“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 LO STILE DI EMMAUS COME STILE DI DISCERNIMENTO E ACCOMPAGNAMENTO di Rosalba Manes Consacrata dell’ordo virginum e biblista (Pontificia Università Gregoriana) La Bibbia ebraica si conclude con questo invito al viaggio: «Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23). Qual è la meta del salire di ogni membro del popolo di Dio? È detto poco prima nello stesso versetto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda”». Il Signore vuole che Gerusalemme sia la meta di attrazione di tutto il suo popolo. A partire da questa conclusione, si può affermare davvero che «la Bibbia ebraica si pone interamente sotto il segno del pellegrinaggio»1. E siccome la Bibbia ebraica confluisce negli scritti cristiani, anche il Nuovo Testamento è posto sotto questo segno. I cristiani sono pellegrini, senza fissa dimora. Essi, come ricorda la Lettera a Diogneto, «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»2. I cristiani di ogni tempo e di ogni età sono pellegrini muniti di una ricca collezione di parole, la Bibbia, che si offre sempre come casa “portatile”. I giovani e la vita come viaggio Anche la pericope evangelica di Luca relativa al viaggio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) offre lo spunto per pensare la vita umana come un pellegrinaggio3. Le vite dei due discepoli, come di tutti i personaggi che la Bibbia ci consegna, più che essere modelli, sono «vite in evoluzione»4, investite in un pellegrinaggio che può essere percorso in modo spento oppure dinamico, a seconda della compagnia e della meta. E questo ci fa pensare soprattutto alle vite dei giovani che sono così tanto in evoluzione a motivo della crescita, della loro curiosità e del desiderio di mettersi alla prova coinvolgendosi nelle esperienze più disparate. Luca invita i suoi lettori a immedesimarsi con i suoi due pellegrini5, quasi ad offrire una sintesi del suo vangelo6. Si tratta, però, di due pellegrini coinvolti in un viaggio drammatico, che si 1 J.-P. SONNET, Il canto del viaggio, Qiqajon, Magnano (Bi) 2009, 12. 2 A Diogneto, Città nuova, Roma 2008, V,5, 83. 3 «Con ogni probabilità, questo insistente richiamo al tema del cammino ha la sua spiegazione nel fatto che il cammino di cui parla l’evangelista altro non è se non la vita del cristiano recepita a mo’ di pellegrinaggio e che esso ha bisogno della presenza del Risorto per non diventare alienante e triste» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», in M. LACONI E COLLABORATORI, Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, Elle di ci, Leumann (To) 1994, 438). 4 G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio», Esperienza e teologia 30 (2014), 26. 5 «Leggere la Bibbia sino in fondo è diventare pellegrini; diventare pellegrini biblici è accogliere il libro della Scritture come guida delle nostre strade, divine e umane, da percorrere sino alla Gerusalemme di Dio» (J.-P. SONNET, Il canto del viaggio, 12). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 muove, cioè, in direzione opposta a Gerusalemme. Essi, infatti, dopo aver smarrito l’entusiasmo durante i tristi eventi della Passione, decidono di lasciarsi la città santa alle spalle, di dimenticare il cammino fatto fino a quel momento, di tornare indietro, al punto di partenza, quando una parola “altra” li aveva affascinati, interpellati e mossi a salire a Gerusalemme. Vogliono riabbracciare la vita di un tempo, prima che la precarietà della sequela venisse a ritmare il cammino, prima di investirsi in un percorso che ha condotto ad un vicolo cieco. I due partono risoluti verso Emmaus, ma non è mai piacevole ritornare a casa senza premi o trofei e un senso di sconfitta fa capolino interiormente: il cuore è gonfio di tristezza e il passo si fa pesante, lento. Solo alla fine dell’intreccio narrativo, che ha un Sitz im Leben7 squisitamente liturgico, dopo un incontro illuminante attraverso il quale il cuore si riaccende e gli occhi sono in grado di riconoscere il Risorto e di vedere la novità, essi potranno riprendere lieti la marcia, consapevoli di accogliere una chiamata e una missione rinnovate che hanno ancora una volta a che fare con Gerusalemme, luogo dove germoglia la chiesa madre8. Luca ci ricorda così che tutta la vita è un cammino di uscita incontro agli altri, un esodo dalla tirannia dei bisogni, che porta a concentrarsi su di sé, alla ricerca appassionata della libertà da sé per scoprire la forza del desiderio che allarga gli orizzonti, rende cercatori di senso e permette di gustare la piena fioritura dei propri doni personali. La vita è un viaggio verso di sé, a contatto con la propria vocazione più profonda, alla scoperta di un volto che interpella con la sua parola e con la sua presenza, in un graduale apprendistato delle relazioni che porta chi non teme le salite e i sentieri impervi alla scoperta della storia di alleanza e di salvezza di cui fa parte. La vita è un viaggio meraviglioso che contempla, tuttavia, deragliamenti e battute d’arresto, prima di diventare un «cammino di giustizia» (Sal 23,3) o «sentiero della vita» che è «gioia piena» e «dolcezza senza fine» (Sal 16,11) Chiamati a mettere «ali come aquile» L’evangelista Luca offre ai destinatari della sua diḗghēsis («resoconto ordinato»)9 l’occasione di riflettere sulla vita come occasione di incontro con un Dio pellegrino che non aspetta che la creatura umana gli vada incontro, ma che si mette sulle sue tracce, la intercetta, l’accompagna dispiegando la forza del suo eterno Io-con-te (cfr. Es 3,12; Sal 23,4) e si fa suo commensale (cf Gen 18,1-15). 6 «Lc 24 contiene… la storia biblica: leggendo questo capitolo, si attraversano tutte le promesse, tutte le Scritture. Capitolo enciclopedico, gravido di tutto il passato: di Gesù e della storia che lo precedeva. […] Inizio e fine del vangelo si corrispondono… In Lc 1, il narratore e l’angelo avevano invitato a rileggere la storia dei patriarchi e dei profeti. In Lc 24, l’invito è lo stesso, esplicito stavolta; d’altronde non si tratta più di allusioni sparse qua e là, ma di una rassegna completa: “E incominciando da Mosè e tutti i profeti, interpretò loro in tutte le Scritture ciò che lo riguardava” (v. 27; cfr. anche v. 44)» (J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991, 153). 7 Espressione tedesca che indica il «contesto vitale», cioè la situazione storica, sociale e culturale della comunità primitiva. 8 I due discepoli di Emmaus «“descrivono” un cammino plausibile con cui confrontarsi, aprendo una possibilità di incontro con il Risorto, che resta a disposizione di chi si lascia intrigare dal racconto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio», 27). 9 Si tratta del termine con cui l’evangelista in Lc 1,1, all’inizio del prologo, designa il suo vangelo. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 Dalla carenza di energia sperimentata da chi cammina con le sue sole forze il Dio pellegrino dà a chi cammina in sua compagnia la possibilità di acquisire misteriosamente «ali come aquile», com’è descritto all’inizio del Libro della Consolazione di Isaia10. Questa forza supplementare, queste «ali di aquile» (Es 19,4), la Sacra Scrittura desidera offrirle ai suoi lettori e in modo speciale ai giovani perché diventino atleti dello Spirito del Risorto, pieni dell’energia che viene dalla Parola, dall’Eucaristia e dalla comunione con gli altri. Per questo il Sinodo dei giovani ha privilegiato l’icona biblica dei discepoli di Emmaus e l’ha letta alla luce del cammino di accompagnamento dei giovani11. Il racconto evangelico che ne parla non è tanto un racconto di apparizione ma piuttosto il «racconto della trasformazione di due discepoli a partire dal riconoscimento del Risorto»12. Non il vedere qualcosa è al cuore del racconto di Luca, ma il riconoscere qualcuno. Non sono, infatti, le cose che trasformano il cuore di un giovane che si apre alla vita, ma un incontro con una Persona che si incide per sempre nella memoria del cuore, creando un prima e un dopo. Si tratta di un’esperienza simile all’innamoramento che aiuta a distinguere la vita da tutto ciò che è una sua copia sbiadita13 e mette le ali ai piedi… La delusione del vivere: i giovani in cerca di senso Lc 24,13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme. Il racconto di Luca parte da due discepoli increduli e delusi che si stanno separando da Gerusalemme e dalla comunità. Si potrebbe parlare di un cammino di «de-vocazione»14. Gli eventi della Pasqua hanno scandalizzato i seguaci di Gesù, al punto che alcuni di loro decidono di mettere una pietra sopra alla loro esperienza di discepolato per ritornare alla vita di un tempo. È il sopravvento dello scoramento che prende quanti si sentono feriti da un’esperienza sulla quale avevano proiettato tante attese, ma che poi ha lasciato l’amaro in bocca. L’evangelista Luca ci parla, in particolare, di due discepoli che lasciano Gerusalemme per riprendere la strada di casa, compiendo il viaggio inverso a quello che domina l’intero Vangelo di Luca. Sono diretti ad Emmaus, città non molto lontana (forse 7 km), ancora oggi di difficile identificazione15. Attratti dalla parola di Gesù ed estratti dal loro ambiente, avevano intrapreso il cammino della sequela, riponendo nel maestro di Nazareth le loro attese e soprattutto le loro 10 «Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,29-31). 11 FRANCESCO, Christus vivit, Esortazione Apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV, Città del Vaticano 2019, nn. 156; 236; 292; 296. 12 L. MANICARDI, Raccontami una storia. Narrazione come luogo narrativo, Messaggero, Padova 2012, 189. 13 «Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza» (C. YANNARÁS, Variazioni sul Cantico dei cantici, Servitium, Milano 1997, 25). 14 Così viene chiamato il cammino dei due discepoli di Emmaus in L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192. 15 Questo cammino da Gerusalemme a Emmaus appare anche simbolico: Emmaus è la cittadina dove Giuda Maccabeo nel 167 a.C. aveva sconfitto Gorgia, generale di Antioco IV Epifane (cfr. 1Mac 3,40.57; 4,3), quindi luogo della vittoria contro un nemico di Israele. Dalla città della Pasqua i due discepoli scelgono di dirigersi alla città della vittoria e della prospettiva messianica. