A colloquio con il francescano padre Paolo Benanti, autore del libro “Tecnologia per l’uomo” in uscita con il numero di Famiglia Cristiana dal 21 ottobre in edicola e in parrocchia: “Occorre uno sviluppo nel rispetto dei biosistemi, che però non accadrà naturalmente, ma solo se l’innovazione avrà a cuore il bene comune”.
Frate francescano del Terzo Ordine Regolare, 48 anni, padre Paolo Benanti è uno dei massimi esperti nella Chiesa degli aspetti etici e bioetici di tematiche di punta e quanto mai attuali: dalla gestione dell’innovazione a quello dell’impatto di internet e del Digital Age sul mondo contemporaneo, dalle biotecnologie e la biosicurezza alle neuroscienze e le neurotecnologie. Alla vigilia della 49^ edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani di Taranto (21-24 ottobre 2021) intitolata “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso” e di fronte alla prospettiva di ingenti investimenti con il PNRR, il tema della tecnologia e del suo uso in chiave di futuro e ambiente è particolarmente interessante.
Padre Paolo, parlando di tecnica e di futuro, se una causa della crisi ambientale può esserci stato con il contributo della tecnologia, che cosa può fare essa per ovviare al futuro?
«Occorre non rimanere in un orizzonte ristretto e, pensando alla rivoluzione industriale, al consumo eccessivo di risorse e all’inquinamento di questi decenni – di cui oggi tanto si parla – vedere solo un problema legato alla tecnologia. Essa è presente fin dagli arbori dell’uomo, siamo in effetti l’unica specie che cambia l’habitat in cui vive usando la tecnica. La medusa, tanto per fare un esempio, e ogni altra specie vivente, non fa altrettanto ma si adatta all’ambiente attraverso successive mutazioni genetiche del DNA, che permettono in questo modo la sua sopravvivenza. Tutto questo lo capiamo meglio se riconosciamo che gli altri esseri viventi hanno tutto quello che serve per vivere, ma l’uomo no. L’uomo presenta un’eccedenza…».
Cosa intende per “eccedenza”?
«Intendo dire che l’uomo vive un “di più” rispetto alla sua costituzione biologica. Tale condizione è quella, per esempio, che ci fa prendere appunti durante una conferenza. La nostra condizione biologica – cioè la nostra memoria – non basta per contenere quanto ascoltiamo e abbiamo quindi bisogno di alcuni artefatti tecnologici, come la penna e il quaderno o un pc, per trattenere, esprimere e trasmettere quanto ascoltato. L’uomo, dunque, non si rapporta alla realtà in maniera solo biologica, ma anche attraverso le mediazioni offerte dagli artefatti tecnologici. La tecnologia è il modo con cui l’uomo trattiene, incanala ed esprime la sua eccedenza rispetto alla sua condizione biologica. È grazie all’artefatto tecnologico se, come specie, siamo diventati un fenomeno globale. Infatti, stando a quanto osservano gli antropologi, la nostra specie si è spostata dall’Africa meridionale, la culla della nostra origine, verso nord, colonizzando così tutto il mondo. Abbiamo raggiunto in questo modo ogni luogo in una maniera unica, dando mostra di quella che è una nostra unicità come specie. Fino a quel momento, infatti, ogni specie biologica abitava in un clima particolarmente adatto ad essa».
La tecnologia è, dunque, un fenomeno antico quanto l’uomo…
«Si, proprio perché questa eccedenza fa parte dell’unica dignità dell’uomo da sempre. La tecnologia, che accompagna l’eccedenza dell’umano rispetto alla sua mera biologia fin dall’inizio, è un’esperienza antica ma è sempre il cuore dell’uomo che ne decide l’utilizzo. La clava, ad esempio, poteva essere utile per aprire le noci di cocco ma anche per uccidere. Ogni utensile può essere utilizzato per il bene o per il male. Tutto passa – ripeto – attraverso il filtro del cuore dell’uomo: è, quindi, fondamentalmente una questione etica».
Cosa dire del sospetto verso la tecnica che alcuni nutrono?
