Povertà è una parola complessa. Ha accezioni negative e positive al tempo stesso: viene associata a mancanza e privazione, ma anche a beatitudine e aspirazione di vita. Il povero è da commiserare, è colpevole della propria condizione, oppure è un santo, che ha compreso il segreto di una vita felice. È una persona da aiutare, oppure un esempio da imitare. L’economista iraniano Majid Rahnema, nel suo libro Quando la povertà diventa miseria individua cinque forme di povertà:
«Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale» (2005, Einaudi).
Cinque forme di povertà, ma non tutte maledizioni; alcune addirittura vie di felicità. C’è infatti povertà e… povertà. Il titolo originale del libro dell’economista iraniano è molto più eloquente della sua traduzione italiana: Quand la misère chasse la pauvreté, cioè Quando la miseria scaccia la povertà. In certe circostanze, infatti, la miseria è talmente grave da rendere impossibile il vivere la povertà intesa come virtù liberamente scelta: se non ho il denaro per nutrire i miei figli, o per curarli, è impossibile scegliere una vita sobria e generosa. «Per l’uomo con lo stomaco vuoto, il cibo diventa Dio», diceva Gandhi; e quando l’uomo è in una tale condizione, diventa facilmente schiavo di chi gli promette quel cibo. Anche l’economista Alfred Marshall così si esprimeva nel 1890: «È vero che persino un uomo povero può raggiungere nella religione, negli affetti famigliari e nell’amicizia la felicità più alta. Ma le condizioni che caratterizzano la povertà estrema tendono ad uccidere questa felicità». Potremmo dunque dire che la povertà è una benedizione e la miseria invece una maledizione. La miseria va dunque combattuta, la povertà può diventare un’ideale di vita, che porta alla felicità. Quest’ultimo nesso è difficile da comprendere: perché privarsi volontariamente di beni e ricchezze può renderci felici? “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli” (Lc. 6,20). I poveri sperimentano il regno dei cieli già su questa terra: «Un regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano: la provvidenza è per Lucia, non per don Rodrigo. Le feste più belle sono le feste di poveri: forse sulla terra non ci sono cose più gioiose di matrimoni e nascite celebrate da poveri in mezzo ai poveri» (Luigino Bruni, «Avvenire» 2015).
Donne e povere: una doppia marginalità
Purtroppo, anche quando parliamo di miseria e di costrizione ad una vita povera, dobbiamo constatare che esistono differenze tra uomini e donne: neanche la miseria livella i generi. Ho recentemente incontrato una donna che per 13 anni ha lavorato come badante senza tutele: ora è senza lavoro, senza possibilità di pensione, in cerca disperata di un’opportunità, e quindi pronta a rimanere invisibile pur di avere di che mangiare. Qui si apre il tema della minore autonomia finanziaria delle donne che le espone ad una maggiore fragilità di fronte a eventi sfortunati. La maggioranza delle donne non possiede un conto bancario, se sposate non hanno la titolarità dei conti, e, avendo meno pratica, sono anche meno competenti in questi ambiti. E purtroppo esiste una correlazione ben documentata tra autonomia finanziaria e violenza domestica: le donne più soggette a violenze domestiche sono quelle che non hanno la libertà e l’autonomia per allontanarsi da mariti violenti. Quello della violenza è ormai un fenomeno conosciuto, ma ci sono tanti altri ambiti in cui le donne non sono conosciute e riconosciute, soprattutto quando rischiano impoverimento ed esclusione.