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 speranze messianiche. Dopo gli eventi della Pasqua, però, non restano in loro che delusione e tristezza per un’operazione non andata a buon fine, per un piano naufragato nel peggiore dei modi. Non resta che dimenticare, rimuovere il dolore per il fallimento e tornare alle sicurezze di un tempo, quando il senso del vivere era dettato dal bisogno di procurarsi i mezzi di sussistenza e prepararsi un futuro di benessere. Vi è un regresso che porta il cuore all’oblio dell’esperienza fallimentare per cercare sostegno nel “mondo conosciuto”. La delusione, infatti, è nemica della memoria e quando la memoria sbiadisce si perde il senso della propria chiamata, si azzera anche tutto il bene che si è potuto sperimentare e ci si sente attratti a vivere «soltanto di pane» (Dt 8,3; cfr. Lc 4,4). Questo è lo sconforto che porta molti giovani a passare frettolosamente da un’esperienza all’altra, senza il coraggio e la pazienza di rileggere ogni evento per «distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile» (Ger 15,19). La grazia del condividere: superare il mutismo dei giovani Lc 24,14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Inizia il viaggio di ritorno. I due se ne vanno da Gerusalemme, quella città che avrebbe dovuto profumare di pace – come dice il suo nome, che contiene la parola shalom – e che invece è satura di odio. Imboccano la strada del ritorno, ma il silenzio fa paura e iniziano a conversare, accendono il dialogo che libera la forza della compagnia che sola tiene a bada le angosce del cuore umano. È la vittoria della relazione sul silenzio della solitudine, il trionfo della parola che sfida la morte, che vuole aggrapparsi alla vita, nonostante la tristezza abbia preso il sopravvento nel cuore. Parlano i due discepoli e parlano di tutto ciò che è accaduto nella città santa. Hanno voglia di parlare, forse perché il silenzio li mette in un contatto troppo ravvicinato con la propria interiorità o forse perché, pur volendosi sganciare al più presto dall’esperienza che li ha delusi, si sentono ancora intimamente connessi ad essa. La situazione iniziale del brano si caratterizza per un viaggio di ritorno scandito dalle parole di una conversazione tra amici. Il parlare dei due discepoli presenta dei tratti particolari: Luca usa il verbo omiléo, «discorrere», che proviene dal contesto liturgico (cfr. At 20,11), e il verbo syzetéo, «cercare insieme», che evidenzia un conversare orientato a trovare una soluzione comune (cfr. At 15,7). Questo conversare manifesta la grazia di condividere, tenendo i cuori connessi l’uno all’altro. Parlano i due amici, praticano l’arte salutare e salvifica del racconto16 e testimoniano che c’è ancora un soffio di vita nel loro cuore indolenzito per via della grande delusione. 16 «la magia fondamentale della narrazione sta nella sua capacità di dare senso. Non è la cronaca dei fatti o la mera registrazione di ciò che accade, ma solo la loro narrazione che produce senso e quindi rende vivibile e sopportabile il mondo. Nel racconto i fatti divengono umani, cioè una trama di eventi significativi. Il racconto umanizza il tempo. […] Così la vita si fa somigliante a un testo, a un tessuto, a un tappeto, per esempio, che è costituito da una trama infinita di segni ciascuno dei quali, preso in se stesso, è privo di senso, ma che insieme agli altri forma un disegno misterioso e affascinante. Il racconto crea ordine nel caos, crea unità fra le dimensioni del passato, del presente e del futuro […] strappa l’uomo alla tirannia del presente…» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 25-26.27). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 Anche qui si coglie il bisogno impellente che i giovani hanno di raccontarsi esperienze, problemi, paure, ignari a volte di non disporre tra coetanei di tutti i mezzi utili ad avanzare. Parlano i due pellegrini che lasciano la città santa e gli altri amici, ma non come chi parla al vento. Questa parola è suono che qualcuno riesce ad ascoltare… La grazia del camminare insieme: vincere la solitudine e lo smarrimento dei giovani Lc 24,15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Il racconto lucano presenta una complicazione per via dell’apparizione di un terzo personaggio, Gesù, che innesca la tensione drammatica del processo di riconoscimento. Mentre il lettore ne conosce l’identità, i due discepoli la ignorano. Il Risorto, che è lo straniero per eccellenza, il pellegrino che si lascia trovare mentre è vicino (cfr. Is 55,6) ed itinera lungo i nostri sentieri, in cerca della pecora (cfr. Lc 15,4-7), della dracma (cfr. Lc 15,8-10) e dei figli (cfr. Lc 15,11-32) smarriti, si fa loro compagno di viaggio, anche se “in borghese”. I loro occhi, però, non vedono o meglio non sanno riconoscere e senza riconoscenza, si smarrisce anche la conoscenza del Maestro e non è possibile il suo riconoscimento. Gli occhi dei discepoli sono chiusi alla fede, «incapaci di leggere la storia alla luce della fede»17. La pedagogia del Risorto sarà allora proprio quella di aiutarli a riconoscerlo, riaccendendo gradualmente la memoria del cuore. Egli si accosta invitandoli a raccontarsi perché possano tirare fuori il loro dolore e consegnarlo. Li stimola ulteriormente all’arte del racconto che permette di dire, di dirsi e di dare senso. La narrazione, infatti, implica, per ogni persona e soprattutto per i giovani, il coinvolgimento di tutte le facoltà personali alla ricerca dell’unità, della forma e del senso, che spesso si nascondono nei dettagli della storia o nello sguardo di chi accoglie il racconto, offrendo il suo tempo, donando se stesso. Essere attesi dallo sguardo di un altro è proprio per ogni giovane la base per approdare a una comprensione nuova del proprio esistere e della propria chiamata nella storia. La grazia di raccontare e raccontarsi: intercettare gioie e dolori dei giovani Lc24,17Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano 17 L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Il pellegrino viene scambiato per uno straniero18 ignaro dei fatti. Egli allora sta al gioco e chiede delucidazioni. Finge non per mentire, ma per guarire. Non vuole giocare con loro, ma aiutarli ad esternare l’amarezza e riaccendere la memoria. Allora per liberarli dal senso di delusione, libera la domanda: «Che cosa è successo?» e i due si fermano e mostrano la loro tristezza19 che incontra finalmente un “luogo” dove poter essere depositata, consegnata: l’orecchio, il cuore, il tempo di quel pellegrino. La Christus vivit sottolinea la qualità dell’ascolto del Risorto e offre questo esempio come prototipo a chiunque si accosti ai giovani per accompagnarli: La prima sensibilità o attenzione è alla persona. Si tratta di ascoltare l’altro che ci sta dando sé stesso nelle sue parole. Il segno di questo ascolto è il tempo che dedico all’altro. Non è una questione di quantità, ma che l’altro senta che il mio tempo è suo: il tempo di cui ha bisogno per esprimermi ciò che vuole. Deve sentire che lo ascolto incondizionatamente, senza offendermi, senza scandalizzarmi, senza irritarmi, senza stancarmi. Questo ascolto è quello che il Signore esercita quando si mette a camminare accanto ai discepoli di Emmaus e li accompagna per un bel pezzo lungo una strada che andava in direzione opposta a quella giusta (cfr Lc 24,13-35)20. Alla domanda del pellegrino uno dei due, l’unico di cui si conosca il nome, Cleopa, imbastisce un racconto sintetico del ministero di Gesù e della loro sequela, segnata dal ritmo della speranza, una speranza che però la crocifissione ha spento del tutto e che i racconti della tomba vuota non sono riusciti ad alimentare. Parla di Gesù di Nazaret, senza sapere che egli è suo compagno di viaggio. Riprende le grandi tappe della sua vita: nome, luogo di origine, ministero, passione, identità dei suoi avversari, tipo di morte. Identifica Gesù a «un profeta potente», solidarizza con i sommi sacerdoti che chiama «nostri», parla di una pasqua priva di risurrezione cui fa cenno solo rimandando a delle ipotesi (che i due non hanno voluto verificare) e termina con una speranza naufragata nell’assenza di colui che era stato riconosciuto come un potenziale liberatore. Cleopa allude a una storia ben precisa, senza però collegarla alla storia sacra. Richiama alla mente, ma non risveglia la memoria. Sa parlare di Gesù, ma senza evangelizzare. Narra un vangelo senza gioia e coinvolgimento emotivo, un resoconto cronachistico che lascia indifferenti21. Cleopa somiglia a molti giovani di oggi che conoscono Cristo solo “per sentito dire”, che lo nominano solo perché parte di una narrazione familiare trasmessa per via di «carne e sangue» e non «per la potenza dello Spirito», che lo sentono morto o troppo lontano dalla loro esistenza così 18 Il verbo che Luca mette sulle labbra di Cleopa è paroikéō che indica la situazione di provvisorietà e di estraneità del suo interlocutore, il fatto di dimorare in una terra straniera, come Abramo che «soggiornò (cioè si stabilì come straniero) nella terra promessa come in una regione straniera» (Eb 11,9). 19 «Lo stato della loro “salute spirituale” traspare dai riflessi somatici: “scuri in volto”, “occhi impediti”. Sono simbolicamente in una situazione di morte. Il loro stesso racconto riguardante Gesù appare come un necrologio, una triste cronaca» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192-193). 20 FRANCESCO, Christus vivit n. 292. 21 Dopo il primo momento in cui si mostra alquanto evasivo, Cleopa si lancia nel racconto e «dà il via alla sua esposizione, che non è un semplice resoconto dei fatti, ma un’evidente presa di posizione circa Gesù, il suo operato e la sua sorte: riferisce di un passato ormai finito (vv. 19-20), denuncia un futuro disatteso (v. 21), approda su un presente segnato dallo sconcerto e dal dubbio (vv. 22-24). Quello che manca non è la ricchezza del vissuto, ma un criterio che gli dia senso, come dimostra il brusco intervento del Risorto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio, 34). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 lontana dal gergo con cui comunemente si narra la fede, un gergo che rigettano perché moralistico, volto più a castigare che ad animare e a vivificare. La grazia della comprensione della Pasqua: appassionare i giovani alle Scritture Lc 24,25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Solo dopo che i due di Emmaus hanno fatto l’autodiagnosi della loro perdita di speranza il forestiero interviene e prende la parola. Dopo aver ascoltato e aver permesso loro di estrarre tutta l’amarezza e il non senso, rimprovera i due di mancare di intelligenza e di sentimenti per aver creduto alla parola dei profeti. I profeti avevano parlato della prova come costante della vita umana e del Dio che salva non dalle prove, ma all’interno delle prove e inizia a leggere le Scritture profetiche, mostrando l’intima connessione tra queste e la sua vita. Lo sconosciuto denuncia la loro fatica di cogliere il filo rosso della storia della salvezza e inaugura un’esposizione cristologica delle Scritture: il Messia annunciato dai profeti ama gli asini e non i cavalli, elimina i carri e l’arco di guerra (cfr. Zc 9,9), è compassionevole verso il dolore e la sofferenza umana (cfr. Is 53,4). Formando i discepoli alla sequela, il Maestro aveva parlato della sua passione come via per accedere alla gloria. Perciò il forestiero li scuote perché dall’essere ripiegati sulla fine di una storia si aprano al germogliare di una creazione nuova. È una narrazione ossigenata la sua che va oltre la lettera per coglierne lo Spirito e che illumina gli occhi del cuore. La Pasqua si può comprendere solo alla luce delle Scritture d’Israele che contengono una pedagogia dell’umano che si realizza pienamente in Cristo: «la parola del comando orienta, la parola profetica interviene per cambiare, la parola sapienziale legge la storia. Gesù non è nella tomba, dietro una pietra che chiude il passato, ma nelle Scritture gravide di speranza e portatrici di futuro che egli solo è venuto a compiere (cfr. Lc 4,21)»22. Gesù conferma le parole della Scrittura, mettendone in luce il loro sensus plenior23: l’eventoCristo, cioè tutti gli eventi connessi alla sua persona, conferma l’agire salvifico del Dio di Israele nel passato, segno che la sua morte di Croce è la consegna piena di Dio all’uomo e combacia con l’intenzionalità originaria di Dio di donare all’uomo tutto se stesso in un amore che va fino alla fine. Il Risorto insegna ad ogni educatore ed educatrice, ad ogni padre e madre spirituale, l’arte di comunicare con larghezza la Parola che nutre il cuore e di aiutare la persona a loro affidata «a decifrare il linguaggio che Dio usa verso di lei e a scoprire negli eventi della vita la parola di Dio per lei»24. I giovani in tal modo si sentono adottati da qualcuno che li ama e sa donare loro il suo tempo, che sa consegnare loro parole di senso, che li fa volgere verso un Altro, il Padre, e li aiuta a vedersi nell’unità e non più nella dispersione, a vedersi con gli occhi di Dio e a tessere la propria storia con il tessuto della Chiesa, per non rimanere individui ma un organismo vivo, comunitario. 22 R. MANES, «Il cielo si aprì». Il Dio misericordioso e tenero di Luca, Cittadella, Assisi 2015, 149. 23 «è importante rilevare la costante connessione fra la comprensione delle Scritture e la croce… La Croce non è predetta dalla Scritture ma è “conforme” ad esse. V’è una circolarità ermeneutica: le Scritture rinviano a Cristo e Cristo rinvia alle Scritture. Nel prisma della Pasqua i discepoli comprendono Gesù alla luce delle Scritture, ma anche le Scritture alla luce di Gesù» (M. CRIMELLA, Luca. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2015, 371). 24 M.I. RUPNIK, Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla vita spirituale, Lipa, Roma 1996, 62012, 97. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 La grazia di riconoscere il Vivente: insegnare ai giovani l’arte del discernimento Lc 24,28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. L’ermeneutica di Gesù esercita un tale fascino sui due discepoli di Emmaus che, pur essendo giunti a destinazione, non possono più staccarsi dallo straniero. Egli fa come per andarsene e i due reagiscono e lo invitano a restare: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Lo invitano così a restare e a condividere il pasto con loro, momento sacro per la cultura orientale per rifare le forze e consolidare il vincolo di amicizia. La Christus vivit ricorda la potenza della convivialità o ospitalità che il Nuovo Testamento chiama filoxenía (cfr. Rm 12,13; Eb 13,2): «Quando Gesù fa come se dovesse proseguire perché quei due sono arrivati a casa, allora capiscono che aveva donato loro il suo tempo, e a quel punto gli regalano il proprio, offrendogli ospitalità. Questo ascolto attento e disinteressato indica il valore che l’altra persona ha per noi, al di là delle sue idee e delle sue scelte di vita»25. Dopo aver ricevuto in dono il tempo di quello straniero, i due discepoli desiderano donare il proprio: resta con noi è, al tempo stesso, una richiesta e un’offerta. È chiedere aiuto e, contemporaneamente, dimenticarsi di sé per mettere al centro l’altro. È incominciare a sentire il sapore del dono e il senso del proprio stare al mondo. Il pellegrino accetta e la sua presenza, le sue parole e i suoi gesti provocano un forte impatto. Gli occhi si aprono e lo riconoscono: «dinanzi a loro non vi è più un ospite sconosciuto, ma quel crocifisso che la tomba non è riuscita a trattenere e che per restare con i suoi si è fatto parola e pane»26. La fractio panis libera tutta la fragranza del dono di Cristo che scompare ma accende nei due il fuoco della fede, con il quale possono scaldare il gelo della vita ed infiammare il mondo. Alla luce della Parola di Dio letta in chiave cristologica27 inizia l’arte del discernimento, la capacità di fiutare la presenza del Risorto nella storia e nella propria vicenda esistenziale e di sperimentarla, in comunione con i fratelli, all’interno della celebrazione liturgica che permette di accedere sin d’ora alla vita del Regno, alla gloria destinata ai figli. La grazia del cuore ardente: formare i giovani all’annuncio gioioso Lc 24,31Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi i 25 FRANCESCO, Christus vivit, n. 292. 26 R. MANES, «Il cielo si aprì», 150. 27 Nelle Scritture spiegate da Cristo che ne è la chiave si trova «il modo di trarre le fila delle diversissime esperienze umane, nel campo del bene e della verità, per riunificarle in un quadro coerente in cui l’annuncio della Risurrezione appaia come il sigillo di Dio su un disegno di salvezza e non come un evento strano e inaspettato» (C.M. MARTINI, L’evangelizzatore in san Luca, Ancora, Milano 2000, 153). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Prima ancora che si aprissero gli occhi, il cuore aveva già iniziato a scaldarsi e a risvegliarsi, alimentando quel fuoco che il Cristo è venuto a gettare sulla terra (cfr. Lc 12,49) e la cui fiamma si propagherà a partire dall’evento dell’effusione dello Spirito a Pentecoste (cfr. At 2,3) come potenza di Dio che divampa nella predicazione della Parola. Il fuoco ha sempre nelle Scritture una coloritura teofanica, è cioè un elemento che nel racconto biblico dice l’irruzione di Dio (cfr. Es 3,2) e la natura del suo amore (cfr. Ct 8,6). Il Risorto appicca un fuoco nel cuore dei suoi, ma lui non è più visibile, perché egli non è quel viandante: è il Risorto che vive e si fa sperimentare vivo nella vita stessa di chi crede in lui. Egli è assente perché «non è più legato all’orizzonte terreno, non è più palpabile, visibile in maniera fisica; eppure è ancora realmente presente e sperimentabile»28. Inoltre c’è un’importante pedagogia che il Risorto dispiega come afferma la Christus vivit che ci ricorda che chi accompagna i giovani deve «scomparire come scompare il Signore dalla vista dei suoi discepoli, lasciandoli soli con l’ardore del cuore, che si trasforma in impulso irresistibile a mettersi in cammino»29. È il segno sacramentale che permette di riconoscere il Signore non come uno di fuori che si può vedere, ma come uno che abita dentro e scalda il cuore. Il riconoscimento del Risorto trascende l’empiria superficiale: è un’esperienza di fede! Luca gioca sul contrasto tra gli occhi “impediti” (v. 16) e gli occhi “spalancati” (v. 31). Tra le due situazioni irrompe la fede: «la presenza del Signore è accessibile tramite la Parola ascoltata, tramite il pane spezzato e, più in generale, per mezzo della fede»30. Ed è proprio a partire dalla fede che si compie la trasformazione interiore dei discepoli che non sono più prigionieri di segni miracolosi. Il gesto del pane spezzato, infatti, «allontana definitivamente l’attesa idolatrica dei segni e permette ai discepoli di dire l’essenziale – la loro trasformazione interiore all’ascolto della sua parola sulle Scritture – senza rattristarsi per la sua scomparsa»31. Il binomio Parola-Pane eucaristico trasfigura il senso della sequela vissuta e permette di riprendere la strada per tornare dai compagni e annunciare loro che il Maestro è vivo e a farsi pane per loro32. I discepoli passano così dall’abbattimento allo slancio, dal bisogno di vedere i segni al desiderio di ascoltare e annunciare la parola, dall’attesa di un messia foriero di rivoluzione politica o sociale e capace di spazzare via da Israele ogni presenza ostile all’accoglienza del dono d’amore di Cristo che spinge a tornare a Gerusalemme, in mezzo agli altri, alla nuova famiglia dei credenti in Cristo, nel clima fecondo e gioioso della lode e della comunione. La Scrittura rimane sigillata senza la luce che promana dall’evento della morte e risurrezione di Cristo e senza narratori, testimoni capaci cioè di attraversare la storia “sacramentalmente”, 28 G. RAVASI, I Vangeli, EDB, Bologna 2016, 431. 29 FRANCESCO, Christus vivit, n. 296. 30 M. CRIMELLA, Luca, 367. 31 J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo, 162. 32 «Perché il Risorto sia veramente presente, non basta la partecipazione al rito. Questo diventa portatore di vita se riesce a trasformare anche i commensali in pane che si spezza per i fratelli» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», 439). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 aprendola a Dio e vivificandola attraverso il loro pellegrinaggio pieno di zelo e dedizione e la loro parola incisiva e gravida di Spirito Santo. Il Maestro è vivo e chiede ai giovani, che sono “la promessa del Padre”, di seguirlo lungo le vie del mondo, non come individui che rifuggono nelle proprie sicurezze o nel benessere personale, ma come comunione di fratelli e sorelle che sanno nutrire la memoria dell’incontro con Cristo e ravvivarla mediante la preghiera, la testimonianza, la forza dei sacramenti e degli affetti e che sanno accogliere «ali come aquile» per collaborare alla corsa di una Parola (cfr. 2Ts 3,1) che non subisce mai battute d’arresto perché eterna. Lc 24,13-35, capolavoro catechetico e didattico, invita noi formatori e accompagnatori a lasciarci lavorare dallo Spirito per generare i giovani alla vita filiale di Cristo che si compie nel dono di sé. Invita inoltre i giovani a scoprire la bella esperienza di affrontare il pellegrinaggio della vita sapendosi sempre accompagnati33 in una pastorale feconda perché intesa come un processo rispettoso, paziente, fiducioso e compassionevole34 e a sentirsi destinatari di una grande attenzione e di un ascolto profondo35 che li renda capaci di udire il battito del Padre che, nel cuore del Figlio, palpita per loro di amore eterno. SOMMARIO L’articolo propone una lettura narrativa del racconto di Emmaus (Lc 24,13-35) che privilegia il tema del «viaggio» come metafora della vita e offre una serie di indicazioni preziose per ripensare la necessità e l’urgenza di avviare i giovani all’arte del discernimento. Attraverso la prossimità tipica di un accompagnamento che si realizza come un processo graduale e che contempla la possibilità di una reale esperienza di generazione spirituale, il contatto con la Parola contenuta nelle Scritture e rivelatrice di senso e l’esperienza sacramentale all’interno di un contesto ecclesiale che testimoni un’alta qualità dei rapporti e di comunione, è offerta ai giovani l’opportunità di coltivare sogni e desideri grandi e di aprirsi serenamente al futuro, sentendosi depositari di una chiamata al dono di sé, a cui dare carne giorno per giorno.
