PRIMO MAGGIO: SANT’ESCRIVÀ E IL LAVORO DA SANTIFICARE
Un’occasione per rileggere le parole del santo Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei, canonizzato nel 2002 da Papa Giovanni Paolo II.
Come santificare il lavoro quotidiano.
“Se mi dicono che Tizio è un buon cristiano, ma un cattivo calzolaio, che me ne faccio? Se non si sforza di imparare bene il suo mestiere, o di esercitarlo con cura, non potrà santificarlo né offrirlo al Signore; perché la santificazione del lavoro quotidiano è il cardine della vera spiritualità per tutti noi che — immersi nelle realtà terrene — siamo decisi a coltivare un intimo rapporto con Dio”.
Raccontava così Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei canonizzato nel 2002 da papa Giovanni Paolo II. A molti il primo maggio festa del lavoro viene in mente tutta la sua predicazione sul lavoro e la santificazione del lavoro. Non a caso l’Opus Dei contribuisce affinchè “persone di tutte le razze e condizioni, cerchino di amare e servire Dio e gli altri attraverso il loro lavoro”. Sono numerosissimi gli insegnamenti sul lavoro del santo che affermava “Chi pensasse che la vita soprannaturale si edifica volgendo le spalle al lavoro, non comprenderebbe la nostra vocazione; per noi infatti il lavoro è il mezzo specifico di santificazione” . Scegliere tra le sue parole sull’impegno quotidiano di uomini e donne è un percorso difficile ma al contempo entusiasmante per lo sguardo nuovo e vivificante che regalano sulle fatiche, le ripetitività, i fallimenti che ognuno vive nelle proprie giornata lavorative. “Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini”, diceva, “non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti degli uomini, ma anche un segno dell’amore di Dio per le sue creature e dell’amore degli uomini fra di loro e per Dio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità.”
Ma vi proponiamo altri pensieri per imparare ad alzare lo sguardo dal livello orizzontale della vita di tutti i giorni e coniugarla con il Bene che aiuta ad impegnarsi con occhi nuovi. Un compito difficile, forse irraggiungibile, ma che dà nuovo senso alla vita:
È tempo che i cristiani dicano ben forte che il lavoro è un dono di Dio e che non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro; è testimonianza della dignità dell’uomo. (E’ Gesù che passa n.47).
Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzata. (Solco, n.487).
Siamo venuti a richiamare di nuovo l’attenzione sull’esempio di Gesù che visse trent’anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza. (Colloqui con Monsignor Josemaría Escrivà de Balaguer, n.55).
Lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro. (Omelia: Amare il mondo appassionatamente).
Fate tutto per Amore. – Così non ci sono cose piccole: tutto è grande. – La perseveranza nelle piccole cose, per Amore, è eroismo. (Cammino, n.813).
Insisto: nella semplicità del tuo lavoro ordinario, nei particolari monotoni di ogni giorno, devi scoprire il segreto – nascosto per tanti – della grandezza e della novità: l’Amore. (Solco, n.489).
Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature. Non offrirete nulla con qualche difetto, ammonisce la Sacra Scrittura, perché non sarebbe gradito [Lv 22, 20], Pertanto, il lavoro di ciascuno, il lavoro che impiega le nostre giornate e le nostre energie, dev’essere un’offerta degna per il Creatore, operatio Dei, lavoro di Dio e per Dio: in una parola, dov’essere un’opera completa, impeccabile. (Amici di Dio n.55)
Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato, e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice — all’uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell’autobus, passeggiando, o non importa dove —: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero. (Amici di Dio n.273). Tutto ciò in cui interveniamo noi, piccoli uomini – perfino la santità – è un tessuto di piccole cose, le quali – secondo la rettitudine d’intenzione – possono formare un arazzo splendido d’eroismo o di bassezza, di virtù o di peccato. I poemi epici riferiscono sempre avventure straordinarie, mescolate tuttavia a particolari di vita domestica dell’eroe. – Possa tu sempre tenere in gran conto – linea retta! – le piccole cose.(Cammino, n.826).
Pensate che con il vostro lavoro professionale svolto con senso di responsabilità, oltre a sostenervi economicamente, prestate un servizio direttissimo allo sviluppo della società, alleggerite i pesi degli altri e mantenete tante opere assistenziali — locali e universali — a beneficio delle persone e dei popoli meno fortunati. (Amici di Dio n.120). Quando avrai terminato il tuo lavoro, fa’ quello del tuo fratello, aiutandolo, per Cristo, con tale spontanea delicatezza che egli non avverta neppure che stai facendo più di quanto devi secondo giustizia. – Questa sì che è fine virtù di un figlio di Dio. (Cammino, n.440).
COME POSSIAMO SANTIFICARE IL LAVORO E SANTIFICARCI NEL LAVORO?
Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo. Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga. don Tonino Bello
SU ALI D’AQUILA (Salmo 96 )
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Il giorno successivo alla Pasqua, detto comunemente Pasquetta, è chiamato anche lunedì di Pasqua, e nel calendario liturgico cattolico, lunedì dell’Ottava di Pasqua.
