108 Il messaggio fondamentale della Sacra Scrittura annuncia che la persona umana è creatura di Dio (cfr. Sal 139,14-18) e individua l’elemento che la caratterizza e contraddistingue nel suo essere ad immagine di Dio: « Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (Gen 1,27). Dio pone la creatura umana al centro e al vertice del creato: all’uomo (in ebraico « adam »), plasmato con la terra (« adamah »), Dio soffia nelle narici l’alito della vita (cfr. Gen 2,7). Pertanto, « essendo ad immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno. È capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone; è chiamato, per grazia, ad un’alleanza con il suo Creatore, a dargli una risposta di fede e di amore che nessun altro può dare in sua sostituzione ».204
109 La somiglianza con Dio mette in luce che l’essenza e l’esistenza dell’uomo sono costitutivamente relazionate a Dio nel modo più profondo.205 È una relazione che esiste per se stessa, non arriva, quindi, in un secondo tempo e non si aggiunge dall’esterno. Tutta la vita dell’uomo è una domanda e una ricerca di Dio. Questa relazione con Dio può essere ignorata oppure dimenticata o rimossa, ma non può mai essere eliminata. Fra tutte le creature del mondo visibile, infatti, soltanto l’uomo è « “capace” di Dio » (« homo est Dei capax »).206 La persona umana è un essere personale creato da Dio per la relazione con Lui, che soltanto nella relazione può vivere ed esprimersi e che tende naturalmente a Lui.207
110 La relazione tra Dio e l’uomo si riflette nella dimensione relazionale e sociale della natura umana. L’uomo, infatti, non è un essere solitario, bensì « per sua intima natura è un essere sociale, e non può vivere né esplicare le sue doti senza relazioni con gli altri ».208 A questo riguardo risulta significativo il fatto che Dio ha creato l’essere umano come uomo e donna209 (cfr. Gen 1,27): « Quanto mai eloquente è l’insoddisfazione di cui è preda la vita dell’uomo nell’Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cfr. Gen 2,20). Solo l’apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cfr. Gen 2,23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l’esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l’esistenza umana. Nell’altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona ».210
111 L’uomo e la donna hanno la stessa dignità e sono di eguale valore,211 non solo perché ambedue, nella loro diversità, sono immagine di Dio, ma ancor più profondamente perché è immagine di Dio il dinamismo di reciprocità che anima il noi della coppia umana.212 Nel rapporto di comunione reciproca, uomo e donna realizzano profondamente se stessi, ritrovandosi come persone attraverso il dono sincero di sé.213 Il loro patto di unione è presentato nella Sacra Scrittura come un’immagine del Patto di Dio con gli uomini (cfr. Os 1-3; Is 54; Ef 5,21-33) e, al tempo stesso, come un servizio alla vita.214 La coppia umana può partecipare, infatti, alla creatività di Dio: « Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” » (Gen 1,28).
112 L’uomo e la donna sono in relazione con gli altri innanzi tutto come affidatari della loro vita: 215 « Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello » (Gen 9,5), ribadisce Dio a Noè dopo il diluvio. In questa prospettiva, la relazione con Dio esige che si consideri la vita dell’uomo sacra e inviolabile.216 Il quinto comandamento: « Non uccidere! » (Es 20,13; Dt 5,17) ha valore perché Dio solo è Signore della vita e della morte.217 Il rispetto dovuto all’inviolabilità e all’integrità della vita fisica ha il suo vertice nel comandamento positivo: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (Lv 19,18), con cui Gesù Cristo obbliga a farsi carico del prossimo (cfr. Mt 22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27-28).