Angelo di Dio, che sei il mio custode illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen
La memoria dei Santi Angeli fu fissata al 2 ottobre da papa Clemente X nel 1670. La loro esistenza è un dogma di fede, definito più volte in maniera solenne dalla Chiesa. Il nome “anghelos” deriva dal greco e vuol dire “messaggero”. In questo ruolo appaiono nella Bibbia. Nella storia della salvezza, Dio affida agli Angeli l’incarico di proteggere i patriarchi, i suoi servi e tutto il popolo eletto
La memoria dei Santi Angeli, oggi espressamente citati nel “Martirologio Romano” della Chiesa Cattolica, come Angeli Custodi, si celebra dal 1670 il 2 ottobre, data fissata da papa Clemente X (1670-1676); la Chiesa Ortodossa li celebra l’11 gennaio. Ma chi sono gli Angeli e che rapporto hanno nella storia del genere umano? Prima di tutto l’esistenza degli Angeli è un dogma di fede, definito più volte dalla Chiesa (Simbolo Niceno, Simbolo Costantinopolitano, IV Concilio Lateranense (1215), Concilio Vaticano I (1869-70)). Tutto ciò che riguarda gli Angeli, ha costituito una scienza propria detta “angelologia”; e tutti i Padri della Chiesa e i teologi, hanno nelle loro argomentazioni, espresso ed elaborato varie interpretazioni e concetti, riguardanti la loro esistenza, creazione, spiritualità, intelligenza, volontà, compiti, elevazione e caduta.
Specifici episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, indicano la presenza degli Angeli: la lotta con l’angelo di Giacobbe (Genesi 32, 25-29); la scala percorsa dagli angeli, sognata da Giacobbe (Genesi, 28, 12); i tre angeli ospiti di Abramo (Genesi, 18); l’intervento dell’angelo che ferma la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco; l’angelo che porta il cibo al profeta Elia nel deserto. L’annuncio ai pastori della nascita di Cristo; l’angelo che compare in sogno a Giuseppe, suggerendogli di fuggire con Maria e il Bambino; gli angeli che adorano e servono Gesù dopo le tentazioni nel deserto; l’angelo che annunciò alla Maddalena e alle altre donne, la resurrezione di Cristo; la liberazione di s. Pietro, dal carcere e dalle catene a Roma; senza dimenticare la cosmica e celeste simbologia angelica dell’Apocalisse di s. Giovanni Evangelista.
Qual è il fondamento evangelico della figura dell’angelo custode?
L’Angelo Custode indica l’esistenza di un angelo per ogni uomo, che lo guida, lo protegge, dalla nascita fino alla morte, è citata nel Libro di Giobbe, ma anche dallo stesso Gesù, nel Vangelo di Matteo, quando indicante dei fanciulli dice: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. La Sacra Scrittura parla di altri compiti esercitati dagli angeli, come quello di offrire a Dio le nostre preghiere e sacrifici, oltre quello di accompagnare l’uomo nella via del bene.
Il termine angelo significa «messaggero» e in questo senso è colui (o colei) che porta i messaggi dei Dio (o degli dei) agli uomini. Gli angeli servono Dio, ma anche l’essere umano.
Nella tradizione cristiana abbiamo la figura degli angeli custodi, ma anche degli arcangeli come Michele, Gabriele e Raffaele.
La figura degli angeli nel corso degli anni si è svincolata dal discorso religioso in senso stretto e ha pervaso diversi contesti: si pensi, per esempio, ai libri fantasy con gli angeli. Ma non solo: il 2 ottobre, per esempio, memoria degli angeli custodi, si celebra la festa dei nonni, che sono visti come degli angeli quotidiani.
La tradizione cristiana afferma che ognuno di noi, alla nascita, riceve un angelo custode pronto ad offrire il proprio aiuto e a fare da guida nelle difficoltà. A parlarne sono stati anche diversi uomini di Chiesa fra cui dei Papi. Ad esempio Papa Pio X degli angeli custodi disse: “Si dicono custodi gli angeli che Dio ha destinato per custodirci e guidarci nella strada della salute […] ci assiste con buone ispirazioni, e, col ricordarci i nostri doveri, ci guida nel cammino del bene; offre a Dio le nostre preghiere e ci ottiene le sue grazie”.
Non ha mai avuto alcun dubbio anche Benedetto XVI: “Cari amici, il Signore è sempre vicino e operante nella storia dell’umanità, e ci accompagna anche con la singolare presenza dei suoi Angeli, che oggi la Chiesa venera quali “custodi”, cioè ministri della divina premura per ogni uomo. Dall’inizio fino all’ora della morte, la vita umana è circondata dalla loro incessante protezione. E gli angeli fanno corona”
Nell’intera Bibbia per 221 volte ricorre la parola «angelo» e 96 vole la parola «angeli». Per l’esattezza, nell’Antico Testamento, in 119 versetti, ci sono 122 ricorrenze del singolare «angelo», mentre in altri 12 versetti ci sono altrettante ricorrenze del plurale «angeli». Nel Nuovo Testamento, in 97 versetti, si trovano 99 ricorrenze di «angelo», mentre in altri 82 versetti ci sono 84 ricorrenze di «angeli». In ebraico l’angelo si chiamava mal’ak (che il greco tradurrà con aggelos e il latino con angelus). Originata dal cananeo laaka (inviare), questa parola designava l’ambasciatore o il corriere che il re utilizzava per far conoscere i propri desideri e ordini.
Nella Sacra Scrittura l’angelo è inviato da Dio per manifestare la sua concreta presenza nel mondo e il suo intervento nella storia umana. Addirittura, in numerosi testi il soggetto dell’azione o della parola riportata è indifferentemente Dio o l’angelo di Dio. Per esempio nella Genesi: «La [Agar] trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto» (16,7ss.) e «Poi il Signore apparve a lui [Abramo] alle querce di Mamre» (18,1ss.); oppure nell’Esodo: «L’angelo del Signore gli apparve [Mosè] in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (3,2).
Nell’Antico Testamento si evidenzia la progressiva consapevolezza del monoteismo ebraico, successivamente condivisa dal cristianesimo e dall’islamismo, riguardo all’esistenza di creature puramente spirituali e appartenenti al mondo celeste, mediatrici fra il Dio unico, trascendente e inaccessibile, e gli uomini. Il numero complessivo degli angeli non è indicato in alcun luogo della Sacra Scrittura, ma comunque viene considerato molto grande: «Un fiume di fuoco scorreva e usciva dinanzi a lui, mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano» (Daniele 7,10).
Nel Nuovo Testamento, i brani che parlano degli angeli si possono classificare in due ambiti: il primo narra gli interventi angelici nella storia di Gesù o della Chiesa primitiva, l’altro sottolinea il posto che la credenza negli angeli riveste all’interno della fede cristiana. In particolare, Luca parla di un angelo che rivela a Zaccaria la nascita di Giovanni (1,11-20) e dell’arcangelo Gabriele che comunica a Maria l’incarnazione di Gesù (1,26-38), per poi descrivere gli angeli che proclamano la nascita del Bambino (1,26-38). Gli angeli tornano in forze nel giorno di Pasqua per annunciare la risurrezione di Gesù (Matteo 28,1-8), e in seguito sono testimoni privilegiati dell’ascensione di Gesù al cielo (Atti 1,10).
|| IL CANTO DEGLI ANGELI || (Paoline)
Cos’è l’esercito celeste e come è composto?