«L’evoluzione tecnologica a servizio del mercato si è spinta a tal punto che per la prima volta ha cambiato la faccia del mondo, con tutti i rischi di sopravvivenza della specie umana di cui sentiamo parlare ogni giorno. L’inquinamento incontrollabile è un grosso tema legato però alla miopia che c’è stata dietro all’utilizzo degli artefatti tecnologici, nel senso di una ricerca smodata di guadagno da parte di molti agenti. Oggi abbiamo a disposizione strumenti digitali a tal punto evoluti, che ci aiutano a vedere con chiarezza l’impatto della tecnologia sull’ambiente e a orientarci bene verso una maggiore sostenibilità, garantendo uno sviluppo nel rispetto dei biosistemi. Questo processo, però, non accadrà naturalmente, ma solo se l’innovazione digitale e tecnologica avrà a cuore il bene dell’uomo, quello che nella dottrina sociale della chiesa chiamiamo “bene comune».
Dunque, innovazione e futuro sostenibile. Ma come?
«Dobbiamo idealmente metterci al posto di chi ha avviato la cosiddetta “rivoluzione industriale” nell’Ottocento. Cosa diremmo noi, che siamo i loro pronipoti, a costoro se potessimo andare indietro nella storia? Cosa consiglieremmo loro per evitare di trovarci al punto in cui siamo in termini di degrado ambientale e sfruttamento sconsiderato delle risorse? Bene, le stesse domande dobbiamo porci noi oggi, che siamo gli autori della rivoluzione digitale attualmente in atto, come se fossimo i nostri pronipoti fra un secolo: cosa fare perché la tecnologia digitale serva veramente per il bene dell’uomo? Quale sana cultura promuovere che sia in grado di orientare la risposta?».
Come è inscrivibile allora un’etica nella tecnologia? Dipende dalle leggi, dall’uso dei singoli uomini? O da cosa?
«Non basta né una legge né tanto meno un mero appello, ma un’azione di tutta la società civile. Si tratta di far partire una vera rivoluzione culturale, la stessa di cui parlano tanto le encicliche “Fratelli tutti” e “Laudato sì”. Non si può, quindi, in generale essere né “tecno-ottimisti” né “tecno-pessimisti”, ma solo “tecno-etici”. Alla base di ogni decisione c’è, infatti, quello che in latino si chiama “manicum”, l’impugnatura che fa da legame tra la mano dell’uomo e lo strumento che usa. Esso è in sé neutro, è la mano dell’uomo, che agisce per il bene o per il male, a determinare l’uso dello strumento. L’educazione, in questo senso, è fondamentale».
Qui c’entra anche la fede…
«Sì, decisamente. La fede è chiamata a dialogare con le culture umanistiche e con quelle tecniche perché l’innovazione digitale oggi si trasformi in vero sviluppo per il bene dell’uomo. I famosi algoritmi e i “big data”, cioè le grandi masse di dati da cui si possono estrapolare informazioni o risposte a singoli macro problemi, sono strumenti eccezionali sia per ridurre, ad esempio, gli sprechi di energia, necessari per la salvezza del pianeta e il bene dell’uomo, sia, al contrario, per incrementare al massimo i guadagni delle industrie elettriche. Dipende – ripeto – sempre dall’uso della mano dell’uomo».
La Chiesa quale contributo può dare in questo campo?