Questa festività che “allunga” quella di Pasqua, prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Vi trovarono il grande masso che chiudeva l’accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto” (Mc 16,1-7). E aggiunse: “Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli”, ed esse si precipitarono a raccontare l’accaduto agli altri.
L’espressione “lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua, alla stessa stregua degli altri giorni dell’ottava (martedì, mercoledì ecc.)
Perché il giorno dopo la Pasqua si chiama Lunedì dell’Angelo? E perché non è festa di precetto? La tradizione nella Chiesa è fonte certa per la fede del popolo di Dio, e va colto il significato profondo che essa ha attribuito nei secoli a giorni e gesti che hanno un valore determinante per il senso cristiano della storia.
Il Lunedì dell’Angelo è un prolungamento della Pasqua, come rispondendo alla necessità di gustare e contemplare una scena che ha cambiato la storia del mondo, e la nostra personale. Siamo di fronte al punto di svolta per il Creato e l’umanità: e dopo il giorno di festa grande nel quale si è come sopraffatti dalla grandezza della notizia del sepolcro vuoto e del Figlio di Dio risorto e vivo, la fede della gente ha sancito la necessità di soffermarsi sul messaggio dell’annuncio di Pasqua. Recato da un angelo.
Quella alla quale la Chiesa dedica la giornata che segue l’evento della Risurrezione è infatti la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio, alla sua promessa di una compagnia che non verrà mai più meno. La risposta, per la verità, è della donna: perché l’Angelo al quale la Chiesa ci invita a guardare in questa giornata appare alle donne che si erano recate al sepolcro “portando con sé gli aromi che avevano preparato” per il corpo di Gesù calato dalla croce il venerdì e dopo la sosta del sabato ebraico. Le parole dell’Angelo suonano sbalorditive, inaudite: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”.
L’annuncio centrale della fede si realizza in un incontro, suscita stupore, e muove a comunicare subito ciò che si è scoperto. “Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo”. Ancora pieni di gioia per la Pasqua, siamo incoraggiati a tornare al cuore della scena, come se un giorno solo non bastasse. In questo lunedì protagonista è tutto il movimento generato dal dialogo tra Dio e l’essere umano che è dentro il messaggio di Pasqua ma che ha bisogno di un suo spazio, sebbene la definizione liturgica di questa giornata sia “Lunedì nell’Ottava di Pasqua” e l’Angelo sia piuttosto il nome popolare che la tradizione gli ha conferito, a sottolinearne il messaggio proprio.
Devozione, dunque, più che mistero di fede: un’estensione della Pasqua che non a caso popolarmente ha fatto di questo giorno la “Pasquetta”, una piccola Pasqua tutta per festeggiare uscendo dal sepolcro di ciascuno e mettendosi in movimento (la gita fuori porta, sospesa dalla pandemia come uscita fisica, ma non nel nostro intimo). Conseguenza di queste caratteristiche devozionali è il fatto che la Chiesa non preveda il precetto, ovvero il dovere per il credente di partecipare all’Eucaristia nel giorno della festa che ricorda la Pasqua (è ciò che fa ogni domenica dell’anno).
Ma questa giornata devozione alimentata dalla fede delle generazioni credenti ha come costruito un singolarissimo giorno supplementare di festa, che ha trovato anche la forma di una preghiera: la sequenza “Victimae Paschali Laudes”, che risale all’XI secolo e che popolarmente è nota per la domanda in rima a Maria (Maddalena, protagonista della commovente scena in cui è chiamata per nome dal Risorto) cui la Chiesa domanda “cos’hai visto per la via”. E allora, è bello recitarla e meditarla (anche nella versione originale in latino) in questo lunedì che prolunga la Pasqua con una tale forza che anche l’autorità civile ne ha riconosciuto – pressoché ovunque nei Paesi di radice cristiana – il valore di festa per tutti.
Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode. L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.
Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?». «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.
Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).
Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e – si potrebbe dire – degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, … mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?”, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto… Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.
Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!
Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: “Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!” Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf. Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
Idea progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it
Il Venerdì Santoè il giorno in cui si celebra la crocifissione e morte di Gesù,è il giorno dei grandi interrogativi: perché il male, perché il dolore innocente, perché la sofferenza? Domande che trovano risposta nella Croce solo se la si guarda nella prospettiva della Risurrezione e già illuminato dalla Pasqua
Alla ‘Passione’ di Gesù è associata l’immagine della Vergine Addolorata, che i più grandi artisti hanno rappresentato insieme alla Crocifissione, ai piedi della Croce, o con Cristo adagiato fra le sue braccia dopo la deposizione, come la celebre ‘Pietà’ di Michelangelo, il ‘Compianto sul Cristo morto’ di Giotto, la ‘Crocifissione’ di Masaccio, per citarne alcuni
In questo giorno non si celebra l’Eucaristia. La Chiesa celebra solamente l’Azione liturgica della Passione del Signore, composta dalla Liturgia della Parola, dall’Adorazione della croce e dai Riti di Comunione.
È giorno di digiuno e astinenza dalle carni. E’ la seconda celebrazione del Triduo Pasquale.