A volte, infatti, i dati che raccogliamo distorcono la realtà, spesso perché pensati da uomini e avendo l’uomo come norma. È la tesi di Caroline Criado Perez, che nel suo libro Invisible women: exposing data bias in a world designed for men (Chatto & Windus, London 2019) cita tanti esempi di come le statistiche non vedano lo specifico e le esigenze delle donne, e quindi restituiscono un quadro deformato della realtà. E se poi le politiche si basano su questi dati, va da sé che le donne abbiano vita più difficile. Secondo l’autrice le donne sono invisibili nella vita quotidiana: pensiamo al lavoro domestico (associato alle donne) che viene visto come un fenomeno normale; nella progettazione delle città: quanti piani urbanistici tengono conto di chi si sposta normalmente per fare la spesa?; sul lavoro: il divario salariale tra uomo e donna per lo svolgimento di mansioni identiche è ormai noto; nella tecnologia: solo per citare un esempio, il software di Google ideato per la dettatura decifra il linguaggio maschile con una probabilità del 70 per cento superiore rispetto a quello femminile; in campo medico: prendere il corpo maschile come paradigma e oggetto di studio porta, ancora oggi, ad un maggior numero di diagnosi sbagliate per le donne, e limita la ricerca su patologie tipicamente femminili.
Se ci ricordassimo più spesso che l’essere umano è maschio e femmina, anche le azioni di contrasto alla miseria sarebbero più efficaci.
La povertà è una scelta solo quando si è superata la miseria
Tornando alla differenza tra povertà e miseria, è importante riconoscere un legame tra queste due condizioni: solo chi sceglie liberamente uno stile di vita povero, solo chi rinuncia ai beni e sperimenta la condizione di povertà, può aiutare i miseri a risollevarsi. Tutto ciò che, invece, arriva dall’alto in basso, e vede la condizione di deprivazione solo come un problema da risolvere, non avrà mai le chiavi giuste per combattere efficacemente la miseria. Luisa de Marillac, Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Giovanni Battista Scalabrini (fatto santo il 9 ottobre da Papa Francesco), Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Calabria, Francesca Cabrini, Giovanni Bosco, Madre Teresa, scegliendo la via della povertà, hanno ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei vergognosi, nei derelitti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di grande e di bello per cui valse di spendere la loro vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguirono, attratti e ispirati dal loro esempio. In questa scia di precursori e profeti, le figure di donne spiccano per coraggio e capacità di andare controcorrente, considerato il fatto che sono state generalmente relegate in secondo piano. Purtroppo l’esempio e le gesta di queste donne, molte delle quali fondatrici di Istituti e ordini religiosi, è meno conosciuto rispetto a quello dei loro “colleghi” uomini. Anche oggi molti istituti religiosi femminili sono sulla frontiera di quella che potremmo chiamare miseria nella miseria di molte donne: traffico di esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne, alfabetizzazione ed educazione finanziaria, soprattutto nei Paesi in cui alle donne non è dato accesso a percorsi ordinari di istruzione, aiuto alla maternità, laddove si può facilmente morire nel dare alla luce una creatura.
Il lavoro delle consacrate non è quello di una ong
In che cosa il lavoro di tante donne consacrate a favore di altre donne si differenzia da quello di tante agenzie internazionali? Innanzitutto lo scopo: rendere vive le parole di Gesù «sono venuto a portare vita e vita in abbondanza» (Gv. 10,10). Portare la tenerezza di Dio per ogni creatura, soprattutto per gli emarginati e gli esclusi. In secondo luogo c’è un come, che è un già e un non ancora. Una proposta cristiana perché non ci siano esclusi, quella della comunione dei beni. Nella prima Comunità cristiana, leggiamo negli Atti degli Apostoli: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e poi veniva distribuito secondo il bisogno» [At. 4, 34-35]. La messa in comune era libera e spontanea, e i beni venivano ripartiti secondo le necessità. La conseguenza della messa in comune è che nella Comunità “non c’erano bisognosi”. Quando in una Comunità si dona con gioia e si condivide tutto, non ci sono bisognosi. Una scelta di sobrietà individuale condivisa tra tanti genera comunità inclusive. L’apostolo Paolo, in ogni piccola chiesa da lui fondata, provvedeva a organizzare le collette e nelle sue lettere spiega come realizzarle, per questo insiste, richiama e ringrazia. Da san Paolo impariamo che si condividono i beni, ma anche il proprio lavoro, perché tutti abbiano qualcosa da dare e che la Provvidenza è un attore fondamentale nella condivisione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore… Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente» [2 Cor. 9, 7.10].