La figura dell’Angelo come simbolo delle gerarchie celesti, in genere appare fin dai primi tempi del cristianesimo, collocandosi in prosecuzione della tradizione ebraica e come trasformazione dei tipi precristiani delle Vittorie e dei Geni alati, che avevano anche la funzione mediatrice, tra le supreme divinità e il mondo terrestre. Attraverso l’insegnamento del “De celesti hierarchia” dello pseudo Dionigi l’Areopagita, essi sono distribuiti in tre gerarchie, ognuna delle quali si divide in tre cori. La prima gerarchia comprende i serafini, i cherubini e i troni; la seconda le dominazioni, le virtù, le potestà; la terza i principati, gli arcangeli e gli angeli. I cori si distinguono fra loro per compiti, colori, ali e altri segni identificativi, sempre secondo lo pseudo Areopagita, i più vicini a Dio sono i serafini, di colore rosso, segno di amore ardente, con tre paia di ali; poi vengono i cherubini con sei ali cosparse di occhi come quelle del pavone; le potestà hanno due ali dai colori dell’arcobaleno; i principati sono angeli armati rivolti verso Dio e così via. Più distinti per la loro specifica citazione nella Bibbia, sono gli Arcangeli, i celesti messaggeri, presenti nei momenti più importanti della Storia della Salvezza; Michele presente sin dai primordi a capo dell’esercito del cielo contro gli angeli ribelli, apparve anche a papa s. Gregorio Magno sul Castel S. Angelo a Roma, lasciò il segno della sua presenza nel Santuario di Monte S. Angelo nel Gargano; Gabriele il messaggero di Dio, apparve al profeta Daniele; a Zaccaria annunciante la nascita di s. Giovanni Battista, ma soprattutto portò l’annuncio della nascita di Cristo alla Vergine Maria; Raffaele è citato nel Libro di Tobia, fu guida e salvatore dai pericoli del giovane Tobia, poi non citato nella Bibbia, c’è Uriele, nominato due volte nel quarto libro apocrifo di Ezra, il suo nome ricorre con frequenza nelle liturgie orientali, s. Ambrogio lo poneva fra gli arcangeli, accompagnò il piccolo s. Giovanni Battista nel deserto, portò l’alchimia sulla terra.
Lucifero era un angelo?
Sì. Il Concilio Lateranense IV, definì come verità di fede che molti Angeli, abusando della propria libertà caddero in peccato e diventarono cattivi. San Tommaso affermò che l’Angelo poté commettere solo un peccato d’orgoglio, lo spirito celeste deviò dall’ordine stabilito da Dio e non accettandolo, non riconobbe al disopra della sua perfezione, la supremazia divina, quindi peccato d’orgoglio cui conseguì immediatamente un peccato di disobbedienza e d’invidia per l’eccellenza altrui. Altri peccati non poté commetterli, perché essi suppongono le passioni della carne, ad esempio l’odio, la disperazione. Ancora s. Tommaso d’Aquino specifica, che il peccato dell’Angelo è consistito nel volersi rendere simile a Dio. La tradizione cristiana ha dato il nome di Lucifero al più bello e splendente degli angeli e loro capo, ribellatosi a Dio e precipitato dal cielo nell’inferno; l’orgoglio di Lucifero per la propria bellezza e potenza, lo portò al grande atto di superbia con il quale si oppose a Dio, traendo dalla sua parte un certo numero di angeli. Contro di lui si schierarono altri angeli dell’esercito celeste capeggiati da Michele, ingaggiando una grande e primordiale lotta nella quale Lucifero con tutti i suoi, soccombette e fu precipitato dal cielo; egli divenne capo dei demoni o diavoli nell’inferno e simbolo della più sfrenata superbia. Il nome Lucifero e la sua identificazione con il capo ribelle degli angeli, derivò da un testo del profeta Isaia (14, 12-15) in cui una satira sulla caduta di un tiranno babilonese, venne interpretata da molti scrittori ecclesiastici e dallo stesso Dante (Inferno XXIV), come la descrizione in forma poetica della ribellione celeste e della caduta del capo degli angeli. “Come sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora! Come sei stato precipitato a terra, tu che aggredivi tutte le nazioni! Eppure tu pensavi in cuor tuo: Salirò in cielo, al di sopra delle stelle di Dio innalzerò il mio trono… salirò sulle nubi più alte, sarò simile all’Altissimo. E invece sei stato precipitato nell’abisso, nel fondo del baratro!”
Cosa fanno gli angeli?
La Sacra Scrittura suggerisce più volte che gli Angeli godono della visione del volto di Dio, perché la felicità alla quale furono destinati gli spiriti celesti, sorpassa le esigenze della natura ed è soprannaturale. E nel Nuovo Testamento frequentemente viene stabilito un paragone fra uomini, santi e angeli, come se la meta cui sono destinati i primi, altro non sia che una partecipazione al fine già conseguito dagli angeli buoni, i quali vengono indicati come ‘santi’, ‘figli di Dio’, ‘angeli di luce’ e che sono ‘innanzi a Dio’, ‘al cospetto di Dio o del suo trono’; tutte espressioni che indicano il loro stato di beatitudine; essi furono santificati nell’istante stesso della loro creazione.
Quali sono gli attributi degli angeli?
Intelligenza e volontà. L’Angelo in quanto essere spirituale non può essere sprovvisto di queste due facoltà; anzi in lui debbono essere molto più potenti, in quanto egli è puro di spirito; sulla prontezza e infallibilità dell’intelligenza angelica, come pure sull’energia, la tenace volontà, la libertà superiore, il grande Dottore Angelico, s. Tommaso d’Aquino, ha scritto ampiamente nella sua “Summa Theologica”, alla quale si rimanda per un approfondimento.
San Tommaso era un appassionato studioso delle attività degli angeli, tanto da essere soprannominato ‘Doctor Angelicus’. A suo avviso gli angeli custodi hanno il compito di illuminare le nostre immagini, aiutando la nostra intelligenza a farci comprendere la verità.
Approfondì l’opera di Dionigi, scrivendo nella Summa Teologica che la distinzione delle gerarchie angeliche si fonda sulle diverse nature intellettuali degli angeli, sui diversi modi in cui essi sono illuminati dall’Essenza di Dio. Per questo gli angeli superiori hanno una visione delle cose più universale rispetto agli angeli minori, perché apprendono la verità delle cose da Dio stesso, mentre gli angeli della seconda gerarchia le comprendono attraverso le cause universali e quelli della terza dall’applicazione delle cause sugli effetti particolari. In pratica, la prima gerarchia è composta da angeli più vicini e più somiglianti a Dio, in quanto tali capaci di conoscere tutte le cose in un’unica “forma”. Gli angeli della seconda gerarchia conoscono gli effetti divini dal modo in cui essi scaturiscono dalle cause universali e vengono illuminati dalla prima gerarchia. Gli angeli della terza gerarchia ricevono una conoscenza di effetti divini.
Sempre secondo Tommaso, la prima gerarchia (Serafini, Cherubini e Troni) ha un rapporto diretto con Dio grazie al quale può considerare il Fine; la seconda (Dominazioni, Virtù e Potestà) il mezzo, ovvero la disposizione universale delle cose da farsi, l’ordinamento e il governamento del mondo; la terza (Principati, Arcangeli e Angeli) applica le disposizioni agli effetti, cioè esegue l’opera.
Chi lo vede come un segno di riverenza, chi come un elemento della tradizione che non deve essere abbandonato. Ma qual è il vero motivo per cui le donne lo indossano?
Una domanda che in tanti si pongono e a cui attraverso un piccolo excursus anche storico, cerchiamo di rispondere.
Le donne portano il velo alla Messa?
Ci sono donne che ancora oggi rimangono fedeli al velo intesta. Ma se guardiamo indietro, alle nostre nonne, ci accorgiamo che, poi, non è passato così tanto tempo da quando era uso diffuso. La domanda frequente è.
Perché la donna, in chiesa, copre il capo e gli uomini no?
Sotto il tuo manto (Frisina)
Non si tratta solo del velo. Anche in inverno, ad esempio, ci accorgiamo che alla donna è permesso indossare il cappello in testa, mentre agli uomini no. Un’usanza? Una tradizione prettamente cristiana? O c’è altro? In effetti ci sono delle spiegazioni ben precise per rispondere a questi interrogativi.
La moda, potrebbe dirci, ad esempio, che si tratta di qualcosa di obsoleto. Ma se guardiamo con occhi diversi, con il nostro essere cristiani, ci accorgiamo che, effettivamente, indossare il velo fa parte della tradizione cattolica. Pensiamo al velo solo per le spose, ma non a chi, invece, partecipa alla Messa.
Partiamo dal presupposto che, dovremmo ricordarci che stiamo entrando nella Casa di Dio, in un luogo sacro, dove di lì a poco, sarà celebrata la Messa e Gesù si offrirà nel suo corpo e nel suo sangue.
Non solo vestirci in modo rispettoso (e questo, lo troviamo già ovvio, specialmente durante il periodo estivo, quasi in tutte le chiese, troviamo affissi cartelli dove si richiede il rispetto, anche, nell’abbigliamento, del luogo sacro), e il velo diventa un segno di coerente dignità al luogo, quasi al doverci sentire preparati ancor di più, non solo internamente, ma anche all’esterno, a ciò che sta per avvenire.
Ciò che in chiesa si vela è sacro
Il velo non deve, però, essere indicato come “qualcosa che faccia capire che quello è il modo di vestire della donna”, non deve esser visto come qualcosa di denigratorio. Nel caso delle suore, il velo è segno della loro piena consacrazione a Dio. Ma ogni donna è sacra e quando in chiesa di vela qualcosa, vuol dire che questa è sacra.
Il velo che la donna è invitata ad indossare in chiesa è segno di un valore che lei ha, di un qualcosa di ancora più sacro agli occhi di Dio.
Se, invece, volessimo affiancarci alla tradizione vera e propria, il velo rappresenta la riverenza, il rispetto verso Dio nel suo luogo sacro. Il velo è un segno di devozione, di umiltà.