Il Venerdì Santo è il giorno della morte di Gesù Cristo. È il giorno più doloroso della Settimana Santa.
Tutti i riti religiosi del Venerdì Santo sono dedicati a questo. La Chiesa celebra la Passione in tre diversi momenti con altrettanti riti religiosi: si inizia con la liturgia della Parola, con la lettura del quarto canto del servo del Signore di Isaia (52,13-53,12), dell’Inno cristologico della lettera ai Filippesi (2,6-11) e della Passione secondo Giovanni. Si prosegue con l’adorazione della croce, a cui viene così tolto il velo, e si conclude con la santa comunione con i presantificati, cioè con le specie consacrate la sera del Giovedì Santo. Nella sera del Venerdì Santo, il rito religioso cattolico prevede anche la via Crucis, il ricordo cioè del percorso di Cristo verso la crocifissione sul monte Golgota. Durante il Venerdì Santo non si fanno altre consacrazioni e non si celebra altra messa.
Sotto l’aspetto delle celebrazioni religiose è una giornata particolare: infatti gli altari sono spogli, la custodia del sacramento è vuota, le campane tacciono, non si canta.
La funzione religiosa si svolge nel ricordo della passione e morte di Gesu’, seguita dalla preghiera universale, dall’adorazione della croce e dal sacramento della comunione.
Terminata la celebrazione si tiene, come di tradizione, la via crucis per le strade del paese.
Il sacro corteo è arricchito da preghiere e considerazioni spirituali, nonchè’ da vecchi canti tradizionali riscoperti meritoriamente per l’occasione.
Il Triduo pasquale è un tempo liturgico e non un giorno liturgico, non essendo un singolo giorno; non è pertanto una solennità, dato che la qualifica di solennità è un grado del giorno liturgico e non del tempo liturgico. Però, come nelle solennità, si inizia con una celebrazione serale: “Il giorno liturgico decorre da una mezzanotte all’altra. La celebrazione, però, della domenica e delle solennità inizia dai vespri del giorno precedente”.
Il Triduo pasquale ha una durata temporale equivalente a tre giorni liturgici, ma non corrisponde esattamente a tre giorni civili poiché si dispiega in quattro giorni civili, ossia:
nel giovedì Santo, ma solo la sera;
nel venerdì della Passione del Signore detto anche e più comunemente venerdì Santo, in cui ricorre la Giornata per i luoghi santi conosciuta anche con la denominazione di Giornata mondiale per la Terra santa;
nel sabato Santo;
nella domenica di Pasqua.
Di questi quattro giorni, dal punto di vista del calendario civile, solo il venerdì, il sabato santo e la domenica fanno parte interamente del triduo: “Il Triduo pasquale della passione e risurrezione del Signore inizia dalla messa vespertina in Cena Domini, ha il suo fulcro nella Veglia pasquale, e termina con i vespri della domenica di risurrezione”.
La ragione per cui questo tempo liturgico venne chiamato Triduo risiede, però, nel diverso computo del giorno come effettuato dai cristiani dei primi secoli in continuazione della tradizione biblica per la quale il giorno veniva computato non dalla mezzanotte alla mezzanotte successiva ma dal calar del sole al successivo calar del sole, ossia dal momento vespertino al successivo momento vespertino: in quest’ottica il triduo corrispondeva esattamente a tre giorni anche se la durata dello stesso era identica sia complessivamente sia nei termini di inizio e fine con quella del triduo attuale per cui, essendo stata la durata del triduo sempre la stessa, è cambiato solo il modo di computare l’inizio e la fine del giorno, e tale cambio di computo ha fatto sì che il triduo un tempo corrispondesse a tre giorni mentre ora si dispiega in quattro giorni.
Nell’antichità cristiana, infatti, il fatto che il triduo corrispondesse esattamente a tre giorni significa che esso era l’insieme del Venerdì Santo, del Sabato santo e della Domenica di Pasqua. L’identità dell’inizio e della fine della durata del triduo primitivo con quello attuale è dovuta al fatto che il primitivo iniziava con l’inizio del venerdì santo, cioè il calar della sera dell’attuale giovedì santo, e terminava con la fine della domenica di pasqua, ossia il calar della sera dell’attuale domenica di pasqua.
Le celebrazioni principali del Triduo sono:
la Celebrazione vespertina del Giovedì santo che normalmente consiste nella messa vespertina nella Cena del Signore o, eccezionalmente e solo per coloro che non vi partecipano, nella recita dei Vespri del Giovedì santo;
la Celebrazione della Passione del Signore del Venerdì Santo che solo da coloro che non vi partecipano è sostituita con la celebrazione dei Vespri del Venerdì Santo;
la Veglia Pasquale, centro del Triduo, officiata dopo il tramonto del sabato, e che sostituisce la Compieta del Sabato Santo e l’Ufficio delle Letture della domenica di Pasqua, recitati separatamente solo da coloro che non partecipano alla Veglia;
la Messa del giorno della Domenica di Pasqua, e la celebrazione della Liturgia della Ore (da Lodi a Vespri alle ore convenienti).