113 Con questa particolare vocazione alla vita, l’uomo e la donna si trovano di fronte anche a tutte le altre creature. Essi possono e devono sottoporle al loro servizio e goderne, ma la loro signoria sul mondo richiede l’esercizio della responsabilità, non è una libertà di sfruttamento arbitrario ed egoistico. Tutta la creazione, infatti, ha il valore di « cosa buona » (cfr. Gen 1, 4.10.12.18.21.25) davanti allo sguardo di Dio, che ne è l’autore. L’uomo deve scoprirne e rispettarne il valore: è questa una sfida meravigliosa alla sua intelligenza, la quale lo deve innalzare come un’ala 218 verso la contemplazione della verità di tutte le creature, ossia di ciò che Dio vede di buono in esse. Il Libro della Genesi insegna, infatti, che il dominio dell’uomo sul mondo consiste nel dare un nome alle cose (cfr. Gen 2,19-20): con la denominazione l’uomo deve riconoscere le cose per quello che sono e stabilire verso ciascuna di esse un rapporto di responsabilità.219
114 L’uomo è in relazione anche con se stesso e può riflettere su se stesso. La Sacra Scrittura parla a questo riguardo del cuore dell’uomo. Il cuore designa appunto l’interiorità spirituale dell’uomo, ossia quanto lo distingue da ogni altra creatura: Dio « ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine » (Qo 3,11). Il cuore indica, in definitiva, le facoltà spirituali proprie dell’uomo, sue prerogative in quanto creato ad immagine del suo Creatore: la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera.220 Quando ascolta l’aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la parola di verità espressa da sant’Agostino: « Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te ».221
II. LA PERSONA UMANA « IMAGO DEI »
PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
A GIOVANNI PAOLO II MAESTRO DI DOTTRINA SOCIALE TESTIMONE EVANGELICO DI GIUSTIZIA E DI PACE
La Domenica in albis è oggi più comunemente conosciuta come festa della misericordia, e cade nella seconda domenica di Pasqua, ovvero la domenica seguente a quella in cui si celebra tale festività. Nell’anno liturgico della Chiesa cattolica si tratta di un giorno dedicato alla devozione della divina Misericordia. È convinzione dei credenti che ricevere la Comunione durante questa giornata serva a liberarsi di tutte le pene. Nel messale del 1962, la giornata dedicata alla festa della misericordia viene appunto chiamata Domenica in albis, mentre in seguito al Concilio Vaticano II e la conseguente riforma liturgica tale giorno viene chiamato “seconda domenica di Pasqua” oppure “domenica dell’ottava di Pasqua”.
Jubilate omnis terra, Jubilate Domino nostro, Alleluia, alleluia, Iubilate Deo, Exsultate in lætitia, Jubilate Deo. Laudate eum in excelsis, Laudate Dominum nostrum Omnes angeli et virtutes, Laudate eum Quoniam magnus Rex est Dominus Super omnem terram. Laudate pueri Dominum, Laudate nomen Domini Benedictus nomen eius, Benedictus in sæcula, Super cælos gloria eius, Laudate omnes gentes. Laudate eum omnes angeli, Laudate omnes virtutes, In æternum laudate eum Omnes gentes et populi, Quia ipse mandavit Et omnia creata sunt. …jubilate Deo omnis terra.
Il nome di Domenica in Albis (vestibus depostis) è legato al rito del Battesimo
Tradotta letteralmente, la locuzione latina in albis (vestibus) sta a significare bianche (vesti). Agli albori della Chiesa, il battesimo era infatti impartito durante la Pasqua, di notte, e per l’occasione i battezzandi vestivano con una tunica bianca, che indossavano anche peri l resto della successiva settimana, fino (appunto) alla domenica dopo Pasqua. Da cui il modo di dire latino “in albis depositis o deponendis” ovvero “domenica in cui si ripongono le vesti bianche”, che ha portato tale giorno ad essere definito Domenica in albis.
Durante questi giorni i nuovi battezzati, con la loro veste bianca, partecipavano alle cosiddette “catechesi mistagogiche” (o “battesimali”) e venivano così gradualmente introdotti a fare esperienza del Signore nella comunità cristiana. Scriveva S. Giovanni Crisostomo ai neobattezzati: “È infatti un vero matrimonio spirituale ciò che si compie qui. Deducilo dal fatto che, come nelle nozze umane le feste durano sette giorni e si veste l’abito della festa, così anche noi per altrettanti giorni vi prolunghiamo questa festa spirituale, allestendovi la mistica mensa colma di innumerevoli beni. Ma che dico, sette giorni? Queste feste spirituali continueranno per sempre, se voi, restando sobri e vigilanti, conserverete immacolata e smagliante la veste nuziale del battesimo”.
Alla catechesi, nei riti di iniziazione cristiana antica, era così dedicata tutta la settimana che segue la Pasqua; il vescovo sentiva infatti la necessità di accompagnare i neofiti nei loro primi passi e condurli, attraverso le diverse celebrazioni, oltre la soglia del mistero cristiano.
Questa domenica è stata proclamata Festa della Divina Misericordia da Giovanni Paolo II nel 2000, anno giubilare
Il Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, riformato dopo il concilio Vaticano II, ha voluto recuperare l’antica tradizione della “mistagogia” e ne sottolinea il significato: “Dopo il conferimento dei tre sacramenti di iniziazione, Battesimo, Confermazione, Eucaristia, la comunità insieme con i neofiti prosegue il suo cammino nella meditazione del Vangelo, nella partecipazione all’Eucaristia e nell’esercizio della carità, cogliendo sempre meglio la profondità del mistero pasquale e traducendolo sempre più nella pratica della vita (Rica, n. 37).
Il culto della Divina Misericordia è legato alla figura di Santa Faustina Kowalska
La Chiesa ortodossa ha preferito a questo il nome di “domenica di San Tommaso”, dalla lettura del brano evangelico (Gv 20,26-29) che riporta l’incredulità di San Tommaso, come avviene anche nella liturgia romana.