Come quando entriamo in chiesa e ci segniamo con il segno di croce, abbassiamo la voce in rispetto al luogo e a chi è lì a pregare, dove gli uomini si tolgono il cappello, il velo della donna rappresenta la sua devozione e il suo rispetto davanti al grande Mistero lì presente.
Il velo: nero o bianco?
Ma c’è un altro quesito: perché alcune donne indossano il velo nero ed altre quello bianco? Anche qui, la tradizione è ancora più radicata, specie nelle zone del Sud Italia. Tradizione vuole che il “velo nero” sia usato soltanto in caso di lutto o di Messa funebre, quasi come fosse un segno di sofferenza che vela il viso della donna al mondo esterno e non faccia scoprire, ad esempio, le lacrime agli occhi.
Dall’altro lato, invece, il velo bianco. No, non quello della sposa, ma come quello nero, ci sono alcune donne che si coprono il capo con il velo bianco. Anche qui tradizione vuole che quello bianco lo indossino “le donne che non sono sposate” e, come ci raccontano le nostre nonne, indossare il velo bianco serviva anche ai ragazzi per capire quali erano le donne da marito.
Oggi, ovviamente, c’è chi rispetta questa tradizione ancora e chi no. Anzi: ai nostri giorni, facendo un pò più d’attenzione, è possibile anche vedere in chiesa donne che indossano veli di colore azzurro, beige, marrone, verde o anche rosso. Non c’è più questa differenza così netta e, anche dopo il Concilio Vaticano II, non c’è più neanche “l’obbligo” per le donne dell’uso del velo in chiesa.
Chi lo indossa lo fa per tradizione: sì, proprio quella che descrivevamo poco fa. Insomma: un gesto di rispetto sì, che ci porta anche indietro nel tempo.
Rosalia Gigliano
Quando si pensa a una donna con il velo si pensa generalmente a una donna di religione islamica. Sembrerà strano, ma il velo non è un simbolo originario dell’Islam. Scopriamo da dove viene e in quali culture esistono o sono esistite “donne velate”.
Quando compare per la prima volta il velo?
Assiri, i Sumeri e gli Egiziani, e la gran parte delle popolazioni che abitavano l’odierno Medio Oriente, usavano il velo. Inizialmente, in queste civiltà, il velo non era riservato alle donne: coprirsi il capo era un segno di potere, cioè indicava l’appartenenza a un settore privilegiato della società. È nel codice di Hammurabi (1760-1750 a.C. circa), un’antica raccolta di leggi conservata oggi al Louvre di Parigi, che troviamo i primi riferimenti all’obbligo di usare il velo da parte delle donne, che cominciano ad essere confinate nell’ambito della casa.
Nel codice di Hammurabi si legge che le donne devono coprirsi il capo in segno di umiltà e di sottomissione alla divinità. L’usanza si diffonde anche presso i Greci e i Romani: per loro, una donna con il capo scoperto era una donna che aveva rinunciato alla sua “modestia”, cioè all’obbedienza all’uomo della famiglia. Per cui non poteva essere una donna rispettabile.
Il velo nella Bibbia
Anche le donne ebree avevano l’usanza di coprirsi il capo, lo raccontano vari episodi che troviamo nella Bibbia. Il velo ebraico è un simbolo dal valore religioso e sociale, che rappresenta per la donna sottomissione ai voleri di Dio e dell’uomo.
Secondo la tradizione tramandata da vari testi sacri dell’ebraismo, come la Torah e il Talmud, le donne ebree hassidimite (o chassidimite) il giorno del matrimonio avevano l’obbligo di tagliarsi i capelli e dal quel momento portare un velo colorato per coprirsi. Per gli ebrei di oggi, l’obbligo di usare un copricapo per le donne si ritrova solo in piccole comunità legate alle tradizioni. Per gli uomini invece è rimasto, possiamo vederlo entrando in qualsiasi sinagoga: lo chiamano Kippah.
La “velatio”cristiana: come nasce il velo da sposa
Dall’ebraismo il simbolo del velo si trasferisce al cristianesimo: i riti nuziali dei primi cristiani prevedevano infatti la cerimonia della “velatio”(velazione). Un velo veniva posto sul capo di entrambi gli sposi in origine, a simboleggiare la loro comunione con lo Spirito, e dal quel momento la donna doveva velarsi.
Il velo cristiano aggiunge però al velo ebraico un significato di “purezza”: non a caso anche la Madonna è sempre raffigurata velata. Molti riferimenti al valore del velo si trovano negli scritti di San Paolo, che lo descrive come “vestimento di devozione a Dio”.
Questo significato simbolico si ritrova ancora oggi nell’abbigliamento di suore e monache, le donne che, appunto, si sono consacrate a Dio. O, semplicemente, entrando in chiesa, possiamo intravederlo nelle donne anziane che tuttora mantengono l’usanza.
by Linda Monticelli
Conosci la storia del velo indossato da Maria quando diede alla luce Gesù?
Scopriamo la storia del velo indossato dalla Madonna quando diede alla luce Gesù.
Sebbene la maggior parte sia andata persa nella storia, alcune delle prime reliquie della Chiesa sopravvivono ancora oggi. Le reliquie che rimangono sono conservate in modo sicuro e conservate in tutto il mondo nelle chiese e nelle cattedrali per essere viste e venerate dai Fedeli.
Tuttavia, dell’ Assunzione in Cielo di Maria non rimangono reliquie corporee. Una delle rare reliquie esistenti è quella detta la sancta camisia, il velo che indossava mentre dava alla luce Gesù Cristo e anche mentre stava ai piedi della Croce.
La tradizione racconta che sancta camisia, in italiano santa camicia, è il velo che venne indossato dalla Vergine Maria durante la Nascita di Cristo. Il velo è lungo più di sei metri e fatto di seta.
Dopo l’Assunzione di Maria, si dice che il velo fu spostato da Gerusalemme a Costantinopoli, dove l’imperatrice bizantina Irene lo presentò all’ Imperatore Carlo Magno. Nell’ 876, suo nipote Carlo il Calvo lo donò alla cattedrale di Chartres in Francia, dove è rimasto per oltre 1100 anni.
Il Velo della Madonna è conservato in un reliquiario d’oro accanto all’altare maggiore e ha sviluppato come centro di molte tradizioni nel corso dei secoli.
Miracoli o eventi per grazia del velo
Per esempio, nel 911, quando il bandito Rollo e i suoi scagnozzi assediarono Chartres, la gente del posto prese il velo dalla chiesa e la sfilò come una bandiera di guerra. Rollo e i suoi uomini furono sconfitti e l’assedio fu revocato.
Nel 1145, il velo fu quasi distrutto quando la chiesa che lo ospitava prese fuoco. Alcuni membri del clero attraversarono le fiamme nella cripta delle chiese, con il velo in mano. Si dice che tre giorni dopo siano riemersi completamente illesi per l’intercessione di Maria. Il fenomeno fu considerato un miracolo e come segno che dalle ceneri della vecchia chiesa dovesse risorgerne una nuova. La cattedrale di Chartres fu costruita al suo posto.
Le prove scientifiche sul velo lo hanno datato al I secolo d. C., di origine siriana, dando credito alla tradizione secondo cui il velo fu indossato da Maria stessa. Oggi è custodito in modo sicuro in un reliquiario d’oro accanto all’altare della cattedrale di Chartres. Ogni anno il 15 agosto, festa dell’Assunzione di Maria, il velo viene portato in processione a Chartres.
Francesco Frigida
Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Con la domenica di Pasqua di risurrezione si è aperto nella Chiesa il tempo della celebrazione della Pasqua che durerà 50 giorni, ossia fino alla Pentecoste. E’ il tempo più intenso dell’intero anno. Viene inaugurato nella Veglia pasquale e si celebra per sette settimane fino alla Pentecoste, festa della venuta dello Spirito Santo. È la Pasqua di Cristo Signore, che è passato dalla morte alla vita, alla sua esistenza definitiva e gloriosa. L’evento della Risurrezione del Signore è un fatto tanto importante e trascendentale che la Chiesa ha stabilito che sia preparato dai 40 giorni della Quaresima e che fosse seguito – come continuità della celebrazione, come se fosse un unico giorno di festa – da altri 50 giorni fino alla Pentecoste.
Ascolta e Prega” Lo Spirito di Dio”
Un documento, in verità poco conosciuto che porta il titoloPaschalis sollemnitatis per la Preparazione e celebrazione delle feste pasquali pubblicato il 16 gennaio 1988 dalla Congregazione per il Culto divino al numero 100 scrive: “La celebrazione della pasqua continua nel tempo pasquale. I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di risurrezione alla domenica di Pentecoste, si celebrano nella gioia come un solo giorno di festa, anzi come «la grande domenica». Le domeniche di questo tempo vengono considerate come domeniche di Pasqua”. In realtà tutti i giorni che seguono e seguiranno all’evento pasquale della Risurrezione del Signore Gesù fino alla discesa dello Spirito Santo sono Tempo di Pasqua. Non accadrà più nella storia della Chiesa un avvenimento così trascendentale e misterioso fino al ritorno del Signore con potere e gloria grande a giudicare i vivi e i morti. Intanto con la Chiesa camminiamo verso quell’appuntamento, convinti che siamo stati salvati dalla Passione, Morte e Risurrezione del Signore attraverso il sacramento del Battesimo e l’azione dello Spirito Santo e viviamo nella attesa della sua ultima venuta. In questi 50 giorni la Chiesa pone uno speciale impegno perché i risorti con Cristo vivano secondo la nuova vita inaugurata dal Signore Gesù con la sua Risurrezione dai morti e iniziata in per mezzo del Battesimo.
Questa vita nuovasi caratterizza dal fatto che una vita nello Spirito e secondo lo Spirito del Signore. Lo Spirito Santo è il dono del Signore Risorto, il Dono dei doni, dal quale tutti gli altri derivano. Dono gratuito, che tuttavia, deve essere accolto e corrisposto.
