una parola, dov’essere un’opera completa, impeccabile. (Amici di Dio n.55)

Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato, e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice — all’uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell’autobus, passeggiando, o non importa dove —: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero. (Amici di Dio n.273).     Tutto ciò in cui interveniamo noi, piccoli uomini – perfino la santità – è un tessuto di piccole cose, le quali – secondo la rettitudine d’intenzione – possono formare un arazzo splendido d’eroismo o di bassezza, di virtù o di peccato. I poemi epici riferiscono sempre avventure straordinarie, mescolate tuttavia a particolari di vita domestica dell’eroe. – Possa tu sempre tenere in gran conto – linea retta! – le piccole cose.(Cammino, n.826).

   Pensate che con il vostro lavoro professionale svolto con senso di responsabilità, oltre a sostenervi economicamente, prestate un servizio direttissimo allo sviluppo della società, alleggerite i pesi degli altri e mantenete tante opere assistenziali — locali e universali — a beneficio delle persone e dei popoli meno fortunati. (Amici di Dio n.120). • Quando avrai terminato il tuo lavoro, fa’ quello del tuo fratello, aiutandolo, per Cristo, con tale spontanea delicatezza che egli non avverta neppure che stai facendo più di quanto devi secondo giustizia. – Questa sì che è fine virtù di un figlio di Dio. (Cammino, n.440).

COME POSSIAMO SANTIFICARE IL LAVORO E SANTIFICARCI NEL LAVORO?

Opus Dei: Come possiamo santificare il lavoro e santificarci nel lavoro?
https://www.famigliacristiana.it/articolo/un-lavoro-da-santificare.aspx
PASQUA Lunedì dell’angelo

PASQUA Lunedì dell’angelo

È risorto! “Egli non è qui, perché è risuscitato…”
Matteo 28:6.

Egli doveva risuscitare dai morti Gv 20,1-9

RESURREXIT Marilena Marino (video/voce)

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo. Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga. don Tonino Bello

SU ALI D’AQUILA (Salmo 96 )

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Il giorno successivo alla Pasqua, detto comunemente Pasquetta, è chiamato anche lunedì di Pasqua, e nel calendario liturgico cattolico, lunedì dell’Ottava di Pasqua.

Questa festività che “allunga” quella di Pasqua, prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’angelo con le donne giunte al sepolcro di GesùIl Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Vi trovarono il grande masso che chiudeva l’accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto” (Mc 16,1-7). E aggiunse: “Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli”, ed esse si precipitarono a raccontare l’accaduto agli altri.

L’espressione “lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua, alla stessa stregua degli altri giorni dell’ottava (martedì, mercoledì ecc.)

Perché il giorno dopo la Pasqua si chiama Lunedì dell’Angelo? E perché non è festa di precetto? La tradizione nella Chiesa è fonte certa per la fede del popolo di Dio, e va colto il significato profondo che essa ha attribuito nei secoli a giorni e gesti che hanno un valore determinante per il senso cristiano della storia.

Il Lunedì dell’Angelo è un prolungamento della Pasqua, come rispondendo alla necessità di gustare e contemplare una scena che ha cambiato la storia del mondo, e la nostra personale. Siamo di fronte al punto di svolta per il Creato e l’umanità: e dopo il giorno di festa grande nel quale si è come sopraffatti dalla grandezza della notizia del sepolcro vuoto e del Figlio di Dio risorto e vivo, la fede della gente ha sancito la necessità di soffermarsi sul messaggio dell’annuncio di Pasqua. Recato da un angelo.

Quella alla quale la Chiesa dedica la giornata che segue l’evento della Risurrezione è infatti la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio, alla sua promessa di una compagnia che non verrà mai più meno. La risposta, per la verità, è della donna: perché l’Angelo al quale la Chiesa ci invita a guardare in questa giornata appare alle donne che si erano recate al sepolcro “portando con sé gli aromi che avevano preparato” per il corpo di Gesù calato dalla croce il venerdì e dopo la sosta del sabato ebraico. Le parole dell’Angelo suonano sbalorditive, inaudite: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”.

L’annuncio centrale della fede si realizza in un incontro, suscita stupore, e muove a comunicare subito ciò che si è scoperto. “Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo”. Ancora pieni di gioia per la Pasqua, siamo incoraggiati a tornare al cuore della scena, come se un giorno solo non bastasse. In questo lunedì protagonista è tutto il movimento generato dal dialogo tra Dio e l’essere umano che è dentro il messaggio di Pasqua ma che ha bisogno di un suo spazio, sebbene la definizione liturgica di questa giornata sia “Lunedì nell’Ottava di Pasqua” e l’Angelo sia piuttosto il nome popolare che la tradizione gli ha conferito, a sottolinearne il messaggio proprio.

Devozione, dunque, più che mistero di fede: un’estensione della Pasqua che non a caso popolarmente ha fatto di questo giorno la “Pasquetta”, una piccola Pasqua tutta per festeggiare uscendo dal sepolcro di ciascuno e mettendosi in movimento (la gita fuori porta, sospesa dalla pandemia come uscita fisica, ma non nel nostro intimo). Conseguenza di queste caratteristiche devozionali è il fatto che la Chiesa non preveda il precetto, ovvero il dovere per il credente di partecipare all’Eucaristia nel giorno della festa che ricorda la Pasqua (è ciò che fa ogni domenica dell’anno).

Ma questa giornata devozione alimentata dalla fede delle generazioni credenti ha come costruito un singolarissimo giorno supplementare di festa, che ha trovato anche la forma di una preghiera: la sequenza “Victimae Paschali Laudes”, che risale all’XI secolo e che popolarmente è nota per la domanda in rima a Maria (Maddalena, protagonista della commovente scena in cui è chiamata per nome dal Risorto) cui la Chiesa domanda “cos’hai visto per la via”. E allora, è bello recitarla e meditarla (anche nella versione originale in latino) in questo lunedì che prolunga la Pasqua con una tale forza che anche l’autorità civile ne ha riconosciuto – pressoché ovunque nei Paesi di radice cristiana – il valore di festa per tutti.

Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode.
L’agnello ha redento il suo gregge,
l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.


«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.

Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea».
Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.

Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).

Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e – si potrebbe dire – degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, … mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto… Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.

Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!

Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!” Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf. Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).

Idea progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it