"Gridatelo dai tetti...."

Secondo la Bibbia, i gentili originariamente erano persone non legate al popolo ebraico.

Leggendo la Bibbia, specialmente il Nuovo Testamento, ti imbatterai spesso nella parola Gentile.

Cosa significa?

Parola di origine latina e solitamente impiegata al plurale. Nelle versioni inglesi di entrambi i Testamenti designa collettivamente le nazioni distinte dal popolo ebraico.

Il motivo principale per cui i gentili vengono menzionati nella Bibbia è che “come discendenti di Abramo, gli ebrei si consideravano, ed erano infatti, prima della venuta di Cristo, il popolo eletto di Dio. Poiché le nazioni non ebraiche non adoravano il vero Dio  e generalmente indulgevano in pratiche immorali, il termine  Gôyîm  “Gentili” ha spesso nelle Sacre Scritture, nel Talmud, ecc., un significato denigratorio”.

Inizialmente ci fu molta discussione tra gli apostoli sull’opportunità o meno di predicare ai gentili il Vangelo di Gesù Cristo.

Per fortuna San Paolo divenne l ‘” Apostolo dei Gentili ” e si incaricò di evangelizzare tutte le persone, sia ebrei che gentili, assicurandosi che tutti conoscessero l’opera salvifica di Gesù Cristo.

IL DONO DELLA SALVEZZA
AI GIUDEI E AI GENTILI
(Mc 6,1-8,26).

  1. GIUDEI E GENTILI NELLA CHIESA PRIMITIVA
    I primi cristiani dovettero ben presto affrontare un problema che a noi oggi può sembrare
    estraneo al discorso religioso, quello cioè che riguarda gli alimenti di cui un credente può
    nutrirsi e quelli ai quali deve rinunciare. A sua volta questo era solo un aspetto di una
    questione più grande: quale atteggiamento i credenti in Cristo devono assumere nei confronti
    della legge mosaica? Avendo ricevuto il vangelo di salvezza che si incarna nella persona di
    Gesù, come devono regolarsi nei confronti della venerabile tradizione del popolo giudaico? In
    altre parole, per essere tali i cristiani devono rimanere o diventare giudei a tutti gli effetti,
    oppure la fede in Cristo è sufficiente per la salvezza? Questo dilemma non si poneva per un
    pio ebreo, il quale, una volta diventato cristiano, non riteneva che questo fosse un motivo
    sufficiente per abbandonare la pratica della legge mosaica, che precedentemente aveva
    regolato tutta la sua vita. La questione si poneva, invece, all’interno della missione, proprio
    perché molti gentili erano disposti a convertirsi; ma non a entrare in una comunità religiosa
    che si identificava con un gruppo etnico isolato all’interno dell’impero romano. Se si fosse
    imposta l’osservanza della legge mosaica, il cristianesimo, che potenzialmente è universale,
    sarebbe diventato nella migliore delle ipotesi la religione di un piccolo gruppo all’interno del
    mondo giudaico, che a sua volta già era una piccola entità nella società di allora. Proprio la
    necessità di annunziare il vangelo ai gentili mise ben presto in crisi l’osservanza della legge
    mosaica anche se la maggior parte dei primi cristiani era di provenienza ebraica.
    Nella chiesa primitiva ci furono forti scontri su questo tema. Dai dati presenti negli scritti
    cristiani delle origini emergono sostanzialmente quattro orientamenti diversi. Anzitutto vi
    erano i giudaizzanti, che rappresentavano l’ala più conservatrice del cristianesimo primitivo:
    essi sostenevano che tutti i cristiani, provenissero essi dall’ebraismo o dal paganesimo,
    dovevano osservare la legge. Altri invece, come Giacomo, fratello del Signore, affermavano
    che, mentre i convertiti dall’ebraismo dovevano continuare ad osservare la legge, ai gentili era
    richiesta soltanto l’osservanza di alcune norme (le cosiddette «clausole di Giacomo»: cfr. Atti
    15,19-20).
    Vi erano poi coloro che, come Paolo, sostenevano che i gentili convertiti non erano tenuti
    all’osservanza della legge mosaica, mentre i giudeo-cristiani potevano regolarsi come meglio
    preferivano, in quanto la legge di Mosè non era più essenziale neppure per loro. Infine gli
    ellenisti (dei quali il rappresentante più illustre era Stefano, il protomartire) sostenevano che
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    nessun credente in Cristo fosse tenuto ad osservare la legge poiché questa aveva perso ogni
    significato (sembra questo il tema del discorso di Stefano in At 7).
    Il solco tra i rappresentanti di questi diversi orientamenti era molto profondo in quanto
    riguardava non solo la prassi, ma anche la fede delle prime comunità. In fondo si trattava di
    stabilire se la persona di Gesù e la fede in lui erano sufficienti per la salvezza, oppure se era
    necessario qualcos’altro, cioè la pratica di quelle norme venerande sulle quali si era fondata
    per secoli la vita del popolo che aveva dato i natali allo stesso Gesù.