Lavita secondo lo Spiritosi connota dai segni e dai carismi che la accompagnano. Tanto negli incontri del Signore risorto con i suoi discepoli, come nella Discesa dello Spirito Santo, così come nella vita delle comunità cristiane originate dalla fede in Cristo risorto e dalla Pentecoste si riscontrano tra i doni e i carismi: la pace, la gioia, la libertà, la fraternità nella comunità dei discepoli, lo spirito di preghiera, la celebrazione della Eucarestia e della Parola di Dio, il sentirsi inviati quali testimoni della Risurrezione e della speranza cristiana con la stessa missione con la quale furono inviati i primi discepoli del Signore che dopo la discesa dello Spirito Santo andarono in tutto il mondo ad annunciare le grandi meraviglie compiute dal Gesù di Nazareth il Cristo della fede.
Per alimentare e mantenere la vita nuova del risorto con Cristo sono a nostra disposizione la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, la vita sacramentale, la vita della comunità cristiana.
Fin dal principio i discepoli del Signore ebbero come forte punto di riferimento la celebrazione della Domenica, il giorno del Signore che è il signore dei Giorni. Esso divenne subito il giorno della comunità per vivere l’esperienza dell’incontro di tutta la comunità con il Signore e con tutti i fratelli e porre in comune la vita vissuta nel corso della settimana e prendere forza per continuare a vivere da cristiani in mezzo al mondo durante la nuova settimana che inizia.
Gli antichi abitanti di Abitene dicevano: “Senza la domenica non possiamo vivere!”
Quando finisce Pasqua? Non certo il giorno di Pasqua, anzi è proprio dal triduo pasquale che inizia il tempo più gioioso per la comunità ecclesiastica : il tempo pasquale. Parlare di gioia in questo momento è un toccasana per cui è importante raccontare meglio i 50 giorni fino alla Pentecoste.
Dopo la Pasqua altri due momenti importanti segnano l’anno del cristiano: l’Ascensione e la Pentecoste. Due feste tra le più significative del tempo liturgico a distanza di pochi giorni l’una dall’altra . Proprio per questo diciamo che il tempo pasquale è un periodo non solo forte, ma addirittura fortissimo della fede.
A 40 giorni dalla Pasqua l’Ascensione celebra l’ascesa di Cristo al cielo in carne e ossa svelando quale sia il destino dei Figli di Dio e quindi di tutti noi grazie alla salvezza veicolata attraverso il sacrificio pasquale.
A 50 giorni giorni dalla Pasqua la Pentecoste segna un altro momento fondamentale: l’effusione dello Spirito Santo e la creazione della Chiesa.
Sono questi due momenti che completano la Pasqua. Senza di loro la morte di Gesù resterebbe un mistero e non si riuscirebbe a capire il senso della redenzione attraverso il sacrificio del corpo di Cristo.
Il tempo pasquale però non è solo un tempo di attesa della festa, ma è un tempo attivo in cui Gesù continua ad apparire ai suoi discepoli per insegnare, dando prova a tutti noi fedeli che la morte non è la fine di tutto e che Cristo è sempre presente nella sua Chiesa.
La gioia espressa dall’ Alleluja, il cero pasquale, la presenza via via sempre più forte dello Spirito Santo (fino a Pentecoste) , la forza dell’Eucarestìa e dei Sacramenti fanno da bussola a questi 50 giorni.
Di tutti questi segni però l’Eucarestìa e l’adorazione eucaristica sono il vero cuore del tempo pasquale: non a caso tra i precetti della fede c’è quello di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno, preferibilmente in questi giorni.
Ma la Chiesa si spinge ben oltre, perché al di là del “minimo” dovuto, l’invito è quello a vivere quotidianamente l’Eucarestìa almeno in questi 50 giorni, proprio per assaporare la festa e il banchetto perenne di questa finestra temporale.
La cinquantina che va dalla Risurrezione di Cristo alla Pentecoste è il tempo del Signore Risorto e dello Spirito Santo. I catecumeni che divengono nella notte di Pasqua fedeli a pieno titolo con il Battesimo, non ricevono più l’istruzione catechistica ma la mistagogia, catechesi mistagogica, in quanto sono ormai iniziati al Mistero di Gesù Cristo, morto e Risorto. I nostri adulti che hanno riscoperto nella notte di Pasqua il valore del loro Battesimo, s‚impegnano a vivere una vita nuova in Cristo. La conversione è dono di Dio, l’uomo è chiamato a rispondere e collaborare ogni giorno, perché è un “rinnovato” che sempre si rinnova. L’uomo, credente adulto nella fede, deve sì avere entusiasmo e slancio religioso, ma questi devono emergere dal mistero di Gesù Cristo, il Risorto di cui egli è testimone, dall’approfondimento della Parola, dai Sacramenti, dalla Liturgia che diventa vita, dalla ferialità del mistero di Cristo nella nostra storia quotidiana. Ora, la stessa liturgia essendo culmine e fonte (SC 10), ha bisogno sia di una preparazione catechetica che di una prosecuzione mistagogica. Volendo presentare la realtà del tempo pasquale, tempo fortemente battesimale, secondo una prospettiva catechetico-mistagogica, è opportuno partire dai segni per risalire alla realtà da essi significata. Secondo il Rinnovamento della catechesi (RdC), infatti,i segni vanno utilizzati con questi accorgimenti:
Devono lasciar trasparire la realtà divina che in essi si esprime e si comunica all’uomo;
devono essere traduzione-attuazione della gloria divina per l’uomo;
ciò che conta non è tanto il loro “simbolismo naturale” quanto piuttosto la verità di salvezza che esso evoca e misticamente realizza;
la pedagogia del segno esige che esso renda familiare il passaggio dai segni visibili agli invisibili misteri;
si eviterà un duplice rischio: parlare dei segni senza riferimento al mistero, presentare il mistero senza riferimento ai segni (RdC 32,78,115,175).
Il Fuoco
Nella notte di Pasqua, nella solenne Veglia, la celebrazione si arricchisce in modo evidente del simbolismo del fuoco. Il braciere, che arde fuori della chiesa e da cui si accende il cero, attrae l’attenzione dei fedeli in questo primo momento che prepara la celebrazione pasquale. Il trionfo della luce sulle tenebre, del calore sul freddo, della vita sulla morte (mistero poi solennemente proclamato da letture e azioni sacramentali della più solenne tra le notti) è già sinteticamente espresso in questo concreto linguaggio del fuoco nuovo, intorno al quale si riunisce la comunità. Seguirà la processione con il grido gioioso: “La luce di Cristo”, e la luce si comunicherà progressivamente ad ogni partecipante. La preghiera del Messale Romano che accompagna la benedizione del fuoco, ci appare piuttosto espressiva: “O Padre, che per mezzo del tuo Figlio ci hai comunicato la fiamma viva della tua gloria, benedici questo fuoco nuovo, fa che le feste pasquali accendano in noi il desiderio del cielo, e ci guidino, rinnovati nello spirito, alla festa dello splendore eterno“. Il fuoco è presente, nella liturgia, anche in altre occasioni o realtà: nelle lampade e nei ceri accesi durante la celebrazione o davanti al tabernacolo. Qui, oltre al simbolismo della luce, vi ritroviamo la misteriosa realtà del fuoco: la fiamma che si consuma lentamente mentre illumina, abbellisce e riscalda, dando senso poetico e familiare alla celebrazione. Altra solenne occasione, sebbene meno conosciuta, è il rito della Dedicazione della chiesa. Si accende il fuoco in un braciere che è posto sull’altare e vi si brucia l’incenso. Su quella mensa sta per rinnovarsi il memoriale del sacrificio di Cristo. Nell’Antico Testamento era il fuoco a consumare i sacrifici; ora s‚invoca in qualche modo la forza santificatrice di Dio sul nostro sacrificio. Il fuoco, com‚è detto chiaramente dal canto del “Veni Creator”, è lo Spirito Santo, invocato in ogni Eucaristia sui doni del pane e del vino per operare la loro misteriosa trasformazione nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Il fuoco è il simbolo del sacrificio di Cristo e del potere santificante di Dio, che prende possesso dell’altare e di ciò che su di esso sarà celebrato.
Il cero pasquale acceso e la luce
Nell’anno liturgico, se esiste una celebrazione il cui inizio è un vero gioco simbolico di luce, questa è la Veglia pasquale. Il popolo, riunito nell’oscurità, così come abbiamo già commentato, vede la nascita del fuoco nuovo da cui si accende il cero pasquale, simbolo di Cristo. Il cero pasquale, infatti, è il segno del Cristo risorto luce vera del modo che illumina ogni uomo; è la luce della vita che impedisce di camminare nelle tenebre. è il segno della vita nuova in Cristo che, strappandoci dalle tenebre, ci ha trasferito con i santi nel regno della luce; Cristo brillò su di noi che eravamo tenebre, ma ora siamo luce nel Signore (Ef 5,14). è il segno che ci permette di vivere come figli della luce (Ef 5,8), di rigettare le opere delle tenebre (Rm 13,12), di restare in comunione con Dio (1 Gv 1,5), di conservare l’amore con i fratelli (1 Gv 2,8-11). è anche segno di fedeltà a Dio e vigilanza nella preghiera e nell’attesa. Dietro questo cero acceso cammina processionalmente la comunità cantando per tre volte un grido di giubilo. Ogni volta si accendono le candele: i cristiani restano contagiati dalla luce di Cristo, che incarna il simbolismo, e questa si espande sempre di più. Infine il cantore del preconio pasquale (diacono possibilmente) intona le lodi della beata notte, illuminata dalla luce di Cristo. Non sono necessarie molte spiegazioni del simbolismo della luce in questa Veglia. La sua intenzione è evidente, tanto da contagiare e avvolgere i credenti, comunicando loro con la sua forza espressiva l’entusiasmo del mistero celebrato: “Questa notte fonte di luce sconfigge il male, lava le colpe, restituisce la gioia agli afflitti·” Durante i cinquanta giorni di Pasqua, in tutte le celebrazioni accendiamo il cero pasquale come in altri momenti diamo grande importanza al simbolismo della luce.