La triste e dolorosa vicenda della ‘Passione’, ha ispirato da sempre la pietà popolare a partecipare ai riti del Venerdì Santo, con manifestazioni di grande suggestione e penitenza, con le processioni dei ‘Misteri’, grandi e piccole raffigurazioni, con statue per lo più di cartapesta, dei vari episodi della ‘Via Crucis’, in particolare l’incontro di Gesù che trasporta la croce con sua madre e le pie donne; oppure con Gesù morto, condotto al sepolcro, seguito dall’effige della Vergine Addolorata. In tutte le chiese, a partire dal Colosseo con il papa, si svolgono le ‘Vie Crucis’, anche per le strade dei Paesi e nei rioni delle città; in alcuni casi per secolare tradizione esse sono svolte da fedeli con i costumi dell’epoca e giungono fino ad una finta crocifissione; in altri casi da secoli si svolgono cortei penitenziali di Confraternite con persone incappucciate o no, che si flagellano o si pungono con oggetti acuminati e così insanguinati proseguono nella processione penitenziale, come nella celebre penitenza di Guardia Sanframondi. Ci vorrebbe un libro per descriverle tutte, ma non si può dimenticare di citare i riti barocchi del Venerdì Santo di Siviglia. Il soggetto della ‘Passione’, ha continuato ad essere rappresentato anche con le moderne tecnologie, le quali utilizzando attori capaci, scenografie naturali e drammaticità delle espressioni dolorose; ha portato ad un più vasto pubblico nazionale ed internazionale l’intera vicenda terrena di Gesù. È il caso soprattutto del cinema, con tanti filmati di indubbio valore emotivo, come “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini; il “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, la serie di quelli storici e colossali, come “Il Re dei re”, “La tunica”, ecc. fino all’ultimo grandioso per la sua drammaticità “La Passione di Cristo” di Mel Gibson.
La passione di Cristo di Mel Gibson
E’ come fosse l’ora zero della fede. Non la disperazione ma la preghiera rivolta al vuoto, a quella che sembra un’assenza insuperabile. David Maria Turoldo ci offre più che una poesia una meditazione sul modo di pensare Cristo, la speranza, la trascendenza. Non c’è un aggettivo sprecato, né una sillaba che sfiori la retorica. Solo la parola ruvida, nuda ma robusta a reclamare il diritto a una risposta anche davanti all’abisso di quello che pare il Nulla
No, credere a Pasqua non e’ giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera e’ al Venerdi’ Santo quando Tu non c’eri lassu’. Quando non una eco risponde al suo grido e a stento il Nulla da’ forma alla Tua assenza
David Maria Turoldo
Mettere in fuga la morte
Matthias Grunewald, “Crocifissione”
Proprio la croce è il luogo in cui si manifesta in modo più tragicamente chiaro l’amore di Dio per l’uomo. Cristo infatti è venuto nel mondo per vincere la morte.
«Tu sei venuto tra noi per mettere in fuga la morte per snidare e uccidere la morte. Anche a Te la morte fa male per questo sei amico di ognuno segnato dal male e ogni male Tu vuoi condividere».
Idea progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto e hai preparato la croce al tuo Salvatore
Riflessione (traccia) domenica delle Palme A
HÁGIOS O THEÓS.SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna, t’ho fatto entrare in terra feconda e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara e la mia sete hai spento con l’aceto, hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti, tu mi hai portato davanti al Sinedrio e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.
Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice
La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.
Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).
L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).
Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.
LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO
Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.
I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA
La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.
Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.
Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici
Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile. Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.
Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.
I molti nomi di Sukkot
I riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.
Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?
Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.
Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo
Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.
Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).
Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.
Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.
E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?
Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.
Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].
Cosa simboleggiano le quattro specie?
Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.
Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.
Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.
Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.
Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico
Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?
Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…
Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]
La Via Crucis affonda le sue origini nella pietà popolare verso il Cristo sofferente sviluppatasi fra il XII e il XV secolo. Questa devozione intende evocare il pellegrinaggio lungo la Via dolorosa a Gerusalemme. Originariamente questa pia pratica non aveva un numero preciso e definito di quadri, soste o “stazioni”. Queste erano lasciate alle tradizioni della pietà locale, la quale attingeva anche da testi devoti non scritturistici.
Così è per l’incontro di Gesù con la madre, per il numero delle cadute, per l’incontro con Veronica. Il numero delle “stazioni” e il loro contenuto furono precisati dall’autorità ecclesiastica nel 1731, accogliendo la prassi allora più diffusa che comprendeva anche questi momenti non presenti nei Vangeli. Dal 1975 è possibile sostituire le stazioni tradizionali con altri momenti della Passione desunti dai Vangeli e concludere sempre con la Risurrezione di Gesù.
VIA CRUCIS, UNA STORIA LUNGA SECOLI
14/04/2017 Le prime tracce a Gerusalemme, alla fine del IV secolo. Come la conosciamo noi risale al Medio Evo inoltrato. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), san Francesco d’Assisi (1182-1226) e san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), prepararono il terreno su cui nacque la pratica di pietà. Le 14 stazioni.