  1. MARCO, UN VANGELO DI FRONTIERA
    Oggi si suppone che Marco sia il più antico dei primi tre vangeli, così simili e così diversi
    da essere chiamati «sinottici», cioè in gran parte paralleli. Di fatto i vangeli di Matteo e Luca
    possono essere considerati come due nuove edizioni, rivedute e ampliate, di Marco. Se infatti
    confrontiamo tra loro i tre sinottici, notiamo che Matteo e Luca hanno in comune molto
    materiale, costituito specialmente da detti di Gesù, che non si trova in Marco. Siccome
    utilizzano questo materiale in modi e luoghi diversi del loro scritto, si può ritenere che essi
    non si conoscessero l’un l’altro, ma abbiano ricavato questi detti da una fonte sconosciuta a
    Marco, andata poi perduta, che viene designata oggi con la sigla Q (dal tedesco Quelle,
    «fonte»). Si può dunque concludere che Matteo e Luca hanno fatto uso sostanzialmente di due
    fonti, Marco e Q. Insieme ad esse poi ciascuno di loro ha usato alcune tradizioni a lui solo
    note.
    Pur dipendendo da Marco, è possibile però che Matteo e Luca fossero ancora a contatto
    con la forma orale delle tradizioni da lui raccolte, o magari con una edizione precedente del
    suo vangelo. Solo così si spiega il fatto che a volte contengono dettagli che sembrano più
    arcaici rispetto a quelli che si trovano nel secondo vangelo.
    Marco è dunque l’evangelista che per primo ha fatto una grande raccolta delle tradizioni
    orali riguardanti Gesù di Nazaret, dando così origine a quel genere letterario che chiamiamo
    «vangelo». Probabilmente già prima esistevano collezioni di brani, usate dai catechisti per la
    formazione religiosa dei convertiti, di cui la più antica, e quindi anche la più profondamente
    rielaborata, era quella riguardante la Passione di Gesù. Marco ha unito questo materiale, che
    era ancora in gran parte allo stato fluido, in modo tale che tutto quanto gravitasse sul racconto
    della Passione. Questa constatazione ha fatto sì che un autore definisse il vangelo di Marco
    come il racconto della Passione di Gesù preceduto da una lunga introduzione.
    Lo studio dei rapporti che intercorrono tra i vangeli sinottici mostra chiaramente che né
    Matteo né Luca si sono sentiti liberi di manipolare le tradizioni a loro piacimento. Bisogna
    supporre che anche Marco, sebbene le sue fonti non siano note, sia stato molto legato alla
    tradizione. Malgrado ciò egli ha impresso la sua impronta sul materiale di cui disponeva,
    soprattutto disponendolo secondo un ordine che gli sembrava riflettesse meglio i diversi
    momenti e aspetti della predicazione di Gesù. Naturalmente per fare ciò ha dovuto operare
    alcuni ritocchi, fare collegamenti, armonizzare frammenti diversi. Questo lavoro
    «redazionale» appare chiaramente dagli studi sulla forma letteraria della sua opera.
    Lo scopo fondamentale di Marco è quello di presentare Gesù come il Messia, il Figlio di
    Dio che annunzia e inaugura il «regno di Dio» (cfr. 1,14-15). Egli però è preoccupato non
    tanto di affermare questa sua dignità trascendente, quanto piuttosto di precisare le modalità
    con cui lo ha interpretato il suo ruolo. In altre parole egli intende mostrare al lettore che la
    gloria di Gesù non si manifesta nelle grandi opere da lui compiute, specialmente nei suoi
    miracoli, ma piuttosto nella sua passione e morte. A tale scopo egli fa ricorso a un espediente
    letterario chiamato «segreto messianico»: in altre parole egli ha rielaborato il materiale a sua
    disposizione in modo da far apparire che durante tutto il periodo del suo ministero Gesù ha
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    rifiutato non solo l’appellativo di Messia e di Figlio di Dio, ma ha tenuto nascosto tutto ciò
    che poteva far pensare a queste prerogative, come per esempio i suoi miracoli; solo alla fine,
    nel contesto della sua passione, quando ormai non vi era più alcuna possibilità di malinteso,
    avrebbe svelato la sua dignità (14,62).
    Nel vangelo di Marco il fatto che Gesù non abbia voluto presentarsi con le prerogative del
    Messia atteso dai giudei ha anche un altro significato: secondo lui è vero che Gesù ha
    annunziato la venuta del regno di Dio ai giudei, ma ben presto ha rivolto lo stesso annunzio ai
    gentili, negando così in qualche modo le attese nazionalistiche legate alla figura del Messia.
    Inoltre sempre secondo Marco Gesù sarebbe passato sopra proprio tutte quelle norme della
    legge mosaica, riguardanti circoncisione, riti, alimenti, nelle quali i giudei trovavano la loro
    identità e quindi il motivo di separazione dai gentili. Questo punto di vista è piuttosto isolato
    nel cristianesimo primitivo: infatti secondo Matteo e Luca solo dopo la sua morte e
    risurrezione Gesù avrebbe comandato ai discepoli di rivolgersi ai gentili. Si può dunque
    supporre che Marco, per affermare la sua tesi, abbia ritoccato le tradizioni che gli sono
    pervenute; soprattutto accentuando lo scontro di Gesù con i rappresentanti ufficiali del
    giudaismo e descrivendo una sua attività al di fuori dei territori abitati prevalentemente dai
    giudei (Giudea e Galilea).
    Marco vuole così dimostrare che la missione ai gentili non ha avuto inizio dopo la
    risurrezione di Gesù, ma è stata inaugurata «direttamente» da lui; essa non rappresenta quindi
    uno sviluppo successivo del suo messaggio, ma ne costituisce un aspetto primario e
    qualificante. In altre parole Marco vuole dimostrare che Gesù stesso ha già indicato in
    partenza l’atteggiamento che i cristiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della legge
    mosaica: dal non aver saputo accettare questo insegnamento del Maestro proverrebbero quindi
    le difficoltà sorte in seguito nella comunità cristiana, già anticipate nel comportamento dei
    discepoli.