L’acqua
L’acqua è davvero una realtà polivalente: disseta, pulisce e purifica, ci rinfresca nei giorni di calura; è fonte di vita per i campi e dà origine alla forza idraulica. Nella liturgia della solenne notte e in altri riti liturgico sacramentali essa assume significato come acqua che purifica; segno di Cristo, acqua viva che spegne ogni sete e simbolo di vita e di morte. Tralasciando tutti gli altri riti, nella Veglia pasquale, la notte battesimale per eccellenza, l’acqua, come linguaggio simbolico, raggiunge l’apice di solennità e di significato.
Anche quando non ci sono battesimi, in quella notte in tutte le comunità cristiane si commemora il Battesimo, sacramento per mezzo del quale siamo radicalmente assunti e incorporati alla pasqua di Cristo, passaggio dalla morte alla vita. Le altre domeniche sono come il prolungamento e rinnovazione settimanale della domenica per eccellenza, la festa di Pasqua.
Il simbolo dell’acqua lo terremo presente innanzitutto per il sacramento del Battesimo (immersione o infusione). Poi si rivive tale ricordo battesimale attraverso: l’aspersione all’inizio della Messa domenicale (soprattutto nella cinquantina pasquale), il gesto di prendere l’acqua benedetta entrando in chiesa, le varie benedizioni in cui si asperge con l’acqua benedetta, il rito della Dedicazione della Chiesa dove si asperge il popolo e le pareti del tempio. l’aspersione dell’acqua è proposta più volte come gesto facoltativo anche nell’unzione degli infermi ed, infine, anche nella celebrazione delle Esequie.
l’acqua, per noi cristiani, è un simbolo d‚affetto con il quale Dio ha voluto purificarci, appagare la nostra sete e farci rinascere nel mistero della pasqua di Cristo.
Abbiamo scelto solo alcuni dei segni della Pasqua. Dai segni che esprimono il linguaggio del mistero, bisognerà passare ai segni della vita. I cristiani, infatti, devono annunciare Cristo, qui e ora, con la loro vita e non con tante parole, solo così la fede diventa creativa, personalizzata, illuminante.
La maturità del cristiano si manifesta con l’attenzione alla storia e alla cultura, nelle quali è chiamato a far rivivere Cristo mediante la sua imitazione (il “per me il vivere è Cristo” di San Paolo) in maniera originale ed unica, mediante una spiritualità feriale e metodica (il quotidiano). Allora i Sacramenti e la Parola diventano fonti di passione, di gioia e di slancio missionario.
I cristiani diventano i “segni” che il Signore tramanda nella storia mediante i suoi discepoli testimoni. I testimoni d‚ogni tempo si riconoscono dai frutti dello Spirito: carità, gioia, pace, pazienza, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza, temperanza.
Come Gesù con i discepoli di Emmaus, anche noi siamo chiamati ad annunciare il Kerigma contro l’antievangelo dei discepoli disperati, purificandoli con il fuoco del sacrificio di Cristo, illuminandoli con la luce della sua Risurrezione, immergendoli in Cristo, acqua che zampilla per la vita eterna, e sostenendoli nella fede del Signore Risorto che rimane con noi fino alla fine dei tempi.
(da Alleluja.net)
Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
IL Re dorme La terra tace perché il Dio fatto carne si è addormentato
Ha svegliato coloro che da secoli dormono
Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati Lc 23,50-56 – Sepoltura di Gesù
IL SABATO SANTO È L’ORA DELLA MADRE
“Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il mio Signore ». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: « E con il tuo spirito ». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: “Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura.Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli ».“Da un’antica « Omelia sul Sabato santo ». (PG 43, 439. 451. 462-463) OrazioneO Dio eterno e onnipotente, che ci concedi di celebrare il mistero del Figlio tuo Unigenito disceso nelle viscere della terra, fa’ che sepolti con lui nel battesimo, risorgiamo con lui nella gloria della risurrezione. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.A cura dell’Istituto di Spiritualità: Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino
Il Sabato Santo è il giorno del silenzio, unico giorno della Settimana Santa in cui non è prevista alcuna liturgia, non si celebrano messe e l’Eucaristia viene data solo a chi è in punto di morte. I riti religiosi del Sabato Santo iniziano al calare del giorno. La notte del Sabato Santo è il momento in cui la Settimana Santa inizia ad andare verso il suo apice con i riti religiosi della veglia pasquale in cui si celebra la resurrezione di Cristo.
Nella giornata del Sabato Santo, il corpo di Gesù Cristo, tolto dalla croce su cui è morto il Venerdì santo e deposto nel sepolcro, viene preservato dalla corruzione grazie alla virtù divina, discende agli inferi con la sua divinità e con la sua anima umana, ma non con il suo corpo. Secondo certe tradizioni cristiane, resta negli inferi per un tempo corrispondente a circa quaranta ore, compiendo la sua vittoria sulla morte e sul diavolo, libera le anime dei giusti morti prima di lui e apre loro le porte del Paradiso.
Portata a termine la missione, la divinità e l’anima di Gesù si ricongiungono al corpo nel sepolcro: ciò costituisce il mistero della resurrezione, centro della fede di tutti i cristiani, che verrà celebrato nella seguente domenica di Pasqua.
Sabato Santo: giorno del silenzio
Il Sabato Santo è considerato un giorno di silenzio, di raccoglimento, di meditazione, per Gesù che giace nel sepolcro. Si attende l’annuncio della risurrezione di Gesù, che avverrà durante la solenne veglia pasquale.
Un’antica omelia recitava così: “Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi”.
L’Ora della Madre, liturgia del dolore nella speranza
Fin dai primi secoli dell’era cristiana, esiste una liturgia nel Sabato Santo che accompagna Maria nell’attesa e si stringe a lei in questo giorno di silenzio. Una celebrazione del rito orientale, accolta anche in quello latino.
L’Ora della Madre è un’antica liturgia, recitata la mattina del Sabato Santo dal 1987, Anno Mariano, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove fu per la prima volta officiata – IX secolo – dai santi Cirillo e Metodio. La celebrazione alterna salmi, letture e brevi preghiere ritmiche, i cosiddetti “tropari” della liturgia bizantina. Ma la celebrazione non si svolge soltanto nella papale arcibasilica maggiore: il favore di cui gode l’ha estesa anche ad altri luoghi. Per due volte è stata celebrata a San Pietro, per desiderio di san Giovanni Paolo II e, anche oggi, in altre chiese. Questa tradizione è alimentata da padre Ermanno Toniolo, dell’Ordine dei Servi di Maria, direttore del Centro di cultura mariana di Roma e docente emerito della Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”. Nata in ambiente bizantino, L’Ora di Maria diventa legame vivo tra oriente e occidente.
Maria addolorata
Nessun dolore è più grande di quello di una madre che ha perso il figlio. Immaginiamo il dolore di Maria: sapeva quello che doveva accadere e ha imparato ad accettarlo per tutta la vita, fin da quel primo sì dell’Annunciazione. Vede compiersi tutto sotto i suoi occhi con la sicura consapevolezza della fede che suo figlio è Dio, ma lo vede soffrire come un uomo qualsiasi, sottoposto ad atroci torture e umiliazioni e condannato alla pena capitale. La Vergine riconosce quel dolore che le aveva predetto Simeone, “A te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). Citando Paolo nella Lettera ai Romani (4,18), a proposito di Abramo, padre Toniolo, scrive che Maria “Credette contro ogni evidenza, sperò contro ogni speranza”.
L’Ora della Madre: Lei sa che Gesù ritornerà glorioso
Il sì di Maria
Sotto la croce, Maria pronuncia ancora una volta – nel silenzio del suo cuore – il suo sì incondizionato. Il dolore di Maria non è disperato, ma è comunque straziante, perché è il dolore purissimo di una madre. Trascorre il sabato, quel giorno interminabile in cui attende che tutto si compia. Questa forza nella fede, questa speranza sicura certamente non ha potuto lenire il suo dolore. Ha dovuto assistere all’agonia del Figlio e alla sua morte. L’ha cullato per l’ultima volta tra le braccia, prima di lasciarlo portare via per la sepoltura. Ha dovuto accettare il distacco e quel vuoto che le è calato addosso. Impossibile capire quanti pensieri “serbava nel suo cuore” (Lc 2, 51) nel frastuono dei lamenti delle pie donne e fra gli Apostoli smarriti. Sola, pur non nella solitudine e nell’abbandono: Cristo prima di morire ha pensato a sua Madre e a tutti gli uomini. Prima di spirare, dalla croce affida sua Madre a Giovanni:
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa. (Giovanni 19, 26 -27)
“L’urlo di pietra” della Maddalena del Compianto sul Cristo morto in terracotta di Niccolò dell’Arca, conservato a Santa Maria della Vita a Bologna è tra le opere più impressionanti e misteriose della seconda metà del XV secolo.
Unione della Madre con il Figlio
Così, tutta la Chiesa si stringe intorno a Lei, che diventa ponte tra il Figlio e l’umanità, tra la morte e la vita, in attesa della Risurrezione. Se Venerdì Santo è l’ora del Cristo, morto sulla croce, il Sabato Santo è l’Ora della Madre.
Idea progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto e hai preparato la croce al tuo Salvatore
Riflessione (traccia) domenica delle Palme A
HÁGIOS O THEÓS.SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna, t’ho fatto entrare in terra feconda e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara e la mia sete hai spento con l’aceto, hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti, tu mi hai portato davanti al Sinedrio e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.
Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice
La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.
Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).
L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).
Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.
LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO
Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.
I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA
La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.
Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.
Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici
Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile. Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.
Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.
I molti nomi di Sukkot
I riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.
Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?
Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.
Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo
Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.
Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).
Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.
Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.
E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?
Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.
Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].
Cosa simboleggiano le quattro specie?
Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.
Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.
Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.
Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.
Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico
Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?
Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…
Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]