L’incredulità di san Tommaso. Domenica in Albis Depositis . « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Solitamente questo desiderio di Tommaso è visto come una mancanza di fede. In realtà Tommaso ci indica la strada della fede. Il segno dei chiodi e il costato aperto indicano il Crocifisso. Dobbiamo dire: «Il Crocifisso è risorto», ma anche: «Il Risorto rimane il Crocifisso», perché è con l’amore crocifisso che Gesù continua la sua opera di salvezza. Gesù risorto mostra il suo cuore, cioè il suo amore misericordioso che è salvezza per tutti.
La prima domenica dopo Pasqua (dominica de Thomas, Domenica in albis, Κυριακή τοῦ Ἀντίπασχα ἤτοι ἡ ψηλάφησις τοῦ ἁγίου Ἀποστόλου Θωμᾶ) ha una lettura dedicata principalmente alla memoria delle apparizioni di Cristo dopo la Risurrezione agli Apostoli, compreso Tommaso. In ricordo di questo evento tutta la settimana dopo Pasqua, così come il sesto giorno dopo la Resurrezione (la prima domenica dopo Pasqua), nella chiesa la tradizione è considerata dedicata all’apostolo Tommaso.
La liturgia della domenica di San Tommaso rafforza la fede dei credenti, esclamando con San Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” La Domenica di San Tommaso ha questo nome nella Chiesa orientale perché si legge il brano dal Vangelo di San Giovanni in cui si parla sull’incredulità di San Tommaso: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e con loro questa volta c’era anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, e si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!»” La festa era già registrata nei “Decreti Apostolici” dell’Antiochia, intorno al 380, dove la racconto sulla sua istituzione si conduce dal nome dell’apostolo Tommaso stesso (ἑορτὴ τιμία αὐτὴ ἡ ὀδόη, ἐν ᾗ Δυσπιστοῦντα ἐμὲ θωμᾶν ἐπὶ τῇ ἀναστά ἐππ ἐπληροφ è la festa venerata nell’ottavo giorno, in cui io, Tommaso, che non credevo, mi riempii di [fede] nella risurrezione).
Jubilate Deo, cantate Domino! Jubilate Deo, cantate Domino! Solo l’uomo vivente la gloria ti dà: solo chi ti serve vivente in te sarà.
Come cantano i cieli la tua santità, sulla terra inneggi l’intera umanità.
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. Giovanni 20, 19-31
Idea Progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
E’ risorto: il capo santo più non posa nel sudario è risorto: dall’un canto dell’ avello solitario sta il coperchio rovesciato: come un forte inebbriato , il Signor si risvegliò Era l’alba; e molli il viso Maddalena e l’altre donne fean lamento in su l’Ucciso; ecco tutta di Sionne si commosse la pendice e la scolta insultatrice di spavento tramortì Un estranio giovinetto si posò sul monumento: era folgore l’aspetto era neve il vestimento: alla mesta che ‘l richiese dié risposta quel cortese: è risorto; non è qui.
Poesia di Pasqua – di Alessandro Manzoni – Resurrezione
Oggi è la Pasqua, la festa stabilita da Dio per celebrare la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Però la meraviglia della Pasqua non è solamente la resurrezione in sé, per quanto è qualcosa di strepitoso, ma il fatto che Gesù Cristo è risorto come Signore e Salvatore per noi! Celebriamo la Pasqua di Risurrezione del Signore, oggi la fede nella speranza introdotta da Gesù nella storia trova dimora nel vuoto di un sepolcro: la quiete dopo la tempesta.
Appena dopo la morte di Gesù, ci fu un terremoto, le tombe di alcuni santi si aprirono e quei santi furono resuscitati, apparvero a tanti in Gerusalemme. (Matt 27:52) Queste persone erano la primizia della resurrezione che avverrà alla fine del mondo, di cui anche noi faremo parte se siamo salvati in Cristo.
Nel vangelo di Marco 15 si legge come il centurione che stava vicino alla croce riconobbe che Gesù era il figlio di Dio, nonostante egli avesse ricevuto molto meno rivelazione di quanta ne abbiamo ricevuta noi. L’evidenza per la divinità di Gesù è chiara. Oggi non c’è alcuna scusa per non credere in Gesù Cristo, però non basta solo credere intellettualmente, vogliamo camminare per fede giorno per giorno. Infatti, SAPERE le verità di Cristo non ci trasforma, è quando viviamo pensando alle verità di Dio che la nostra vita viene trasformata.
Appena dopo la morte di Gesù, Giuseppe d’Arimatea andò da Pilato per chiedergli il corpo di Gesù. Egli faceva parte del sinedrio e molto probabilmente questo atto gli costò la sua carriera come membro del sinedrio. Anche oggi, seguire veramente Gesù vuol dire perdere o abbandonare cose che prima erano importanti per noi. Però, seguire veramente Gesù vuol dire anche trovare in Gesù il nostro vero tesoro.