  1. LA SEZIONE DEI PANI
    Affrontiamo ora la sezione che abbiamo scelto come tema di questa ricerca. La
    chiamiamo per intenderci «sezione dei pani», perché in essa il termine «pane» ritorna ben
    sedici volte a partire da 6,8 fino a 8,20; però diciamo subito che si tratta di una indicazione di
    comodo, spesso utilizzata ma molto discutibile, in quanto non è sufficiente per metterne in
    luce tutti gli aspetti. Il primo passo da fare è quello di delimitare la sezione stessa e poi di
    identificarne le articolazioni interne. Ovviamente non si tratta di una questione secondaria,
    perché è necessario conoscere l’estensione di un insieme di testi e il modo in cui essi sono
    collegati per capire che tipo di discorso l’autore intende fare.
    Anzitutto è chiaro che la sezione termina con la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-
    26): subito dopo questo episodio infatti è riportata la confessione di Pietro, seguita dal primo
    annunzio della passione, che rappresenta chiaramente l’inizio di una nuova sezione. Gli
    esegeti sono invece incerti circa il punto di inizio della sezione. Secondo molti di loro, esso
    coincide con la prima moltiplicazione dei pani (6,30), secondo altri con il racconto
    dell’esecuzione di Giovanni Battista da parte di Erode (6,14-29), secondo altri ancora con la
    missione dei Dodici (6,7). In ogni caso la visita di Gesù a Nazaret (6,1-6) apparterrebbe
    ancora alla sezione precedente.
    A mio avviso, invece, la sezione inizia prima, con la visita di Gesù a Nazaret e con il suo
    rifiuto da parte dei nazaretani (6,1-6a): infatti apparirà soprattutto che, in base alla logica
    interna che presiede a tutta la sezione, questo episodio non si può staccare da quello seguente,
    l’invio dei discepoli (vv. 6b-13) che termina con il loro ritorno presso Gesù (cfr. 6,30).
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    Le articolazioni interne della sezione sono abbastanza chiare. Una prima arco narrativo è
    quello appunto che va dall’episodio di Nazaret fino al ritorno dei discepoli (6,1-30): in esso è
    inclusa una lunga parentesi sulla morte di Giovanni Battista (vv. 14-29).
    Dopo il ritorno dei discepoli da Gesù ha inizio un secondo blocco narrativo caratterizzato
    da due moltiplicazioni dei pani, una in Galilea (6,30-44) e l’altra nella Decapoli (8,1-10).
    Dopo il primo di questi due miracoli si situano l’episodio di Gesù che cammina sulle acque
    (6,45-52), un sommario circa la sua attività in Galilea (6,53-56) e infine una discussione con
    gli scribi e i farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). Al termine di quest’ultimo episodio Gesù
    si reca nel territorio di Tiro e Sidone, dove opera la guarigione della figlia di una donna sirofenicia (7,24-30) e poi di un sordomuto (7,31-37). Dopo la seconda moltiplicazione dei pani è
    riportata la richiesta di un segno da parte dei farisei (8,11-13). Conclude il tutto una
    discussione di Gesù con i discepoli circa il lievito dei farisei e di Erode (8,14-21) e infine la
    guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26).
    Nello sviluppo della sezione è importante soprattutto la discussione con gli scribi e i
    farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). La presenza di questo lungo brano sorprende il lettore
    perché il vangelo di Marco contiene solo due raccolte un po’ estese di detti, il discorso
    parabolico (c. 4) e il discorso escatologico (c. 13). Dunque se Marco ha riportato proprio qui
    questa raccolta, ciò significa che gli serviva ai fini della composizione di questa sezione.
    Subito dopo questa discussione (7,24) Gesù esce dal territorio di Israele e si reca in terra
    pagana, nel territorio di Tiro e Sidone (Fenicia). Già in precedenza aveva compiuto una
    veloce sortita fuori di Israele, quando si era recato sull’altra sponda del lago di Galilea e aveva
    guarito l’indemoniato geraseno (5,1-20), ma era subito rientrato. Invece, da questo momento
    in poi Gesù si trova sostanzialmente «all’estero», come appare all’inizio della sezione
    successiva, quando si trova solo con i suoi discepoli nei pressi di Cesarea di Filippo e chiede
    loro: «Voi chi dite che io sia?» (cfr. 8,27-33). È vero che in singole occasioni Gesù appare
    ancora, sebbene in modo fugace, in Galilea o in Giudea, tuttavia è probabile che in questi casi
    l’indicazione di luogo non sia dovuta dall’evangelista, ma facesse parte delle tradizioni da lui
    utilizzate. Quindi, secondo Marco, Gesù resta fuori dal territorio di Israele finché riappare a
    Gerico, per procedere poi verso Gerusalemme, dove avrà luogo la sua passione e morte.
    Il miracolo compiuto da Gesù nel territorio di Tiro e Sidone in favore di una donna sirofenicia (7,24-30), rappresenta, a parer mio, la chiave interpretativa di questa sezione. Ad esso
    quindi rivolgiamo anzitutto la nostra attenzione, per poter poi studiare, alla sua luce, le due
    parti che la compongono.
  1. GUARIGIONE DELLA FIGLIA DI UNA SIRO-FENICIA
    (7,24-30)
    Il miracolo narrato in questo brano ha luogo mentre Gesù si trova dalle parti di Tiro e
    Sidone, in un territorio abitato quasi esclusivamente da gentili. Egli vi si trova quasi in
    incognito, perché non vuole che alcuno lo sappia. Ma subito si reca da lui una donna che ha
    una figlioletta posseduta da uno «spirito immondo» e, gettandosi ai suoi piedi, gli chiede di
    guarirla.