La Provvidenza e il centuplo non si manifestano sempre sullo stesso piano dei doni e dei beni che vengono messi in comunione. Ad un privarsi di beni materiali, ad esempio, può corrispondere una inaspettata fecondità del lavoro, e viceversa. A questo proposito è significativo un passo della Lettera ai Romani: «La Macedonia e l’Acaia hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella Comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito per rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (cf. Rm 15,20-27). Comunione di beni spirituali e materiali, dunque.
Il cammino della comunione dei beni dipende dall’impegno di tutti e dal contributo di ciascuno. Non è un caso che il primo dissidio nella prima Comunità cristiana sia l’episodio di Anania e Saffira. [At. 5, 1-11 ] Essi, pur condividendo i beni, cercano anche di trattenere qualcosa per se stessi, mentendo a Pietro. Il primo problema di corruzione della Comunità non riguarda la dottrina o la fede, ma la comunione dei beni. È forse a causa di questo episodio, e dei tanti episodi in cui gli interessi personali prevalgono sul bene comune, che oggi si parla poco della comunione dei beni come un ideale e un modo di vivere che risolverebbe alla radice il problema degli scartati? Eppure tanti istituti religiosi, tante comunità cristiane e movimenti, senza fare troppo rumore, stanno vivendo questo ideale e sono germi, bozzetti di come potrebbe essere il mondo se lo pensassimo con gli occhi di è scartato e tutti comprendessimo la beatitudine della povertà.
di Alessandra Smerilli Figlia di Maria Ausiliatrice, economista, segretaria del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale
«Siano tranquilli quelli che ti amano! Sia pace nelle tue mura e sicurezza nei tuoi palazzi!»” (Salmo 122:6-7)
“Le tue porte, Gerusalemme, saranno ricostruite con zaffiro e smeraldo, le tue mura saranno fatte di pietre preziose. Le tue torri, Gerusalemme, saranno d’oro e tutti i tuoi bastioni di oro puro. Le vie di Gerusalemme saranno lastricate con pietre preziose. Dalle porte di Gerusalemme si alzeranno inni di gioia, tutte le sue case canteranno: ‘Alleluia! Sia benedetto il Dio d’Israele’. I fedeli benediranno sempre il Signore che è santo.”
Gerusalemme è una città unica al mondo, ricca di storia, cultura e spiritualità. Visitare Gerusalemme significa immergersi in un’atmosfera senza tempo, dove si incontrano le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam.
Provo a descrivervi i luoghi principali di questa città affascinante e suggestiva.
La Città Vecchia
Il cuore di Gerusalemme è la Città Vecchia, circondata da mura antiche e divisa in quattro quartieri: ebraico, musulmano, cristiano ed armeno. Qui si trovano alcuni dei siti più sacri e importanti per le tre fedi, come il Muro del Pianto, la Spianata delle Moschee e la Basilica del Santo Sepolcro. La Città Vecchia si può esplorare a piedi, seguendo le strette vie lastricate di pietra, i vicoli colorati dai bazar e le tracce della storia millenaria di Gerusalemme.
Il Muro del Pianto
Il Muro del Pianto o Muro Occidentale è l’unico reperto rimasto del Secondo Tempio di Gerusalemme (516 aC-70 dC)
Il Muro del Pianto è il luogo più sacro per gli ebrei, poiché rappresenta l’unico resto del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. Il Muro è lungo 488 metri, ma solo una parte è visibile nella piazza che lo fronteggia. Qui gli ebrei si recano per pregare e inserire dei bigliettini con le loro richieste tra le fessure delle pietre. Il venerdì sera si assiste alla cerimonia dello Shabbat, il giorno sacro della settimana.