Il passaggio di una pesante croce lungo la Via Dolorosa a Gerusalemme. Foto Ansa, 29 marzo 2013.
Ha radici profonde. E attraversa il tempo. La Via Crucis è un rito che intreccia Parola di Dio, storia e preghiera. Richiama l’ultimo tratto del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: da quando egli e i suoi discepoli, « dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi » (Mc 14, 26), fino a quando il Signore fu condotto al « luogo del Golgota » (Mc 15, 26), fu crocifisso e sepolto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia di un giardino vicino.
La Chiesa di Gerusalemme manifestò molto presto la sua attenzione per i «luoghi santi». Reperti archeologici attestano l’esistenza di espressioni di culto cristiano già nel secondo secolo dopo Cristo, nell’area cimiteriale dove era stato scavato il sepolcro di Gesù. Alla fine del IV secolo, la pellegrina Eteria ci dà notizia di tre edifici sacri eretti sulla cima del Golgota. E ci informa della processione che in certi giorni si snodava d due di esse, più precisamente dall’Anastasis al Martyrium. Non si trattava, per la verità, di una Via Crucis o di una Via Dolorosa. Come non lo era quella sorta di cammino attraverso i santuari di Gerusalemme, che si desume dalle varie « cronache di viaggio » dei pellegrini dei secoli V e VI. Ma quella processione, con i suoi canti e il suo stretto legame con i luoghi della passione, è ritenuta da alcuni studiosi una forma embrionale della futura Via Crucis.
Gerusalemme è la città della Via Crucis storica. Essa sola ha questo grande tragico privilegio. Lungo il Medio Evo il fascino dei « luoghi santi » suscita il desiderio di riprodurli nella propria terra: alcuni pellegrini, al ritorno da Gerusalemme, li “ricostruiscono” nelle loro città. Il complesso delle sette chiese di Santo Stefano a Bologna è ritenuto l’esempio più notevole di tali « riproduzioni ». Ma cf’è anche Kalwaria Zebrzydowska, in Polonia, a circa 40 chilometri da Cracovia e a 15 chilometri da Wadowice, paese natale di Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II.
La Via Crucis, nel senso attuale del termine, risale al Medio Evo inoltrato. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), san Francesco d’Assisi (1182-1226) e san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) prepararono il terreno su cui sorgerà il pio esercizio. Al clima di pietà compassionevole verso il mistero della Passione si deve aggiungere l’entusiasmo sollevato dalle Crociate che proponevano di ricuperare il Santo Sepolcro, il rifiorire dei pellegrinaggi a partire dal secolo XII e la presenza stabile, dal 1233, dei Frati minori francescani nei «luoghi santi».
Donne ortodosse pregano durante la Via Crucis a Gerusalemme. Foto Reuters, 29 aprile 2016.
Verso la fine del tredicesimo secolo,ci ricorda l’apposito sito della Santa Sede in cui monsignor Piero Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie ne ricostruisce la storia con rigore scientifico, la Via Crucis è già menzionata, non ancora come pio esercizio, ma come cammino percorso da Gesù nella salita al Monte Calvario e segnato da una successione di «stazioni». Intorno al 1294 un frate domenicano, Rinaldo di Monte Crucis, nel suo Liber peregrinationis afferma di essere salito al Santo Sepolcro «per viam, per quam ascendit Christus, baiulans sibi crucem», e ne descrive le varie stationes: il palazzo di Erode, il Litostrato, dove Gesù fu condannato a morte, il luogo dove Egli incontrò le donne di Gerusalemme, il punto in cui Simone di Cirene prese su di sé la croce del Signore. E così via.
Sullo sfondo della devozione alla passione di Cristo e con riferimento al cammino percorso da Gesù nella salita al Monte Calvario, la Via Crucis, come pio esercizio, nasce direttamente da una sorta di fusione di tre devozioni che si diffusero, a partire dal XV° secolo, soprattutto in Germania e nei Paesi Bassi: – la devozione alle «cadute di Cristo » sotto la croce; se ne enumerano fino a sette; – la devozione ai « cammini dolorosi di Cristo», che consiste nell’incedere processionale da una chiesa all’altra in memoria dei percorsi di dolore – sette, nove e anche di più -, compiuti da Cristo durante la sua passione: dal Getsemani alla casa di Anna (cf. Gv 18, 13), da questa alla casa di Caifa (cf. Gv 18, 24; Mt 26, 56), quindi al pretorio di Pilato (cf. Gv 18, 28; Mt 27, 2), al palazzo del re Erode (cf. Lc 23, 7); e la devozione alle «stazioni di Cristo», ai momenti in cui Gesù si ferma lungo il cammino verso il Calvario o perché costretto dai carnefici, o perché stremato dalla fatica, o perché, mosso dall’amore, cerca ancora di stabilire un dialogo con gli uomini e le donne che partecipano alla sua passione spesso.