    Nel corso del suo vangelo Marco dà grande importanza alla liberazione degli indemoniati
    perché in queste persone vede il focalizzarsi di una potenza avversa a Dio. È vero che per lui,
    come per Gesù e per tutto il mondo giudaico, il male risiede nel cuore degli uomini e di lì esce
    e si propaga (cfr. 7,21-23). Tuttavia questo male era visto come qualcosa di oggettivo che
    contamina i rapporti fra le persone e veniva facilmente identificato con un’entità personale di
    carattere mitologico, il demonio, l’angelo decaduto, che si oppone a Dio. Esso poi veniva
    visto all’opera specialmente in persone che avevano gravi disagi di carattere psichico, la cui
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    origine era altrimenti incomprensibile. In realtà, secondo la percezione moderna, l’alienazione
    mentale dipende in gran parte proprio da quelle strutture ingiuste che regolano negativamente
    i rapporti sociali. L’evangelista non esplicita questo ragionamento, ma considera la
    liberazione di un indemoniato come il segno per eccellenza che attesta la venuta del regno di
    Dio: tant’è vero che il primo miracolo compiuto da Gesù nel secondo vangelo è proprio la
    guarigione di un ossesso (1,21-28). Perciò la donna che chiede a Gesù la guarigione della
    figlioletta posseduta da uno spirito immondo, esige senza saperlo un segno di quella salvezza
    piena e definitiva che coincide con la venuta del Regno.
    L’evangelista sottolinea di proposito che «quella donna che lo pregava di scacciare il
    demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia». Per lui è importante che il lettore si
    renda ben conto che si tratta di una donna non ebrea a tutti gli effetti. Ella cerca dunque di
    forzare il principio secondo cui la salvezza è per i giudei. Perciò Gesù le dice: «Lascia prima
    che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Per i giudei
    i cani erano i gentili; il pane dei figli simboleggiava la salvezza che, essendo destinata al
    popolo ebraico, non poteva essere data ai gentili. La durezza di questa affermazione è appena
    attenuta dal diminutivo «cagnolini» con cui i gentili vengono designati. Ma la donna replica:
    «Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli». Con
    queste parole ella riconosce che effettivamente non avrebbe diritto a tale miracolo, perché è
    fuori discussione che la salvezza appartiene ai giudei, ma gli chiede semplicemente di fare
    un’eccezione. Allora egli le dice: «Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia».
    E ciò si attua puntualmente.
    Per capire il discorso di Marco è utile confrontare il suo racconto con quello di Matteo
    (15,21-28). Anche secondo questo vangelo Gesù si è recato dalle parti di Sidone e Tiro, dove
    gli viene incontro la donna cananea; questa si mette a gridare verso di lui, «ma egli non le
    rivolse neppure una parola». Allora i discepoli gli chiedono di esaudirla, se non altro per
    evitare che li segua gridando. Ma Gesù risponde: «Non sono stato inviato che alle pecore
    perdute della casa di Israele». Questa frase, così dura, si trova solo in Matteo, il quale
    prosegue narrando che ella viene, si prostra dinanzi a lui chiedendo di essere aiutata. Allora
    Gesù le dice: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
    Questa risposta è la stessa che si trova in Marco, ma manca la prima parte della frase:
    «Lascia prima che si sfamino i figli». La conclusione, poi, è uguale: la donna ribatte che
    anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora
    Gesù, dopo aver lodato la sua fede, le concede la grazia richiesta. Secondo la versione di
    Matteo Gesù, pur essendo venuto solo per gli israeliti, fa un miracolo per questa donna pagana
    per il semplice motivo che ella ha fede, cioè crede che Gesù è stato effettivamente mandato al
    popolo giudaico, ma ha il potere, se vuole, di fare qualche dono di grazia anche agli altri.
    Quindi Gesù accetta la richiesta della donna pagana, ma lo fa in via eccezionale; in altre
    parole si tratta dell’eccezione che conferma la regola.
    Questa interpretazione è confermata, sempre nel vangelo di Matteo, da un altro racconto,
    quello del centurione che aveva il servo ammalato (8,5-13): egli chiede a Gesù di guarire un
    suo servo, ma quando Gesù dice «Io verrò e lo curerò», si profonde in scuse, dicendo di non
    essere degno di riceverlo in casa sua e chiedendogli di curarlo da lontano. Gesù allora afferma
    di non aver trovato tanta fede in Israele e guarisce il servo. La reazione del centurione si
    spiega solo supponendo che Gesù non ha detto che sarebbe andato a casa sua, ma piuttosto ha
    fatto una domanda: «Dovrò forse venire a curarlo?». A questa domanda si attende una risposta
    negativa: in quanto ebreo Gesù non può entrare in casa di gentili, e quindi non può andare a
    guarire il servo del centurione. Per questo egli allora ribatte che Gesù non ha bisogno di
    andare da lui, ma può guarire il servo a distanza. Anche questa volta la guarigione avviene in
    via eccezionale, restando ferma la regola che la salvezza è per i giudei. Secondo Matteo Gesù
    invierà i discepoli ai gentili solo dopo la sua risurrezione (Mt 28,19).