«Lo sta facendo ad esempio attraverso il “Call for an AI Ethics”, un documento sviluppato dalla Pontificia Accademia per la Vita, Microsoft, IBM, FAO e Ministero dell’Innovazione Italiano per supportare un approccio etico all’Intelligenza artificiale e promuovere un senso di sempre maggiore responsabilità tra organizzazioni non governative, governi, istituzioni e aziende del settore privato per creare un futuro in cui l’innovazione digitale e il progresso tecnologico siano al servizio del genio e della creatività umana, e quindi al servizio dell’uomo, e non della loro graduale sostituzione, con tutti i rischi che questo comporta
Nella catechesi di questa settimana il pontefice ricorda che «non bisogna piegare il brano biblico per sostenere i nostri pensieri e la nostra filosofia, ripetere a pappagallo i versetti, ma entrare in dialogo con il Signore e conformarci al suo volere»
«La Parola di Dio va al cuore», ma bisogna ascoltare con «obbedienza e creatività». Papa Francesco dedica la catechesi alla preghiera che si può fare partendo da un brano della Bibbia. E avverte: non bisogna piegare il testo a quello che noi pensiamo. «Le parole della Sacra Scrittura non sono state scritte per restare imprigionate sul papiro, sulla pergamena o sulla carta, ma per essere accolte da una persona che prega, facendole germogliare nel proprio cuore», spiega il Papa. La Bibbia non si può leggere come un romanzo ma in dialogo costante con il Signore. Perché «quel versetto della Bibbia è stato scritto anche per me, secoli e secoli fa, per portarmi una parola di Dio. A tutti i credenti capita questa esperienza: un passo della Scrittura, ascoltato già tante volte, un giorno improvvisamente mi parla e illumina una situazione che sto vivendo». Ma quel giorno bisogna essere all’appuntamento. Perché Dio passa, passa sempre. Francesco ricorda Sant’Agostino che parlava del «timore del Signore quando passa». Il timore di non riuscire ad ascoltarlo, di non essere lì. «all’appuntamento con quella Parola». Dio, sottolinea il Pontefice, passa tutti i giorni «e getta un seme nel terreno della nostra vita. Non sappiamo se oggi troverà un suolo arido, dei rovi, oppure una terra buona, che farà crescere quel germoglio». Questo «dipende da noi, dalla nostra preghiera, dal cuore aperto con cui ci accostiamo alle Scritture perché diventino per noi Parola vivente di Dio».
Francesco ricorda che i custodi, i «tabernacoli» della Scrittura siamo noi, ma bisogna «accostarsi alla Bibbia senza secondi fini, senza strumentalizzarla. Il credente non cerca nelle Sacre Scritture l’appoggio per la propria visione filosofica e morale», al contrario, «spera in un incontro; sa che esse sono state scritte nello Spirito Santo, e che pertanto in quello stesso Spirito vanno accolte e comprese, perché l’incontro si realizzi». Il Papa confessa che prova «fastidio quando sento cristiani che recitano versetti della Bibbia come pappagalli. Ma tu ti sei incontrato con il Signore? Con quel versetto? Non è questione di memoria, ma di memoria del cuore e quella Parola, quel versetto ti porta all’incontro con il Signore».
E allora, con il metodo della lectio divina, dobbiamo leggere «le Scritture perché esse “leggano noi”. Ed è una grazia potersi riconoscere in questo o quel personaggio, in questa o quella situazione. La Bibbia non è scritta per un’umanità generica, ma per noi, per me, per te, per uomini e donne in carne e ossa, ma uomini e donne che hanno nome e cognome, come io, come te». La lectio, nata in ambienti monastici «ma ormai praticato anche dai cristiani che frequentano le parrocchie», ci chiede innanzitutto di leggere il brano con attenzione, «direi di più: leggere con “obbedienza” al testo, per comprendere ciò che significa in sé stesso». Solo dopo si « si entra in dialogo con la Scrittura, così che quelle parole diventino motivo di meditazione e di orazione: sempre rimanendo aderente al testo». In questa fase «comincio a interrogarmi su che cosa “dice a me”. È un passaggio delicato: non bisogna scivolare in interpretazioni soggettivistiche ma inserirsi nel solco vivente della Tradizione, che unisce ciascuno di noi alla Sacra Scrittura». E, infine, la contemplazione: «Qui le parole e i pensieri lasciano il posto all’amore, come tra innamorati ai quali a volte basta guardarsi in silenzio. Il testo biblico rimane, ma come uno specchio, come un’icona da contemplare. Così si ha il dialogo», spiega Francesco. Aggiungendo: «Attraverso la preghiera, la Parola di Dio viene ad abitare in noi e noi abitiamo in essa. La Parola ispira buoni propositi e sostiene l’azione; ci dà forza, ci dà serenità, e anche quando ci mette in crisi ci dà pace. Nelle giornate “storte” e confuse, assicura al cuore un nucleo di fiducia e di amore che lo protegge dagli attacchi del maligno».
Ed è così che la Parola di fa carne al punto che, dice il Papa, ricordando qualche antico testo, «i cristiani si identificano talmente con la Parola che, se anche bruciassero tutte le Bibbie del mondo, se ne potrebbe ancora salvare il “calco” attraverso l’impronta che ha lasciato nella vita dei santi. Una bella espressione questa».