Nel lungo processo di formazione della Via Crucis sono da segnalare due elementi: la fluttuazione della «prima stazione» della Via Crucis e la varietà delle stazioni stesse. Per quanto concerne l’inizio della Via Crucis, gli storici segnalano almeno quattro episodi differenti, scelti quale «prima stazione»: 1) l’addio di Gesù a sua Madre; si tratta di una «prima stazione» che non sembra aver avuto una larga diffusione, probabilmente a causa del problematico fondamento biblico; 2) la lavanda dei piedi; questa «prima stazione», che si situa nell’ambito dell’Ultima Cena e dell’istituzione dell’Eucaristia, è attestata in alcune Via Crucis della seconda metà del secolo XVII, che ebbero larga fortuna; 3) l’agonia del Getsemani; il giardino degli ulivi, dove Gesù, in estrema e amorosa obbedienza al Padre, decise di bere fino all’ultima goccia il calice della passione, costituisce l’inizio di una Via Crucis del secolo XVII, breve – comprende solo sette stazioni -, notevole per il suo rigore biblico, diffusa ad opera soprattutto dei religiosi della Compagnia di Gesù; 4) la condanna di Gesù nel pretorio di Pilato, «prima stazione» assai antica, che segna efficacemente l’inizio dell’ultimo tratto del cammino di dolore di Gesù: dal pretorio al Calvario.
Anche il soggetto delle stazioni era vario. Nel XV° secolo regnava ancora la più grande diversità nella scelta del loro numero e ordine. Nei vari schemi di Via Crucis si trovano stazioni quali la cattura di Gesù, il rinnegamento di Pietro, la flagellazione, le accuse diffamatorie in casa di Caifa, lo scherno della veste bianca nel palazzo di Erode, che non figurano in quello che diverrà la traccia definitiva. La Via Crucis, nella sua forma attuale, con le stesse quattordici stazioni disposte nello stesso ordine, è attestata in Spagna nella prima metà del diciassettesimo secolo, soprattutto in ambienti francescani. Dalla penisola iberica essa passò prima in Sardegna, allora sotto il dominio della corona spagnola, e poi nella penisola italica. Qui incontrò un convinto ed efficace propagatore in San Leonardo da Porto Maurizio (+ 1751), frate minore, instancabile missionario; egli eresse personalmente oltre 572 Via Crucis, delle quali è rimasta famosa quella eretta nel Colosseo, su richiesta di Benedetto XIV, il 27 dicembre 1750, a ricordo di quell’Anno Santo.
Una Via Crucis a Gerusalemme, lungo la Via Dolorosa. Foto Reuters, 3 aprile 2015
Le 14 stazioni della Via Crucis, nella forma definitiva arrivata a noi, sono le seguenti: 1) Gesù è condannato a morte 2) Gesù è caricato della croce 3) Gesù cade per la prima volta 4) Gesù incontra sua Madre 5) Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce 6) la Veronica asciuga il volto di Gesù 7) Gesù cade per la seconda volta 8) Gesù ammonisce le donne di Gerusalemme 9) Gesù cade per la terza volta 10) Gesù è spogliato delle vesti 11) Gesù è inchiodato sulla croce 12) Gesù muore in croce 13) Gesù è deposto dalla croce 14) il corpo di Gesù è collocato nel sepolcro
8 marzo, Giornata internazionale della donna: storia e significato
Cosa ricorda l’8 marzo e perché è stato scelto come data per la Festa della donna, o Giornata internazionale della donna. Storia e significato dell’evento
FESTA DELLA DONNA, 8 MARZO: STORIA
L’8 marzo viene ormai identificato come il girono della festa della donna. Parlare di festa però è improprio: questa giornata è infatti dedicata al ricordo e alla riflessione sulle conquiste politiche, sociali, economiche del genere femminile, dunque è più corretto parlare di Giornata internazionale della donna.
Ma come nasce questa giornata, e cosa rappresenta?
La storia della festa delle donne risale ai primi del Novecento. Per molti anni l’origine dell’8 marzo si è fatta risalite a una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell’industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise da un incendio. L’incendio del 1908 è stato però confuso con un altro incendio nella stessa città, avvenuto nel 1911 e dove si registrarono 146 vittime, fra cui molte donne. I fatti che hanno realmente portato all’istituzione della festa della donna sono in realtà più legati alla rivendicazione dei diritti delle donne, tra i quali il diritto di voto. Vediamo insieme qual è la storia della festa delle donne e il suo significato.
8 MARZO FESTA DELLE DONNE: SIGNIFICATO
Festa delle donne
Sono molti gli avvenimenti che, dall’inizio del Novecento, hanno portato alla lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne e all’istituzione della Giornata internazionale delle donne. Il primo evento importante fu il VII Congresso della II Internazionale socialista svoltosi a Stoccarda dal 18 al 24 agosto 1907. Durante questo congresso si discusse della questione femminile e del voto alle donne. I partiti socialisti si impegnarono a lottare per riuscire ad introdurre il suffragio universale.