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    Ritornando ora a Marco, bisogna ammettere che, stando al senso del discorso, la frase che
    non si trova in Matteo («Lascia prima che si sfamino i figli») non sia stata omessa da questo
    evangelista, ma sia chiaramente un’aggiunta di Marco stesso. Infatti l’accenno a un «prima»
    lascia chiaramente supporre l’esistenza di un «dopo»: ora, se Gesù ha limitato la sua attività al
    mondo ebraico, non si vede in che senso si può parlare di un «dopo», almeno durante la sua
    vita terrena. Pur dipendendo da Marco, su questo punto ha ragione Matteo che omette questa
    frase ispirandosi forse a una tradizione più antica di cui era a conoscenza.
    Ma proprio questa dialettica tra «prima» e «poi» che Marco introduce nella risposta di
    Gesù manifesta il modo in cui egli leggeva l’episodio: è vero che il pane della salvezza
    appartiene ai figli, ma dopo di loro esso è donato anche agli altri. E questo «dopo» sta
    iniziando già ora con la guarigione della figlia della donna siro-fenicia. Marco dunque non
    vede in ciò che Gesù sta per fare una semplice eccezione alla regola, ma l’inizio di una nuova
    fase della sua attività in cui la salvezza è offerta ai gentili.
  1. GLI INIZI DELLA MISSIONE AI GENTILI
    Il susseguirsi di un «prima» e di un «poi» appare anzitutto nella prima parte della sezione,
    quella cioè del rifiuto opposto a Gesù dai nazaretani, seguito dal conferimento ai discepoli di
    un compito missionario.
    5.1. L’episodio di Nazaret (6,1-6a)
    La visita a Nazaret si inserisce bene nell’ambito del ministero di Gesù in Galilea. È
    comprensibile che, per parlare ai suoi compaesani, Gesù approfitti del giorno di sabato,
    quando tutti sono radunati nella sinagoga. Marco non dice il tema della predicazione, ma
    mostra lo stupore dei presenti e i loro commenti. Essi trovano difficoltà ad accettare il suo
    insegnamento, nel quale essi riconoscono una manifestazione di sapienza, cioè una grande
    autorevolezza, a causa delle sua origine umile, e soprattutto ben nota a tutti. Ma proprio
    questo è molto strano: non avrebbero dovuto piuttosto essere contenti ed orgogliosi di lui, un
    loro compaesano divenuto famoso?
    Per capire che cosa effettivamente è accaduto a Nazaret dobbiamo soffermarci sulla frase
    finale: «E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li
    guarì. E si meravigliava della loro incredulità» (vv. 5-6). Questa constatazione si spiega più
    chiaramente alla luce di quanto riporta Luca nella sua versione di questo episodio (Lc 4,14-
    30). Secondo il terzo evangelista Gesù commenta la diffidenza dei suoi compaesani con
    queste parole: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo
    udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria!» (v. 23). Questa frase lascia
    capire che i nazaretani reagiscono con freddezza all’insegnamento di Gesù in quanto ritengono
    che questo personaggio, diventato famoso proprio per i suoi miracoli, dovrebbe cominciare a
    farli proprio nel suo paese, tra i suoi parenti e famigliari. A queste attese interessate Gesù
    risponde portando l’esempio di due profeti: Elia durante la carestia non si rivolge a tutte le
    vedove bisognose di Israele, ma sfama miracolosamente una donna straniera, la vedova di
    Sarepta (v. 26); trascurando tutti i lebbrosi presenti in Israele, Eliseo va a guarire proprio uno
    straniero, Naaman il siro (v. 27). I miracoli di Gesù sono segni del regno di Dio, e non un
    servizio sanitario offerto da Dio ai soliti privilegiati. Essi vengono offerti a chi è disposto a
    credere, non a chi li pretende come un diritto acquisito.
    Torniamo a Marco. Anch’egli lascia intendere che il punto di attrito tra Gesù e i
    nazaretani sta nella loro pretesa, delusa da lui, di essere i principali destinatari dei suoi
    miracoli. L’evangelista ha rimanipolato il racconto (o l’ha già trovato così trasformato) in
    chiave cristologica: i nazaretani rifiutano Gesù perché sono delusi nella loro aspettativa di un
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    Messia trascendente, la cui origine è sconosciuta (cfr. Gv 7,27). Ma soprattutto egli mette
    sulla bocca di Gesù questa frase: «Nessun profeta è accetto in casa sua». Il rifiuto dei
    nazaretani appare così come espressione non tanto dell’egoismo di un gruppetto di contadini,
    ma del peccato di tutto Israele, che rifiuta Gesù come ha sempre rifiutato coloro che gli erano
    stati inviati da Dio. Il loro comportamento diventa simbolo e anticipazione di quello che sarà
    il rifiuto che tutto il popolo ebraico opporrà al suo Messia (anche se Marco farà poi capire che
    responsabili sono soprattutto i capi del popolo).
    5.2. L’invio dei discepoli (6,6b-13)
    Alla scena del rifiuto di Gesù a Nazaret fa seguito immediatamente la missione dei
    Dodici: «Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. Allora chiamò i Dodici, e
    incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi» (vv. 6b-7). Il
    potere sugli «spiriti immondi» è il segno per eccellenza del Regno di Dio: l’annunzio della sua
    venuta costituisce dunque il motivo dell’invio dei discepoli (cfr. Lc 10,9). Queste potenze che
    si oppongono a Dio sono le uniche veramente «impure», mentre in seguito Gesù dichiarerà
    puri tutti gli alimenti (7,19), e di conseguenza anche i gentili, come già precedentemente
    aveva reso puri i lebbrosi (1,44).