Per il cristianesimo, la Pasqua è la solennità delle solennità. La festa delle feste per il mondo cristiano. La festa più grande per il cristiano. La Pasqua è il giorno della gioia, del sollievo, del gaudio che sopraggiunge, dopo una fase di dolore e di mestizia. È la dimostrazione reale della divinità di Cristo. È una forza, una energia d’amore immessa, come lievito nella vita dell’uomo o come energia incredibile, che si espande a livelli concentrici fino all’infinito cristico, alimentando e sorreggendo la speranza che anche l’uomo risorgerà, perché le membra seguono la sorte del capo, dal momento che hanno la stessa natura umana (Eb 2, 11). La Pasqua è la festa solenne per eccellenza; è l’alleluia speciale dell’uomo; è il grido di gioia dell’umanità intera. Il motivo: è il “giorno di Cristo Signore”, Creatore Redentore e Glorificatore di tutto ciò che esiste ed è salvabile; è il giorno della Gloria di Cristo, vero Dio e vero Uomo. È contemporaneamente la Pasqua del Signore e anche “nostra Pasqua” presente e futura. Mistero dei misteri!
Veglia Pasquale Per antichissima tradizione questa è “la notte di veglia in onore dei Signore” (Es 12, 42), giustamente definita “la veglia madre di tutte le veglie” (Agostino, Discorso 219). In questa notte il Signore “è passato” per salvare e liberare il suo popolo oppresso dalla schiavitù; in questa notte Cristo “è passato” alla vita vincendo la grande nemica dell’uomo, la morte; questa notte è la celebrazione-memoriale del “passaggio” dell’uomo in Dio attraverso il battesimo, la confermazione e l’eucaristia. Vegliare è un atteggiamento permanente della Chiesa, che, pur consapevole della presenza viva del suo Signore, ne attende la venuta definitiva, quando la Pasqua si compirà nelle nozze eterne con lo Sposo e nel convito della vita (Ap 19, 7-9). La liturgia non è coreografia, né vuoto ricordo, ma presenza viva, nei segni, dell’evento cardine della salvezza: la morte-risurrezione del Signore. Si può dire che per la Chiesa che celebra è sempre Pasqua, ma la ricorrenza annuale ha un’intensità ineguagliabile, perché, come solenne memoriale (ebraico zikkaron), attualizza talmente l’evento da renderlo quasi presente, nel senso che partecipa ai partecipanti al rito i frutti della grazia pasquale. La successione dei simboli, di cui è intessuta la Veglia, esprime bene il senso della risurrezione di Cristo per la vita dell’uomo e del mondo.Le parti principali dell’Azione liturgica, velocemente.
Liturgia della luce Attraverso il simbolo della Luce, che è il Cristo risorto, il mondo della tenebra viene attraversato e illuminato gradualmente fino al suo massimo splendore, con l’accensione di tutte le luci della chiesa. In Cristo, si illumina il destino dell’uomo e la sua identità di imago Christi. Il cammino della storia si apre alla speranza di nuovi cieli e nuove terre.I catecumeni e i battezzati, che la tradizione chiama “illuminati”, per la loro adesione vitale a Cristo-Luce, sanno che la loro esistenza è radicalmente cambiata, perché, con “Cristo primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1, 18), passano “dalle tenebre alla luce ammirabile di Dio” (1Pt 2, 9), dischiudendosi davanti a loro un orizzonte di vita e libertà. Per tutti questi motivi, si innalza il “canto nuovo” (il preconio, il gloria, l’alleluia) come ricordo delle meraviglie operate dal Signore nella storia e come rendimento di grazie per una vita di Luce cristica. Liturgia della parola Le 7 letture dell’Antico Testamento sono un compendio della storia della salvezza. Già la quaresima aveva sottolineato che il battesimo è inserimento in questa grande “storia” attuata da Dio fin dalla creazione. Nella consapevolezza che la Pasqua di Cristo tutto adempie e ricapitola, la Chiesa medita ciò che Dio ha operato nella storia. Quella serie di eventi e di promesse vanno riletti come realtà che sempre si attuano nell’“oggi” della celebrazione; sono dono e mèta da perseguire continuamente.
Liturgia battesimale Il popolo chiamato da Dio a libertà deve passare attraverso un’acqua che distrugge e rigenera. Come Israele nel Mar Rosso, anche Gesù è passato attraverso il mare della morte e ne è uscito vittorioso. Nelle acque del battesimo è inghiottito il mondo del peccato e riemerge la creazione nuova. L’acqua, fecondata dallo Spirito, genera il nuovo popolo di Dio: un popolo di santi, un popolo profetico sacerdotale e regale. Con i nuovi battezzati, la Chiesa fa memoria del suo passaggio pasquale, e rinnova nelle “promesse battesimali” la propria fedeltà al dono ricevuto e agli impegni assunti in un continuo processo di rinnovamento, di conversione e di rinascita.