Il lamento dell’esiliato a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C.
La Spianata delle Moschee
La Spianata delle Moschee è il terzo luogo più sacro per l’islam dopo La Mecca e Medina. Qui sorgeva il Tempio di Salomone ed è qui che il profeta Maometto salì al cielo secondo la tradizione musulmana. La Spianata ospita due splendide moschee: la Cupola della Roccia, con la sua cupola dorata che domina il panorama della città, e la Moschea di Al-Aqsa, con i suoi archi decorati. L’accesso alla Spianata è consentito solo ai musulmani; gli altri visitatori possono ammirarla dal Monte degli Ulivi o dalla Porta dei Magrebini.
La Basilica del Santo Sepolcro
La Basilica del Santo Sepolcro è il luogo più sacro per i cristiani, poiché custodisce il sepolcro di Gesù Cristo e il Golgota (Calvario), il luogo della sua crocifissione. La Basilica è un complesso architettonico che racchiude diverse cappelle gestite da varie confessioni cristiane (ortodossa greca, cattolica romana, armena apostolica ecc.). All’interno si possono ammirare opere d’arte di grande valore storico-artistico come l’Edicola del Santo Sepolcro o l’Altare del Golgota.
Santo Sepolcro
La Città Nuova
Oltre alla Città Vecchia ci sono altre zone interessanti da visitare nella parte moderna di Gerusalemme. Una di queste è il Mercato Mahane Yehuda, un vivace mercato all’aperto dove si possono trovare frutta fresca, verdura, spezie, dolci, prodotti tipici e molto altro ancora. Un altro luogo da non perdere è Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto che documenta la tragedia degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale attraverso testimonianze, foto, video e oggetti personali. Infine, si può salire sul Monte degli Ulivi per godere di una vista panoramica sulla città e visitare alcuni siti religiosi come il Giardino dei Getsemani e la Tomba della Vergine Maria.
Tomba della Vergine Maria.
Giardino del Getsemani
Gerusalemme è una città che suscita emozioni intense e contrastanti in chi la visita. È il luogo sacro per le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam e anche il teatro di conflitti storici e attuali che ne minacciano la pace e la convivenza. Ma è anche una città ricca di bellezza, cultura e spiritualità, che offre al visitatore esperienze uniche e indimenticabili.
Voglio condividere con voi le emozioni che ho provato nel vedere i luoghi più significativi di Gerusalemme, sperando di trasmettervi un po’ dello stupore di questa città anche se è impossibile raccontare tutti i posti che ho visitato, ognuno degno di essere descritto come si deve ma questo è solo un piccolo approccio iniziale…ne citerò alcuni..
La prima tappa è stata la Città Vecchia, circondata da mura imponenti e divisa in quattro quartieri: armeno, cristiano, ebraico e musulmano. Entrando dalla Porta di Giaffa si respira subito l’atmosfera antica e multiculturale della città. Si cammina tra vicoli stretti e affollati, dove si incontrano negozi di souvenir, bancarelle di spezie, chiese, sinagoghe e moschee.
Souvenir, bancarelle di spezie
Uno dei luoghi più emozionanti è il Muro del Pianto (o Kotel), l’unico resto del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. È il luogo più sacro per gli Ebrei, che vi si recano per pregare e inserire dei bigliettini con le loro richieste tra le fessure delle pietre. Ho provato un senso di rispetto e commozione nel vedere tanta devozione e speranza.
Un altro luogo che mi ha colpito è la Basilica del Santo Sepolcro (o Chiesa della Resurrezione), il luogo dove secondo la tradizione cristiana Gesù fu crocifisso, sepolto e risorto. La basilica è un complesso architettonico composto da diverse cappelle gestite da varie confessioni cristiane. Al suo interno si trovano il Golgota (il luogo della crocifissione), l’Edicola (la tomba vuota di Gesù) e la Pietra dell’Unzione (dove fu preparato il corpo di Gesù per la sepoltura). Ho provato una forte emozione nel toccare questi luoghi così carichi di storia e fede.