STORIA DELLA FESTA DELLE DONNE
Il 3 maggio 1908 la Brown presiedette la conferenza del Partito socialista a Chicago, che venne ribattezzata “Woman’s Day“, durante la quale si parlò dello sfruttamento dei datori di lavoro nei confronti delle operaie, delle discriminazioni sessuali e del diritto di voto. Alla fine del 1908 il Partito socialista americano decise di dedicare l’ultima domenica del febbraio del 1909 all’organizzazione di una manifestazione per il voto alle donne. La prima “giornata della donna” negli Stati uniti si svolse quindi il 23 febbraio 1909.
FESTA DELLA DONNA
Un paio di anni dopo, durante la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste che si svolse a Copenaghen il 26 e 27 agosto 1910, si decise di seguire l’iniziativa americana istituendo una giornata internazionale dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne. In realtà per alcuni anni negli Stati Uniti e in vari Paesi europei la giornata delle donne si è svolta in giorni diversi
FESTA DELLA DONNA: IL PRIMO 8 MARZO
Negli anni successivi, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sono state poi organizzate molte altre giornate dedicate ai diritti delle donne. A San Pietroburgo, l‘8 marzo 1917, le donne manifestarono per chiedere la fine della guerra. In seguito, per ricordare questo evento, durante la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste che si svolse a Mosca nel 1921 fu stabilito che l’8 marzo fosse la Giornata internazionale dell’operaia. In Italia la prima giornata della donna si è svolta nel 1922, ma il 12 marzo e non l’8.
Nei decenni successivi il movimento per la rivendicazione dei diritti delle donne ha continuato ad ingrandirsi in tutto il mondo. Nel settembre 1944 a Roma è stato istituito l’UDI, Unione Donne Italiane, e si è deciso di celebrare il successivo 8 marzo la giornata della donna nelle zone liberate dell’Italia.
Dal 1946 è stata introdotta la mimosa come simbolo di questa giornata. Questo fiore fu scelto perchè di stagione e poco costoso.
Tuttavia in Italia si deve arrivare agli anni Settanta per vedere la nascita di un vero e proprio movimento femminista. L’8 marzo 1972 in Piazza Campo de Fiori a Roma si è svolta la manifestazione della festa della donna, durante la quale le donne hanno chiesto, tra le varie cose, anche la legalizzazione dell’aborto.
Il 1975 è stato definito dalle Nazioni Unite come l’Anno Internazionale delle Donne e l’8 marzo di quell’anno i movimenti femministi di tutto il mondo hanno manifestato per ricordare l’importanza dell’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne.
Insomma, riassumendo possiamo dire che la Festa della donna ha origine dai movimenti femminili politici di rivendicazione dei diritti delle donne di inizio Novecento. Per alcuni anni la giornata delle donne è stata celebrata in giorni diversi nei vari Paesi del mondo, mentre l’8 marzo divenne la data più diffusa in seguito alla Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste del 1921 e alla decisione, presa in quella sede, di istituire la Giornata internazionale dell’operaia.
Oggi la festa della donna ha un po’ perso il suo valore iniziale. Mentre ci sono organizzazioni femminili che continuano a cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi di varia natura che riguardano il sesso femminile – come la violenza contro le donne e il divario salariale rispetto agli uomini – molte donne considerano questa giornata come l’occasione per uscire da sole con le amiche, lasciando mariti, compagni e figli a casa, e concedersi qualche “sfizio“, che magari in altre serate non sarebbe permesso.
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA: CURIOSITÀ
Alcune curiosità sulla Giornata internazionale della donna:
Il colore ufficiale della Giornata Internazionale della Donna è, tra gli altri, il viola. Questo colore rappresenta la dignità e la giustizia sociale per le donne.
Per la festa della donna, una rassegna sulla “questione femminile” così come è stata declinata da Papa Francesco in questi primi sette anni di pontificato
foto SIR/Marco Calvarese
“Allargare la visione” sulla donna “per evitare di ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali”. È l’ultimo intervento, sotto forma di appello, di Papa Francesco sulla questione femminile. Nell’esortazione apostolica “Querida Amazonia”, il Papa mette in guardia dal “riduzionismo” che “ci porterebbe a pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all’Ordine sacro. Ma in realtà questa visione limiterebbe le prospettive, ci orienterebbe a clericalizzare le donne, diminuirebbe il grande valore di quanto esse hanno già dato e sottilmente provocherebbe un impoverimento del loro indispensabile contributo”. L’attenzione al “genio femminile” – espressione coniata da Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem – è presente in filigrana in tutti queste sette anni di pontificato, fin dagli esordi. Eccone una parziale antologia.
Come una madre. “La maternità non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni sia per la donna stessa, per il suo modo di essere, sia per le sue relazioni, per il modo di porsi rispetto alla vita umana” (25° anniversario Mulieris Dignitatem, 12 ottobre 2013).
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL SEMINARIO PROMOSSO DAL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I LAICI IN OCCASIONE DEL XXV ANNIVERSARIO DELLA “MULIERIS DIGNITATEM”
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Condivido con voi, anche se brevemente, l’importante tema che avete affrontato in questi giorni: la vocazione e la missione della donna nel nostro tempo. Vi ringrazio per il vostro contributo. L’occasione è stato il 25° anniversario della Lettera apostolica Mulieris dignitatem del Papa Giovanni Paolo II: un documento storico, il primo del Magistero pontificio dedicato interamente al tema della donna. Avete approfondito in particolare quel punto dove si dice che Dio affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano, alla donna (cfr n° 30).