    Alla notizia dell’invio fa seguito immediatamente la descrizione dell’equipaggiamento
    degli inviati: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né
    pane (ecco che appare per la prima volta questo termine), né bisaccia, né denaro nella borsa;
    ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (vv. 8-9). Secondo Marco Gesù
    permette il bastone, che serviva per facilitare il cammino e per un minimo di difesa, e un paio
    di sandali, che proteggevano i piedi dai sassi e dal calore eccessivo del terreno. Nei passi
    paralleli di Matteo (10,10) e di Luca (9,3; 10,4) invece Gesù è stato molto più radicale nelle
    sue direttive di viaggio, in quanto proibisce, insieme al resto, anche bastone e sandali. Senza
    neppure questi due strumenti essenziali a ogni viandante, i discepoli erano costretti a correre e
    a portare a termine in fretta la loro missione: si ha quindi l’impressione che si tratti di una
    missione ristretta a un piccolo territorio (la Galilea), e a un tempo breve (il regno di Dio è
    vicino). Ciò è sottolineato da Matteo, secondo il quale Gesù ha detto ai discepoli: «Non
    andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore
    perdute della casa d’Israele» (10,5b-6).
    Anche in questo caso si deve supporre che la versione di Matteo e di Luca sia più arcaica
    di quella di Marco: essa infatti si rifà alla fonte Q e per di più è in sintonia con l’esigenza di
    rinuncia totale prospettata da Gesù; inoltre è evidente che la missione dei discepoli è
    circoscritta alla Galilea per la brevità del tempo che secondo Gesù separa dalla venuta del
    Regno. Perché dunque Marco ha cambiato le parole del Signore? Per rispondere a questo
    interrogativo bisogna notare che la finale canonica del secondo vangelo (16,9-20) è ritenuta
    oggi quasi universalmente come un’aggiunta: così come è uscito dalla penna di Marco il
    vangelo finiva con l’episodio delle donne che, dopo aver ricevuto al sepolcro l’annunzio della
    risurrezione di Gesù, fuggono spaventate e «non dissero niente a nessuno perché avevano
    paura» (16,8). Nell’aggiunta successiva si dice che Gesù risorto dà ai suoi discepoli il
    mandato di annunziare il vangelo a tutto il mondo. Ma nel vangelo «autentico» di Marco
    l’invio ai gentili è assente.
    Marco si è forse dimenticato di un dettaglio di tale importanza, lui che è «l’evangelista
    dei gentili»? Certamente no: al contrario per lui l’invio ai gentili ha già avuto luogo quando
    Gesù si trova in Galilea. Per questa ragione egli ritocca la tradizione a sua disposizione:
    dovendo coprire lunghe distanze in territori lontani, i discepoli devono essere meglio
    «equipaggiati», cioè devono indossare almeno un paio di sandali e portare con sé un bastone.
    E in funzione di ciò egli non riporta alcuna limitazione territoriale, come invece aveva fatto
    Matteo. Se le cose stanno così, allora vuol dire che per Marco Gesù, dopo aver offerto la
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    salvezza a Israele (simboleggiato nei suoi compaesani di Nazaret) ed essere stato rifiutato, per
    mezzo dei discepoli estende la sua opera ai gentili. Egli dunque vuole mostrare, in conformità
    al principio emerso nell’episodio della donna siro-fenicia, che il vangelo è stato offerto da
    Gesù «prima» ai giudei, ai quali era stato promesso da Dio mediante i profeti, ma «poi», dopo
    che essi l’hanno rifiutato, è stato messo da lui stesso, già durante la sua vita terrena, a
    disposizione dei gentili, cioè di tutti.
    Il rifiuto di Gesù da parte dei nazaretani e l’invio dei discepoli ai gentili sono dunque in
    Marco due episodi sono strettamente collegati. Non è quindi consigliabile spezzare questa
    unità, come fanno invece Matteo e Luca, nonché quei commentatori che fanno iniziare una
    nuova sezione con Mc 6,6b.
  1. LE DUE MOLTIPLICAZIONI DEI PANI
    La stessa dialettica del «prima» e del «poi» appare anche nella seconda parte della
    sezione, che è caratterizzata da due moltiplicazioni dei pani, separate da alcuni brani, tra
    spicca soprattutto quello in cui è riportata una lunga discussione con gli scribi e i farisei circa
    la questione dei cibi.
    6.1. Prima moltiplicazione dei pani (6,30-44)
    Questo episodio si situa nel territorio della Galilea e viene descritto dall’evangelista
    mediante numerosi simboli tipici del mondo biblico. Gesù sente compassione per la folla,
    «perché erano come pecore senza pastore». La «compassione» esprime la misericordia di Dio
    verso il popolo peccatore (cfr. Es 34,6). Il gregge è un simbolo per eccellenza di Israele (cfr.
    Nm 27,16-17). Il «pane» come dono divino ricorda la manna (Es 16; Nm 11,5), quindi
    l’esodo e la salvezza. I pani sono «cinque», numero che ricorda i libri della Torah (nutrimento
    spirituale di Israele) ed è la metà di dieci, che è il numero dei Comandamenti. I pesci alludono
    alle quaglie date insieme alla manna. Ci sono le dodici «ceste», che erano uno strumento usato
    a Roma prevalentemente dagli ebrei; le ceste nei quali sono messi i resti sono «dodici»,
    ricordo delle dodici tribù di Israele. Poi c’è il fatto che coloro che avevano mangiato erano
    «cinquemila» (ripresa di «cinque»); la divisione della folla in gruppi è un richiamo
    all’organizzazione di Israele nel deserto (cfr. Es 18,21.25); Gesù compie una specie di rituale
    ebraico: leva gli occhi al cielo, pronunzia la benedizione, spezza i pani, li dà ai discepoli.