Liturgia eucaristica È il vertice di tutto il cammino quaresimale e della celebrazione vigiliare. Il popolo, rigenerato nel battesimo per la potenza dello Spirito, è ammesso al convito pasquale che corona la nuova condizione di libertà e riconciliazione. Partecipando al corpo e al sangue del Signore, la Chiesa offre sé stessa in sacrificio spirituale per essere sempre più inserita nella Pasqua di Cristo. Egli rimane per sempre con i battezzati nei segni, perché essi imparino a passare ogni giorno da morte a vita nella carità. Dentro la struttura e i simboli della celebrazione è possibile leggere il paradigma dell’esistenza cristiana nata dalla Pasqua: Luce, Parola, Acqua, Convito sono le realtà costitutive e i punti di riferimento essenziali della vita nuova. Uscito dal mondo tenebroso del peccato, il cristiano è chiamato a essere portatore di luce; a perseverare nell’ascolto di Cristo morto e risorto, Parola definitiva della storia; a vivere sotto la guida dello Spirito la vocazione battesimale; ad annunciare e a testimoniare nel dono di sé quel mistero di cui l’Eucaristia celebra il memoriale
Se il Natale è la festività che raccoglie la famiglia, riunisce i parenti lontani, che più fa sentire il calore di una casa, degli affetti familiari, condividendoli con chi è solo, nello struggente ricordo del Dio Bambino; la Pasqua invece è la festa della gioia, dell’esplosione della natura che rifiorisce in Primavera, ma soprattutto del sollievo, del gaudio che si prova, come dopo il passare di un dolore e di una mestizia che creava angoscia, perché per noi cristiani questa è la Pasqua, la dimostrazione reale che la Resurrezione di Gesù non era una vana promessa, di un uomo creduto un esaltato dai contemporanei o un Maestro (Rabbi) da un certo numero di persone, fra i quali i disorientati discepoli. La Risurrezione è la dimostrazione massima della divinità di Gesù, non uno dei numerosi miracoli fatti nel corso della sua vita pubblica, a beneficio di tante persone che credettero in Lui; questa volta è Gesù stesso, in prima persona che indica il valore della sofferenza, comune a tutti gli uomini, che trasfigurata dalla speranza, conduce alla Vita Eterna, per i meriti della Morte e Resurrezione di Cristo. La Pasqua è una forza, una energia d’amore immessa nel Creato, che viene posta come lievito nella vita degli uomini ed è una energia incredibile, perché alimenta e sorregge la nostra speranza di risorgere anche noi, perché le membra devono seguire la sorte del capo; ci dà la certezza della Redenzione, perché Cristo morendo ci ha liberati dai peccati, ma risorgendo ci ha restituito quei preziosi beni che avevamo perduto con la colpa.
Idea Progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it
IL Re dorme La terra tace perché il Dio fatto carne si è addormentato
Ha svegliato coloro che da secoli dormono
Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati Lc 23,50-56 – Sepoltura di Gesù
IL SABATO SANTO È L’ORA DELLA MADRE
“Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il mio Signore ». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: « E con il tuo spirito ». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: “Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura.Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli ».“Da un’antica « Omelia sul Sabato santo ». (PG 43, 439. 451. 462-463) OrazioneO Dio eterno e onnipotente, che ci concedi di celebrare il mistero del Figlio tuo Unigenito disceso nelle viscere della terra, fa’ che sepolti con lui nel battesimo, risorgiamo con lui nella gloria della risurrezione. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.A cura dell’Istituto di Spiritualità: Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino
Il Sabato Santo è il giorno del silenzio, unico giorno della Settimana Santa in cui non è prevista alcuna liturgia, non si celebrano messe e l’Eucaristia viene data solo a chi è in punto di morte. I riti religiosi del Sabato Santo iniziano al calare del giorno. La notte del Sabato Santo è il momento in cui la Settimana Santa inizia ad andare verso il suo apice con i riti religiosi della veglia pasquale in cui si celebra la resurrezione di Cristo.
Nella giornata del Sabato Santo, il corpo di Gesù Cristo, tolto dalla croce su cui è morto il Venerdì santo e deposto nel sepolcro, viene preservato dalla corruzione grazie alla virtù divina, discende agli inferi con la sua divinità e con la sua anima umana, ma non con il suo corpo. Secondo certe tradizioni cristiane, resta negli inferi per un tempo corrispondente a circa quaranta ore, compiendo la sua vittoria sulla morte e sul diavolo, libera le anime dei giusti morti prima di lui e apre loro le porte del Paradiso.