La Parola di Dio non ci lascia immobili, non ci lascia fermi. «La vita cristiana è opera, nello stesso tempo, di obbedienza e di creatività», insiste il Papa. «Il buon cristiano deve essere obbediente perché ascolta la Parola di Dio, ma creativo perché ha lo Spirito Santo che lo spinge avanti». Ricorda le parole di Gesù «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche», perché le Scritture sono un tesoro inesauribile. Il Signore ci conceda a tutti noi di attingervi sempre più, mediante la preghiera».
Oggi parliamo di un fenomeno “culturale” che sta prendendo sempre più piede anche nel nostro Paese, riscuotendo il favore dei giovani e non soltanto. Parliamo di Halloween, per noi cristiani.
Molti giovani la trovano una festa entusiasmante, perché si possono anticipare le burle e gli scherzi del carnevale e in più, ridendo, esorcizzare le proprie paure rispetto all’aldilà. Non vogliamo rovinarti la festa, ma desideriamo informarti sulle cose che Halloween rappresenta e sulle sue origini.
Le origini di Halloween
Facciamo un salto indietro nel tempo per considerare quando e dove ha avuto origine questa festa.
Il nome “Halloween” deriva dall’inglese “All Hallowed Eve” (vigilia di tutti i santi), celebrazione stabilita dalla religione cattolica nell’anno 840 d.C. e nota anche come festa di Ognissanti. Per comprendere come questa festa sia nata e come sia entrata a far parte del cosiddetto mondo cristiano (ma a cui di cristiano, da lungo tempo, è rimasto solamente il nome), occorre fare riferimento al popolo dei celti e al loro modo di celebrare l’arrivo della stagione invernale.
Prima ancora, però, sarà bene fare un cenno proprio alla festa di Ognissanti che, dall’esterno, ha l’aria di essere una ricorrenza cristiana e perciò degna di tutto il rispetto dei credenti. Questa festa fu istituita formalmente nell’anno 840 da papa Gregorio IV, con il fine dichiarato di ricordare tutti i santi che, con una vita di onestà e bontà, si sono “meritati” il paradiso.
La chiesa cattolica insegna, inoltre, che nel giorno di Ognissanti i fedeli pregano per i morti e i morti pregano per i fedeli. La Bibbia, invece, insegna tutt’altro e cioè che si deve pregare da vivi e soltanto per i vivi. La morte, infatti, annulla la possibilità di rivedere la propria posizione davanti a Dio. È in vita che si decide da che parte stare!
Tornando ai celti, l’arrivo dell’inverno era accolto con una festa in cui si svolgevano pratiche occulte: Samhain. Secondo la tradizione celtica, infatti, quando l’estate finiva e aveva inizio l’inverno, il velo che divideva la terra dei vivi da quella dei morti si assottigliava e tanto i vivi quanto i morti potevano accedere ai mondi dell’uno e dell’altro.
Quando i romani cristianizzati raggiunsero quelle terre, probabilmente scambiarono la festa di Samhain con quella di Ognissanti, anche se non è difficile credere che le due furono riunite di proposito in una festa sola, quella di Halloween, così da non far torto a nessuno. La festa di Ognissanti, che fino ad allora era stata celebrata a maggio, fu anticipata al primo novembre, giorno in cui i celti festeggiavano il Samhain[1].
Seppure ci siano molti sforzi nel catalogare Halloween come una festa cristiana, si tratta di un’enorme forzatura creata dalle istituzioni religiose.
I simboli di Halloween
Avvicinandosi il 31 ottobre, fruttivendoli e commercianti riforniscono i loro banchi di zucche destinate alla vendita. La zucca intagliata a forma di faccia, infatti, è uno dei principali simboli di questa macabra festa.
Secondo la leggenda irlandese, Stingy Jack, un buono a nulla violento e ubriacone, una vigilia di Ognissanti anziché andare in chiesa a pregare, si prese una sbronza. All’improvviso gli comparve il diavolo, che provò a portarsi a casa l’anima di Jack. Gli propose di esprimere un desiderio prima di finire tra le fiamme dell’inferno e Jack rispose che avrebbe voluto bere un ultimo bicchierino. Dato che non aveva un soldo, però, chiese al diavolo di tramutarsi in una monetina da 6 pence. Come il diavolo acconsentì, Jack lo infilò nel suo portafoglio, che aveva una grande croce in filigrana d’argento ricamata sopra.