Che cosa significa questo “speciale affidamento”, speciale affidamento dell’essere umano alla donna? Mi pare evidente che il mio Predecessore si riferisca alla maternità. Tante cose possono cambiare e sono cambiate nell’evoluzione culturale e sociale, ma rimane il fatto che è la donna che concepisce, porta in grembo e partorisce i figli degli uomini. E questo non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni sia per la donna stessa, per il suo modo di essere, sia per le sue relazioni, per il modo di porsi rispetto alla vita umana e alla vita in genere. Chiamando la donna alla maternità, Dio le ha affidato in una maniera del tutto speciale l’essere umano.
Qui però ci sono due pericoli sempre presenti, due estremi opposti che mortificano la donna e la sua vocazione. Il primo è di ridurre la maternità ad un ruolo sociale, ad un compito, anche se nobile, ma che di fatto mette in disparte la donna con le sue potenzialità, non la valorizza pienamente nella costruzione della comunità. Questo sia in ambito civile, sia in ambito ecclesiale. E, come reazione a questo, c’è l’altro pericolo, in senso opposto, quello di promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti dal maschile, abbandona il femminile con i tratti preziosi che lo caratterizzano. E qui vorrei sottolineare come la donna abbia una sensibilità particolare per le “cose di Dio”, soprattutto nell’aiutarci a comprendere la misericordia, la tenerezza e l’amore che Dio ha per noi. A me piace anche pensare che la Chiesa non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa. La Chiesa è donna, è madre, e questo è bello!
La Mulieris dignitatem si pone in questo contesto, e offre una riflessione profonda, organica, con una solida base antropologica illuminata dalla Rivelazione. Da qui dobbiamo ripartire per quel lavoro di approfondimento e di promozione che già più volte ho avuto modo di auspicare. Anche nella Chiesa è importante chiedersi: quale presenza ha la donna? Io soffro – dico la verità – quando vedo nella Chiesa o in alcune organizzazioni ecclesiali che il ruolo di servizio – che tutti noi abbiamo e dobbiamo avere – che il ruolo di servizio della donna scivola verso un ruolo di servidumbre. Non so se si dice così in italiano. Mi capite? Servizio. Quando io vedo donne che fanno cose di servidumbre, è che non si capisce bene quello che deve fare una donna. Quale presenza ha la donna nella Chiesa? Può essere valorizzata maggiormente? E’ una realtà che mi sta molto a cuore e per questo ho voluto incontrarvi – contro il regolamento, perché non è previsto un incontro del genere – e benedire voi e il vostro impegno. Grazie, portiamolo avanti insieme! Maria Santissima, grande donna, Madre di Gesù e di tutti i figli di Dio, ci accompagni. Grazie.
Allargare gli spazi. “La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini. Ad esempio, la speciale attenzione femminile verso gli altri, che si esprime in modo particolare, anche se non esclusivo, nella maternità. Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione teologia. Ma c’è ancora più bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché ‘il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo’ e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali” (Evangelii gaudium, 24 novembre 2013).
No al “machismo in gonnella”. ”È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del ‘machismo in gonnella’, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa” (volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, 29 luglio 2013).
Delitto contro l’umanità. “La tratta di esseri umani è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo. È un delitto contro l’umanità. Esorto la comunità internazionale ad adottare una strategia ancora più unanime ed efficace contro la tratta di esseri umani, in modo che in ogni parte del mondo, uomini e donne non possano più essere usati come un mezzo per un fine e che la loro dignità inalienabile possa sempre essere rispettata” (conferenza contro la tratta, 10 aprile 2014).
Non una replica. “La donna non è una replica dell’uomo, viene direttamente dal gesto creatore di Dio. L’immagine della costola non esprime inferiorità o subordinazione, ma uomo e donna sono della stessa sostanza e sono complementari” (udienza generale, 22 aprile 2015).
Più importanti degli uomini. “Nella Chiesa le donne sono più importanti degli uomini. Perché la Chiesa è donna” (volo di ritorno dagli Stati Uniti, settembre 2015).
“La Chiesa è donna”. “È madre e se viene a mancare questo tratto ‘femminile’ diviene un’associazione di beneficenza o una squadra di calcio.
La donna è colei che fa bello il mondo, che lo custodisce e mantiene in vita. Vi porta la grazia che fa nuove le cose, l’abbraccio che include, il coraggio di donarsi. La pace è donna. Nasce e rinasce dalla tenerezza delle madri. Perciò il sogno della pace si realizza guardando alla donna. Non è un caso che nel racconto della Genesi la donna sia tratta dalla costola dell’uomo mentre questi dorme. La donna, cioè, ha origine vicino al cuore e nel sonno, durante i sogni. Perciò porta nel mondo il sogno dell’amore. Se abbiamo a cuore l’avvenire, se sogniamo un futuro di pace, occorre dare spazio alla donna. Papa Francesco