    Dunque l’evangelista usa un simbolismo che riporta ad una folla giudaica. I presenti sono
    giudei e ciò che Gesù dona loro è «il pane dei figli», cioè la salvezza che Dio aveva promesso
    al suo popolo.
    In questo episodio appare con chiarezza il tipo di salvezza portata da Gesù: essa consiste
    nella riaggregazione del popolo di Dio, che ritrova la sua coesione medianti i rapporti nuovi
    che si stabiliscono tra i suoi membri in forza della fede in JHWH, di cui Gesù è l’inviato.
    Successivamente l’evangelista riporta l’episodio di Gesù che cammina sulle acque (6,45-52):
    anche qui è chiaro il collegamento con l’esodo, dove si racconta che Dio passa attraverso il
    mare dei Giunchi alla testa del suo popolo. Seguono numerose guarigioni (6,53-56), che
    approfondiscono ulteriormente il tema della salvezza portata da Gesù.
    6.2. Discussione con gli scribi e i farisei (7,1-23)
    Contrariamente alla sua abitudine di dare la preferenza ai racconti, l’evangelista riporta
    qui una serie di detti riguardanti il problema degli alimenti puri e impuri che a prima vista non
    hanno nulla a che vedere con la tematica della sezione. Il collegamento si coglie a partire da
    questa affermazione di Gesù, che rappresenta il culmine di tutta la raccolta: «Non capite che
    tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore
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    ma nel ventre e va a finire nella fogna?» (vv. 18-19a). Ma soprattutto è significativo il
    commento che ne dà l’evangelista: «Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (v. 19b).
    Gli usi alimentari dei giudei rappresentavano infatti la barriera più forte che separava i
    giudei dai gentili, i quali erano considerati impuri soprattutto perché mangiavano cibi proibiti
    dalla legge mosaica. La connessione tra l’osservanza delle norme alimentari e i contatti con i
    gentili appare soprattutto nell’episodio del centurione Cornelio, dal quale Pietro accetta di
    recarsi solo dopo che una rivelazione celeste gli ha fatto capire che tutti gli alimenti sono puri
    (At 10,9-16.28-29).
    Proprio l’episodio di Cornelio fa capire che il superamento delle prescrizioni alimentari
    giudaiche si è attuato dopo la morte e risurrezione di Gesù ed è stato accettato solo in parte e
    con difficoltà dagli ambienti giudeo-cristiani di Gerusalemme. Lo stesso Matteo, che riflette
    una comunità moderatamente giudaizzante, pur facendo uso di Mc 7,1-23, non si sente di
    accogliere nel suo vangelo il principio affermato da Marco nel v. 19b. Per Marco invece è
    importante sottolineare che Gesù ha dichiarato puri tutti gli alimenti, perché questa frase gli
    serve per dimostrare che Gesù ha demolito proprio la barriera che divide i gentili dai giudei.
    Ciò significa che egli ha ormai portato a termine la prima parte della sua opera, cioè il
    conferimento della salvezza al popolo eletto. Subito dopo Gesù lascia la Galilea e compie due
    miracoli in territorio pagano, la guarigione della figlia della donna siro-fenicia e la guarigione
    di un sordomuto, che attestano la venuta del regno di Dio anche per i gentili. Per lui il dono
    della salvezza ai gentili non ha avuto inizio con la visione di Pietro e il successivo incontro
    con Cornelio, ma è già stato attuato dallo stesso Gesù, che ha dimostrato così la destinazione
    universale del suo messaggio.
    6.3. Seconda moltiplicazione dei pani (8,1-10)
    A questo punto l’evangelista riporta un altro racconto nel quale Gesù distribuisce il pane
    alla folla. Questa volta però, a differenza di quanto era avvenuto nel primo episodio, il fatto
    avviene nella Decapoli (cfr. 7,31), in territorio abitato da gentili. Di nuovo i discepoli sono
    presi di sorpresa e neppure immaginano che Gesù possa fare qualcosa di simile. Diversi
    dettagli di questo racconto però sono diversi da quelli del precedente. Riguardo ai presenti si
    dice che alcuni di loro venivano «da lontano» (8,3): nella terminologia del Nuovo Testamento
    i «lontani» sono i gentili (cfr. Ef 2,13). I pani non sono più cinque, ma sette, come sette (e non
    più dodici) sono le sporte dei pezzi avanzati: il numero «sette» era facilmente applicato ai
    gentili, come appare dal fatto che settanta (7×10) sono le nazioni del mondo (Gen 10), sette
    sono i precetti che, secondo la tradizione rabbinica, Noè avrebbe promulgato dopo il diluvio
    per i suoi figli e per l’intera umanità, settanta sono i traduttori della Bibbia in greco (la Bibbia
    del mondo gentile). Inoltre il termine «sporta» indica un contenitore usato da tutti e non
    prevalentemente dai giudei, come erano le ceste. Infine il fatto che i presenti fossero
    «quattromila» ricorda i quattro venti da cui saranno radunati gli eletti (cfr. Mc 13,27).