Ovviamente il diavolo rimase intrappolato a causa del simbolo sacro ricamato sul portafoglio. Dopo una lunga ed estenuante discussione, i due stabilirono un patto, quello di rimandare di un anno esatto la morte di Stingy Jack in cambio della libertà del diavolo. Esattamente la sera della vigilia di Ognissanti dell’anno dopo, il diavolo si presentò all’appuntamento. Jack si trovava nel suo orto, sbronzo come al solito e seduto sotto un albero di mele. Il diavolo gli chiese ancora quale fosse il suo ultimo desiderio prima di morire. E Jack rispose: “Vorrei una delle mie mele, ma sono troppo ubriaco per arrampicarmi sull’albero: potresti salirci tu?”.
Il demonio accettò, ma appena fu in cima Jack – che era sbronzo ma decisamente furbo – velocissimo tirò fuori un coltello e incise una croce sul legno del tronco: in tal modo il diavolo non poteva più scendere. Avvenne così un’altra interminabile contrattazione; il diavolo propose a Jack di rimandare la sua morte di dieci anni, ma Jack era troppo furbo e il diavolo decise di dargliela vinta e lasciarlo in pace. Ma un anno esatto dopo, mentre se ne stava nel solito orto a cavar rape anziché in chiesa, Jack morì. Ancora con una rapa in mano arrivò in paradiso; bussò per entrare ma le porte per lui restarono chiuse.
Stingy Jack allora, sempre con la rapa in mano, scese all’inferno; ma il diavolo quando lo vide ringhiò: “Cosa ci fai qui? Mi hai imbrogliato due volte, non sopporto proprio l’idea di averti tra i piedi per l’eternità. Sparisci!”, e gli lanciò dietro un pezzo di brace incandescente. L’astuto Jack, allora, fece un buco nella rapa, ci mise la brace, ne ricavò una lanterna e si mise a camminare nell’oscurità alla ricerca di un posto dove fermarsi per sempre.
Gli irlandesi, per ricordare Jack, la notte di Ognissanti fabbricavano davvero piccole lanterne con le rape, ma quando iniziarono a emigrare in America, non avendo rape a disposizione ripiegarono sulle zucche, facilmente reperibili e decisamente più facili da intagliare.
La leggenda di Jack rende chiaro il fatto che Halloween attinga a varie espressioni di superstizione per esorcizzare la paura della morte.
Il mondo cerca degli espedienti alle proprie paure ed è chiaro che anche chi ci scherza su, in realtà, trema al pensiero della morte. Siamo saggi, sfruttiamo questa occasione per diffondere il messaggio dell’Evangelo.
Neppure i bambini fanno eccezione. Trickortreat? – Dolcetto o scherzetto? È così che si divertono nei giorni di Halloween, minacciando di fare danni a chi non dà loro nessun dolcetto. Con indiscussa innocenza i bambini si divertono a mascherarsi da diavoli, con il beneplacito dei genitori. Questi, convinti di far loro del bene esorcizzando le loro paure, li abituano invece sin da piccoli a familiarizzare con le tenebre e a considerare con leggerezza l’anima e la sua immortalità.
Anche la scuola si fa promotrice di attività legate alla festa di Halloween, sostenendo il diffondersi di idee spiritualmente malsane e incoraggiando gli alunni a divertirsi con ciò che, in realtà, l’uomo teme fortemente.
Nelle feste di Halloween che coinvolgono ragazzi e adolescenti, spesso si praticano forme di divinazione e di magia, anche soltanto per gioco, illudendosi di avere il potere sulle forze della malvagità.
La Bibbia e Halloween
Già per questi motivi potremmo dire un sonoro “No grazie!” ad Halloween, ma in quanto cristiani vorremmo fare qualche ulteriore riflessione basata sulla Bibbia.
Nella maggior parte dei casi, chi festeggia Halloween non si rende conto di familiarizzare con il mondo dell’occulto. La Bibbia però ci incoraggia: “Non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre; piuttosto denunciatele” (Efesini 5:11).