Portata a termine la missione, la divinità e l’anima di Gesù si ricongiungono al corpo nel sepolcro: ciò costituisce il mistero della resurrezione, centro della fede di tutti i cristiani, che verrà celebrato nella seguente domenica di Pasqua.
Sabato Santo: giorno del silenzio
Il Sabato Santo è considerato un giorno di silenzio, di raccoglimento, di meditazione, per Gesù che giace nel sepolcro. Si attende l’annuncio della risurrezione di Gesù, che avverrà durante la solenne veglia pasquale.
Un’antica omelia recitava così: “Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi”.
L’Ora della Madre, liturgia del dolore nella speranza
Fin dai primi secoli dell’era cristiana, esiste una liturgia nel Sabato Santo che accompagna Maria nell’attesa e si stringe a lei in questo giorno di silenzio. Una celebrazione del rito orientale, accolta anche in quello latino.
L’Ora della Madre è un’antica liturgia, recitata la mattina del Sabato Santo dal 1987, Anno Mariano, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove fu per la prima volta officiata – IX secolo – dai santi Cirillo e Metodio. La celebrazione alterna salmi, letture e brevi preghiere ritmiche, i cosiddetti “tropari” della liturgia bizantina. Ma la celebrazione non si svolge soltanto nella papale arcibasilica maggiore: il favore di cui gode l’ha estesa anche ad altri luoghi. Per due volte è stata celebrata a San Pietro, per desiderio di san Giovanni Paolo II e, anche oggi, in altre chiese. Questa tradizione è alimentata da padre Ermanno Toniolo, dell’Ordine dei Servi di Maria, direttore del Centro di cultura mariana di Roma e docente emerito della Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”. Nata in ambiente bizantino, L’Ora di Maria diventa legame vivo tra oriente e occidente.
Maria addolorata
Nessun dolore è più grande di quello di una madre che ha perso il figlio. Immaginiamo il dolore di Maria: sapeva quello che doveva accadere e ha imparato ad accettarlo per tutta la vita, fin da quel primo sì dell’Annunciazione. Vede compiersi tutto sotto i suoi occhi con la sicura consapevolezza della fede che suo figlio è Dio, ma lo vede soffrire come un uomo qualsiasi, sottoposto ad atroci torture e umiliazioni e condannato alla pena capitale. La Vergine riconosce quel dolore che le aveva predetto Simeone, “A te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). Citando Paolo nella Lettera ai Romani (4,18), a proposito di Abramo, padre Toniolo, scrive che Maria “Credette contro ogni evidenza, sperò contro ogni speranza”.
L’Ora della Madre: Lei sa che Gesù ritornerà glorioso
Il sì di Maria
Sotto la croce, Maria pronuncia ancora una volta – nel silenzio del suo cuore – il suo sì incondizionato. Il dolore di Maria non è disperato, ma è comunque straziante, perché è il dolore purissimo di una madre. Trascorre il sabato, quel giorno interminabile in cui attende che tutto si compia. Questa forza nella fede, questa speranza sicura certamente non ha potuto lenire il suo dolore. Ha dovuto assistere all’agonia del Figlio e alla sua morte. L’ha cullato per l’ultima volta tra le braccia, prima di lasciarlo portare via per la sepoltura. Ha dovuto accettare il distacco e quel vuoto che le è calato addosso. Impossibile capire quanti pensieri “serbava nel suo cuore” (Lc 2, 51) nel frastuono dei lamenti delle pie donne e fra gli Apostoli smarriti. Sola, pur non nella solitudine e nell’abbandono: Cristo prima di morire ha pensato a sua Madre e a tutti gli uomini. Prima di spirare, dalla croce affida sua Madre a Giovanni:
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa. (Giovanni 19, 26 -27)
“L’urlo di pietra” della Maddalena del Compianto sul Cristo morto in terracotta di Niccolò dell’Arca, conservato a Santa Maria della Vita a Bologna è tra le opere più impressionanti e misteriose della seconda metà del XV secolo.
Unione della Madre con il Figlio
Così, tutta la Chiesa si stringe intorno a Lei, che diventa ponte tra il Figlio e l’umanità, tra la morte e la vita, in attesa della Risurrezione. Se Venerdì Santo è l’ora del Cristo, morto sulla croce, il Sabato Santo è l’Ora della Madre.
Idea progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto e hai preparato la croce al tuo Salvatore
Riflessione (traccia) domenica delle Palme A
HÁGIOS O THEÓS.SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna, t’ho fatto entrare in terra feconda e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara e la mia sete hai spento con l’aceto, hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti, tu mi hai portato davanti al Sinedrio e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.
Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice
La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.
Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).
L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).
Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.
LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO
Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.
I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA
La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.
Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.
Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici
Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile. Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.
Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.
I molti nomi di Sukkot
I riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.
Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?
Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.
Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo
Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.
Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).
Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.
Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.
E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?
Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.
Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].
Cosa simboleggiano le quattro specie?
Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.
Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.
Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.
Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.
Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico
Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?
Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…
Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]
La Via Crucis affonda le sue origini nella pietà popolare verso il Cristo sofferente sviluppatasi fra il XII e il XV secolo. Questa devozione intende evocare il pellegrinaggio lungo la Via dolorosa a Gerusalemme. Originariamente questa pia pratica non aveva un numero preciso e definito di quadri, soste o “stazioni”. Queste erano lasciate alle tradizioni della pietà locale, la quale attingeva anche da testi devoti non scritturistici.
Così è per l’incontro di Gesù con la madre, per il numero delle cadute, per l’incontro con Veronica. Il numero delle “stazioni” e il loro contenuto furono precisati dall’autorità ecclesiastica nel 1731, accogliendo la prassi allora più diffusa che comprendeva anche questi momenti non presenti nei Vangeli. Dal 1975 è possibile sostituire le stazioni tradizionali con altri momenti della Passione desunti dai Vangeli e concludere sempre con la Risurrezione di Gesù.
VIA CRUCIS, UNA STORIA LUNGA SECOLI
14/04/2017 Le prime tracce a Gerusalemme, alla fine del IV secolo. Come la conosciamo noi risale al Medio Evo inoltrato. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), san Francesco d’Assisi (1182-1226) e san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), prepararono il terreno su cui nacque la pratica di pietà. Le 14 stazioni.
Il passaggio di una pesante croce lungo la Via Dolorosa a Gerusalemme. Foto Ansa, 29 marzo 2013.
Ha radici profonde. E attraversa il tempo. La Via Crucis è un rito che intreccia Parola di Dio, storia e preghiera. Richiama l’ultimo tratto del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: da quando egli e i suoi discepoli, « dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi » (Mc 14, 26), fino a quando il Signore fu condotto al « luogo del Golgota » (Mc 15, 26), fu crocifisso e sepolto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia di un giardino vicino.
La Chiesa di Gerusalemme manifestò molto presto la sua attenzione per i «luoghi santi». Reperti archeologici attestano l’esistenza di espressioni di culto cristiano già nel secondo secolo dopo Cristo, nell’area cimiteriale dove era stato scavato il sepolcro di Gesù. Alla fine del IV secolo, la pellegrina Eteria ci dà notizia di tre edifici sacri eretti sulla cima del Golgota. E ci informa della processione che in certi giorni si snodava d due di esse, più precisamente dall’Anastasis al Martyrium. Non si trattava, per la verità, di una Via Crucis o di una Via Dolorosa. Come non lo era quella sorta di cammino attraverso i santuari di Gerusalemme, che si desume dalle varie « cronache di viaggio » dei pellegrini dei secoli V e VI. Ma quella processione, con i suoi canti e il suo stretto legame con i luoghi della passione, è ritenuta da alcuni studiosi una forma embrionale della futura Via Crucis.
Gerusalemme è la città della Via Crucis storica. Essa sola ha questo grande tragico privilegio. Lungo il Medio Evo il fascino dei « luoghi santi » suscita il desiderio di riprodurli nella propria terra: alcuni pellegrini, al ritorno da Gerusalemme, li “ricostruiscono” nelle loro città. Il complesso delle sette chiese di Santo Stefano a Bologna è ritenuto l’esempio più notevole di tali « riproduzioni ». Ma cf’è anche Kalwaria Zebrzydowska, in Polonia, a circa 40 chilometri da Cracovia e a 15 chilometri da Wadowice, paese natale di Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II.
La Via Crucis, nel senso attuale del termine, risale al Medio Evo inoltrato. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), san Francesco d’Assisi (1182-1226) e san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) prepararono il terreno su cui sorgerà il pio esercizio. Al clima di pietà compassionevole verso il mistero della Passione si deve aggiungere l’entusiasmo sollevato dalle Crociate che proponevano di ricuperare il Santo Sepolcro, il rifiorire dei pellegrinaggi a partire dal secolo XII e la presenza stabile, dal 1233, dei Frati minori francescani nei «luoghi santi».
Donne ortodosse pregano durante la Via Crucis a Gerusalemme. Foto Reuters, 29 aprile 2016.
Verso la fine del tredicesimo secolo,ci ricorda l’apposito sito della Santa Sede in cui monsignor Piero Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie ne ricostruisce la storia con rigore scientifico, la Via Crucis è già menzionata, non ancora come pio esercizio, ma come cammino percorso da Gesù nella salita al Monte Calvario e segnato da una successione di «stazioni». Intorno al 1294 un frate domenicano, Rinaldo di Monte Crucis, nel suo Liber peregrinationis afferma di essere salito al Santo Sepolcro «per viam, per quam ascendit Christus, baiulans sibi crucem», e ne descrive le varie stationes: il palazzo di Erode, il Litostrato, dove Gesù fu condannato a morte, il luogo dove Egli incontrò le donne di Gerusalemme, il punto in cui Simone di Cirene prese su di sé la croce del Signore. E così via.