    In vari modi dunque il simbolismo di questo racconto rimanda ai gentili. Probabilmente
    l’evangelista conosceva due versioni di un unico racconto in cui si narrava il dono del pane da
    parte di Gesù alla folla, la prima appartenente a una chiesa di origine giudaica e la seconda
    che rispecchiava la sensibilità di una chiesa di origine gentile: ciò è confermato dal fatto che il
    vangelo di Giovanni e quello di Luca hanno una sola moltiplicazione dei pani. Riportando i
    due racconti nella stessa sezione Marco vuole far vedere in modo plastico che la salvezza,
    donata «prima» ai giudei, è stata «poi» messa da Gesù stesso a disposizione dei gentili, cioè di
    tutti.
    Le due moltiplicazioni dei pani vengono strettamente collegate tra loro mediante un
    dibattito tra Gesù e i suoi discepoli, che viene situato durante la successiva traversata del lago
    (8,14-21). Gesù si rammarica perché, pur avendo assistito due volte a un miracolo così
    strepitoso, essi si preoccupano ancora del pane materiale, e li rimprovera di avere il cuore
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    indurito e di non saper vedere con i loro occhi. Subito dopo viene narrata la guarigione di un
    cieco che avviene in due momenti (8,22-26). Ciò significa che anche i discepoli saranno
    guariti dalla loro cecità. Ma la loro guarigione, come quella del cieco, avverrà in modo
    progressivo, in quanto Gesù nella sezione successiva li istruirà per ben tre volte sulla sua
    imminente passione, morte e risurrezione. Alla fine della sezione il compimento di questa
    opera di illuminazione verrà significato mediante la guarigione di un altro cieco, Bartimeo
    (10,46-52).
  1. CONCLUSIONE
    La sezione del vangelo di Marco che abbiamo esaminato è molto importante perché in
    essa l’evangelista mette a fuoco alcuni temi che gli stanno particolarmente a cuore. Anzitutto
    egli vuole mostrare come la predicazione di Gesù in Galilea rappresenti l’inaugurazione del
    Regno in favore di tutto Israele. Dio non è dunque venuto meno alle promesse fatte al suo
    popolo e gli ha inviato un profeta pieno di sapienza (6,2.4). Per mezzo suo Dio ha fatto
    veramente i segni della salvezza già prefigurati nel periodo dell’esodo e in quello del ritorno
    dall’esilio: raduno del popolo di Dio (gregge e pastore), conferimento della legge
    (l’insegnamento di Gesù), dono della manna, passaggio del mare, guarigione delle malattie e
    delle sofferenze del popolo. Soprattutto Marco ha voluto sottolineare come proprio in questa
    aggregazione del popolo intorno a Gesù si manifesta il tipo di salvezza voluto da Dio, che
    consiste nell’abbattimento di tutte le barriere che separano i suoi figli gli uni dagli altri; tra
    questi fattori disgreganti Gesù indica soprattutto la legge mosaica, la cui pratica era diventata
    un criterio di discriminazione all’interno del popolo.
    La salvezza donata a Israele, proprio perché implica l’eliminazione di tutte le
    discriminazioni, tende a superare la barriera per eccellenza, quella che separa il popolo eletto
    dai gentili e raggiunge necessariamente tutta l’umanità. Ma purtroppo Israele, ancora
    arroccato nei propri privilegi, non è disposto a seguire Gesù su questa strada. Si apre quindi
    una profonda frattura tra il popolo e il suo messia, che appare come il culmine dell’infedeltà al
    suo Dio. Ma proprio questo rifiuto, simboleggiato nel comportamento degli abitanti di
    Nazaret, accelera i tempi e provoca l’invio missionario dei discepoli, aperto ormai a tutta
    l’umanità, e soprattutto spinge Gesù a rivolgersi egli stesso ai gentili.
    L’interesse che, secondo Marco, Gesù stesso ha manifestato durante il suo ministero
    pubblico nei confronti dei gentili implica il superamento del concetto stesso di «popolo di
    Dio» così caro ai suoi connazionali. Se la salvezza è offerta a tutti, non può più esistere un
    popolo eletto (né Israele né la chiesa) a cui i gentili si aggregano; il concetto stesso di alleanza
    viene superato nel senso che in Gesù Dio conferisce ormai a tutti la possibilità di godere la
    comunione con Dio (cfr. 14,24). In questa prospettiva è chiaro che i discepoli hanno ragione
    di esistere solo se annunziano a tutti la venuta del regno, che in modi e tempi diversi deve
    appunto coinvolgere tutta l’umanità. Secondo una terminologia moderna si può dire che la
    teologia di Marco non è né cristocentrica né ecclesiocentrica, ma “regnocentrica”.
    Si spiega allora perché più volte in questa sezione i discepoli stessi sono criticati da Gesù,
    del quale non comprendono le parole e i gesti. Anch’essi come il popolo di Israele sono privi
    di intelletto (7,18), hanno il cuore indurito (6,52; 8,17-18), perché non sanno seguire il
    Maestro su un punto così importante delicato quale l’annunzio universale della salvezza.
    Presentando i discepoli in un modo così impietoso Marco vuole forse criticare non tanto il
    loro atteggiamento prima della morte e risurrezione del Maestro, quanto piuttosto quello della
    comunità a cui è indirizzato il suo vangelo. Essa infatti si è ripiegata su se stessa, sui propri
    problemi e sul suo sviluppo numerico, mettendo in secondo piano l’impegno di annunziare la
    venuta del Regno a tutta l’umanità. La sezione successiva metterà in luce l’opera compiuta da
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    Gesù per guarire insieme ai discepoli anche la comunità che rappresentano. Ma l’evangelista
    sa che si tratta di un’illuminazione parziale e provvisoria, perché nel momento della passione
    tutti i discepoli lo abbandoneranno (14,50)

"Gridatelo dai tetti...."