Non vi rivolgete agli spiriti,né agli indovini; non li consultate, per non contaminarvi a causa loro. Io sono il Signore vostro Dio
Levitico 19:31
Come figli di Dio tocca a noi promuovere, invece, tutti quei valori morali e spirituali che formano ed edificano.
Fidiamo e ubbidiamo al consiglio della Parola di Dio (Numeri 23:23; II Re 23:24);
Distinguiamoci come luce nelle tenebre (Efesini 5:11; Filippesi 2:15; Malachia 3:18);
Testimoniamo di Cristo con le nostre parole e la nostra condotta (Isaia 52:11; II Corinzi 6:14);
Asteniamoci dal frequentare situazioni e ambienti che possono rappresentare rischi (I Corinzi 15:33; Efesini 5:7, 8);
Allontaniamoci da atteggiamenti violenti e immorali (Efesini 4:19);
Nessuno ci costringe a festeggiare Halloween, e noi non possiamo sicuramente costringere chi non riconosce l’autorità di Dio sulla propria vita a non farlo. Ricordiamoci della nostra condizione prima di conoscere il Signore: eravamo anche noi spaventati all’idea di morire ma in tante occasioni siamo stati sprezzanti e spesso abbiamo rifiutato di avvicinarci a Dio.
Possiamo ringraziarLo, però, per chi ci ha parlato di Lui con amore e facendosi scivolare addosso le nostre parole offensive o di biasimo, e noi possiamo fare lo stesso.
… santificate Cristo come Signore nei vostri cuori, sempre pronti a rispondere a vostra difesa a chiunque vi domanda ragione della speranza che è in voi, ma con dolcezza e rispetto, avendo una buona coscienza
Prendendo spunto dalla figura del Poverello di Assisi, che ordini, congregazioni e famiglie francescane celebreranno con una serie di iniziative dal 2023 al 2026, ad 800 anni dalla morte, Francesco lo indica come esempio di “uomo della pace e della povertà, che ama e celebra il creato”. Ed invita a mettersi alla sua scuola: “Nella sua vita evangelica la via per seguire le orme di Gesù: questo significa ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie”
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Ciò di cui tutti hanno bisogno è giustizia, ma anche fiducia. Solo la fede restituisce a un mondo chiuso e individualista il soffio dello Spirito. Con questo supplemento di respiro le grandi sfide presenti, come la pace, la cura della casa comune e un nuovo modello di sviluppo potranno essere affrontate, senza arrendersi ai dati di fatto che sembrano insuperabili.
Il Papa lo sottolinea parlando al Coordinamento ecclesiale per l’VIII Centenario Francescano, ricevuto in udienza nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Costituito circa un anno fa a Greccio, dalle diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, di Rieti e di Arezzo, con rappresentanti di tutte le famiglie francescane del primo e secondo ordine, dell’ordine francescano secolare e delle congregazioni francescane, l’organismo sta curando l’organizzazione di una serie di eventi, dal 2023 al 2026, per celebrare gli 800 anni dalla morte di San Francesco d’Assisi. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)
Proprio guardando al patrono d’Italia, il Pontefice evidenzia che il centenario deve tendere a “declinare insieme l’imitazione di Cristo e l’amore per i poveri”. Perché “Francesco ha vissuto l’imitazione di Cristo povero e l’amore per i poveri in modo inscindibile, come le due facce di una stessa medaglia”. I frutti delle celebrazioni matureranno “anche grazie all’atmosfera che si sprigiona dai diversi ‘luoghi’ francescani”, fa notare il Pontefice, perché ciascuno di questi “possiede un carattere peculiare, un dono fecondo che contribuisce a rinnovare il volto della Chiesa”.
La fede sorgente dell’esperienza di San Francesco
Ai membri del Coordinamento ecclesiale del Centenario francescano, che darà vita a un pellegrinaggio dalla valle reatina, passando per La Verna, “fino ad Assisi, dove tutto ha avuto inizio”, il Papa ha confidato di essere stato consapevole, scegliendo di chiamarsi Francesco “di far riferimento a un santo tanto popolare, ma anche tanto incompreso”.