Sullo sfondo della devozione alla passione di Cristo e con riferimento al cammino percorso da Gesù nella salita al Monte Calvario, la Via Crucis, come pio esercizio, nasce direttamente da una sorta di fusione di tre devozioni che si diffusero, a partire dal XV° secolo, soprattutto in Germania e nei Paesi Bassi: – la devozione alle «cadute di Cristo » sotto la croce; se ne enumerano fino a sette; – la devozione ai « cammini dolorosi di Cristo», che consiste nell’incedere processionale da una chiesa all’altra in memoria dei percorsi di dolore – sette, nove e anche di più -, compiuti da Cristo durante la sua passione: dal Getsemani alla casa di Anna (cf. Gv 18, 13), da questa alla casa di Caifa (cf. Gv 18, 24; Mt 26, 56), quindi al pretorio di Pilato (cf. Gv 18, 28; Mt 27, 2), al palazzo del re Erode (cf. Lc 23, 7); e la devozione alle «stazioni di Cristo», ai momenti in cui Gesù si ferma lungo il cammino verso il Calvario o perché costretto dai carnefici, o perché stremato dalla fatica, o perché, mosso dall’amore, cerca ancora di stabilire un dialogo con gli uomini e le donne che partecipano alla sua passione spesso.
Nel lungo processo di formazione della Via Crucis sono da segnalare due elementi: la fluttuazione della «prima stazione» della Via Crucis e la varietà delle stazioni stesse. Per quanto concerne l’inizio della Via Crucis, gli storici segnalano almeno quattro episodi differenti, scelti quale «prima stazione»: 1) l’addio di Gesù a sua Madre; si tratta di una «prima stazione» che non sembra aver avuto una larga diffusione, probabilmente a causa del problematico fondamento biblico; 2) la lavanda dei piedi; questa «prima stazione», che si situa nell’ambito dell’Ultima Cena e dell’istituzione dell’Eucaristia, è attestata in alcune Via Crucis della seconda metà del secolo XVII, che ebbero larga fortuna; 3) l’agonia del Getsemani; il giardino degli ulivi, dove Gesù, in estrema e amorosa obbedienza al Padre, decise di bere fino all’ultima goccia il calice della passione, costituisce l’inizio di una Via Crucis del secolo XVII, breve – comprende solo sette stazioni -, notevole per il suo rigore biblico, diffusa ad opera soprattutto dei religiosi della Compagnia di Gesù; 4) la condanna di Gesù nel pretorio di Pilato, «prima stazione» assai antica, che segna efficacemente l’inizio dell’ultimo tratto del cammino di dolore di Gesù: dal pretorio al Calvario.
Anche il soggetto delle stazioni era vario. Nel XV° secolo regnava ancora la più grande diversità nella scelta del loro numero e ordine. Nei vari schemi di Via Crucis si trovano stazioni quali la cattura di Gesù, il rinnegamento di Pietro, la flagellazione, le accuse diffamatorie in casa di Caifa, lo scherno della veste bianca nel palazzo di Erode, che non figurano in quello che diverrà la traccia definitiva. La Via Crucis, nella sua forma attuale, con le stesse quattordici stazioni disposte nello stesso ordine, è attestata in Spagna nella prima metà del diciassettesimo secolo, soprattutto in ambienti francescani. Dalla penisola iberica essa passò prima in Sardegna, allora sotto il dominio della corona spagnola, e poi nella penisola italica. Qui incontrò un convinto ed efficace propagatore in San Leonardo da Porto Maurizio (+ 1751), frate minore, instancabile missionario; egli eresse personalmente oltre 572 Via Crucis, delle quali è rimasta famosa quella eretta nel Colosseo, su richiesta di Benedetto XIV, il 27 dicembre 1750, a ricordo di quell’Anno Santo.
Una Via Crucis a Gerusalemme, lungo la Via Dolorosa. Foto Reuters, 3 aprile 2015
Le 14 stazioni della Via Crucis, nella forma definitiva arrivata a noi, sono le seguenti: 1) Gesù è condannato a morte 2) Gesù è caricato della croce 3) Gesù cade per la prima volta 4) Gesù incontra sua Madre 5) Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce 6) la Veronica asciuga il volto di Gesù 7) Gesù cade per la seconda volta 8) Gesù ammonisce le donne di Gerusalemme 9) Gesù cade per la terza volta 10) Gesù è spogliato delle vesti 11) Gesù è inchiodato sulla croce 12) Gesù muore in croce 13) Gesù è deposto dalla croce 14) il corpo di Gesù è collocato nel sepolcro