Infine ho visitato la Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio), il terzo luogo più sacro per i Musulmani dopo La Mecca e Medina. Qui sorgono due splendide moschee: la Cupola della Roccia (dove secondo la tradizione islamica Maometto salì al cielo) e la Moschea al-Aqsa (la prima direzione della preghiera islamica prima della Mecca). Ho provato una sensazione di meraviglia nel vedere i colori brillanti delle cupole dorate e dei mosaici azzurri.
Gerusalemme è una città che mi ha fatto vivere emozioni contrastanti: da una parte ho sentito la gioia di scoprire luoghi ricchi di significato spirituale; dall’altra ho avvertito il dolore di vedere le ferite ancora aperte dei conflitti tra popoli diversi. Spero che un giorno Gerusalemme possa essere davvero una città di pace.
Per concludere voglio condividere con voi alcuni versetti della sacra scrittura che parlano di Gerusalemme, la città santa e amata da Dio. Gerusalemme è il luogo dove si è manifestata la gloria di Dio, dove ha stabilito il suo tempio, dove ha inviato il suo Figlio Gesù Cristo per la salvezza del mondo. Gerusalemme è anche il simbolo della Chiesa e della patria celeste, verso cui siamo pellegrini sulla terra.
Ecco alcuni versetti che ho scelto per voi:
“Ma io ho posto il mio re sul Sion mio santo monte”. (Salmo 2:6)
“Gerusalemme è edificata come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore: è legge per Israele rendere grazie al nome del Signore.” (Salmo 122:3-4)
“Prega per la pace di Gerusalemme: «Siano tranquilli quelli che ti amano! Sia pace nelle tue mura e sicurezza nei tuoi palazzi!»” (Salmo 122:6-7)
“Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio; perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia; come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli. Poiché come la terra fa germogliare i suoi germogli e come un giardino fa spuntare i suoi semi così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le nazioni. Per amore di Sion non tacerò e per amore di Gerusalemme non mi darò pace finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada.” (Isaia 61:10 – 62:1)
Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada(Ap 21, 2)
I pellegrinaggi a Gerusalemme
“Tre volte all’anno celebrerai una festa in mio onore. Osserva lafesta dei Pani non lievitati: nella ricorrenza del mese di Abib, il mese in cui sei uscito dall’Egitto, devi mangiare per sette giorni pane non lievitato, come io ti ho comandato. Nessuno osi presentarsi al mio santuario a mani vuote. Osserva la festa della Mietitura, quando inizi a raccogliere quel che hai seminato nel tuo campo. Osserva la festa del Raccolto, al termine dell’anno quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. In queste tre feste annuali gli uomini si presenteranno a me, il Signore vostro Dio, nel mio santuario”. – Es 23:14-
Tre Feste annuali dovevano essere celebrate, per ordine di Dio, a Gerusalemme. Da tutta Israele, almeno gli uomini dovevano recarsi in pellegrinaggio nella città santa. Queste tre occasioni riguardavano:
Primo pellegrinaggio. Pasqua e Festa dei Pani Azzimi, dal 15 al 21 nissàn.
Secondo pellegrinaggio. Festa di Pentecoste, detta anche Festa delle Settimane e Festa della Mietitura, nel mese di sivàn.
Terzo pellegrinaggio. Festa delle Capanne, detta anche Festa del Raccolto, dal 15 al 21 tishrì.