Francesco è l’uomo della pace, l’uomo della povertà e l’uomo che ama e celebra il creato; ma qual è la radice di tutto questo, qual è la fonte? Gesù Cristo; innamorato di Gesù Cristo che per seguirlo non ha paura di fare il ridicolo ma va avanti. La sorgente di tutta la sua esperienza è la fede. Francesco la riceve in dono davanti al Crocifisso, e il Signore Crocifisso e Risorto gli svela il senso della vita e della sofferenza umana.
Il Papa in preghiera alla tomba di San Francesco nel 2020
Le tappe dell’VIII Centenario francescano
L’itinerario pensato per l’ottavo Centenario Francescano, che si protrarrà dal 2023 al 2026, avrà come prima tappa Fonte Colombo, nei pressi di Rieti, perché qui Francesco scrisse la regola, poi approvata da Papa Onorio III nel 1223, ma anche per ricordare il luogo del primo presepe della storia, aggiunge Papa Francesco.
Si tratta di un invito potente a riscoprire nell’incarnazione di Gesù Cristo la “via” di Dio. Tale scelta fondamentale dice che l’uomo è la “via” di Dio e, di conseguenza, l’unica “via” della Chiesa.
Il Papa saluta fra Massimo Fusarelli, ministro generale dei frati minori
Altra tappa sarà La Verna, luogo in cui, nel 1224, Francesco ricevette le stigmate. Il luogo, spiega il Papa, “rappresenta ‘l’ultimo sigillo’ – come dice Dante (Paradiso, XI, 107) – che rende il santo assimilato al Cristo crocifisso e capace di penetrare dentro la vicenda umana, radicalmente segnata dal dolore e dalla sofferenza”. Infine, nel 2026 si giungerà ad Assisi per ricordare il Transito di Francesco, nel 1226, alla Porziuncola: evento che svela l’essenziale del cristianesimo, chiarisce il Pontefice, ossia “la speranza della vita eterna”. E non a caso, osserva Francesco, la tomba del Santo, collocata nella Basilica Inferiore, è divenuta nel tempo “la calamita, il cuore pulsante di Assisi”.
La Basilica di San Francesco ad Assisi
Ascoltare, camminare, annunciare
Ma San Francesco “resta comunque un mistero”, rimarca il Papa. Per comprenderlo occorre mettersi alla sua scuola, “ritrovando nella sua vita evangelica la via per seguire le orme di Gesù”. E per fare questo bisogna “ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie”, indica il Pontefice. L’ascolto è quello di Francesco che davanti al Crocifisso, sente la voce di Gesù dirgli: “Va’ e ripara la mia casa”. Il giovane “risponde con prontezza e generosità a questa chiamata del Signore”, racconta il Papa, ma piano piano, si rende conto che non si trattava “di riparare un edificio fatto di pietre, ma di dare il suo contributo per la vita della Chiesa”, “di mettersi a servizio della Chiesa, amandola e lavorando perché in essa si riflettesse sempre più il Volto di Cristo”. Quanto al camminare “Francesco è stato un viandante mai fermo” evidenzia il Pontefice “che ha attraversato a piedi innumerevoli borghi e villaggi d’Italia, non facendo mancare la sua vicinanza alla gente e azzerando la distanza tra la Chiesa e il popolo”.
Questa medesima capacità di “andare incontro”, piuttosto che di “attendere al varco”, è lo stile di una comunità cristiana che sente l’urgenza di farsi prossima piuttosto che ripiegarsi su sé stessa. Questo ci insegna che chi segue san Francesco deve imparare a essere fermo e camminante: fermo nella contemplazione, nella preghiera e poi andare avanti, camminare nella testimonianza, testimonianza di Cristo.
E poi c’è l’annuncio, quello che il Papa chiede continuamente di portare nei luoghi più lontani o trascurati: le periferie.
Le celebrazioni francescane e il Giubileo del 2025
Infine,concludendo il suo discorso, Papa Francesco incoraggia il Coordinamento “a vivere in pienezza” i tre anni di celebrazioni per l’VIII Centenario francescano, auspicando che “tale percorso spirituale e culturale possa coniugarsi con il Giubileo del 2025, nella convinzione che San Francesco d’Assisi spinge ancora oggi la Chiesa a vivere la sua fedeltà a Cristo e la sua missione nel nostro tempo”.