Queste tre Feste fanno parte delle “solennità del Signore”, da celebrarsi “come sante convocazioni” (Lv 23:2). La parola resa “solennità” è nel testo ebraico מֹועֲדֵי (moadè), stato costrutto di מֹועֲדִים (moadìm), che può essere resa “appuntamenti”: si tratta dei momenti d’incontro con Dio, delle sue sante Festività. In Sl 104:19 è detto che Dio “ha fatto la luna per stabilire i מֹועֲדִים [moadìm]”. La versione PdS traduce “per segnare il tempo”; NR, “per stabilire le stagioni”; TNM, “per i tempi fissati”. La verità è che Dio ha fatto la luna per indicare i מֹועֲדִים (moadìm), le sue sante solennità. Le Feste bibliche vanno quindi osservate secondo il calendario lunare biblico.
Il popolo d’Israele era protetto da Dio stesso mentre la popolazione si recava a Gerusalemme per i tre pellegrinaggi: “Io scaccerò davanti a te delle nazioni e allargherò i tuoi confini; nessuno oserà appropriarsi del tuo paese, quando salirai, tre volte all’anno, per comparire alla presenza del Signore, che è il tuo Dio” – Es 34:24.
Il fatto che siano comandati di compiere questi tre pellegrinaggi in modo specifico gli uomini, non esclude (e, di fatto, non escluse) la partecipazione dell’intera famiglia. Da 1Sam 1:7, ad esempio, sappiamo che Anna madre di Samuele partecipava.
Queste tre Feste erano intimamente legate alla raccolta (Es 23:14-17). La Festa dei Pani Azzimi iniziava il 15 nissàn e coincideva con la raccolta dell’orzo; il giorno dopo il sabato settimanale (nostra domenica) che cadeva durante questa Festa (Lv 23:15), il sommo sacerdote doveva agitare dinanzi a Dio un covone di spighe tratto dalle primizie della raccolta dell’orzo. La Festa delle Settimane o Pentecoste cadeva il 50° giorno, nuovamente domenica (per noi), dopo quella domenica in cui si offriva il covone; era la Festa “delle primizie della mietitura del frumento” (Es 34:22). La Festa delle Capanne o della raccolta iniziava il 15° giorno del mese di etanìm o tishrì e concludeva allegramente l’anno agricolo. Erano quindi occasioni adatte perché le famiglie al completo facessero festa. – Dt 16:14,15.
“Che gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore!’. E ora i nostri passi si fermano alle tue porte, Gerusalemme”. – Sl 122:1,2,
Una di queste occasioni, narrata dal Vangelo, vide Yeshùa dodicenne partecipare al pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, secondo l’uso ebraico (Lc 2:42). Giuseppe Flavio calcolò l’ammontare della folla per la Pasqua a circa tre milioni di persone (Guerra Giudaica, 6,9,3). Proprio perché le famiglie partecipavano con tutta la parentela, quando la carovana con i genitori di Yeshùa ripartì, non ci si rese subito conto che lui mancava. Poteva essere con qualche parente o amico della comitiva (ormai aveva dodici anni). Fu solo alla prima tappa che, non trovandolo, tornano a Gerusalemme, dove lo ritrovarono al Tempio. – Lc 2:48.
Le Festività sacre di Dio davano modo agli israeliti di riservare del tempo per rendere culto a Dio e per meditare sulla sua santa Legge, stando insieme come popolo. Avevano anche occasione di viaggiare e di conoscere la Terra che Dio aveva dato loro. Quei pellegrinaggi erano davvero motivo di contentezza. Dopo che Gerusalemme fu distrutta, il profeta descrive il profondo abbattimento della popolazione richiamando la mancanza delle Feste: “Le strade di Sion sono in lutto perché nessuno va più alle feste, le sue piazze sono deserte”, “[Dio] ha ridotto il suo tempio a un giardino devastato, ha demolito il luogo dove incontrava il suo popolo. Il Signore ha fatto dimenticare in Sion le feste e il sabato” (Lam 1:4;2:6, PdS). Allo stesso modo, le Feste sono prese a immagine della condizione migliore. Il profeta annuncia: “Tu, popolo di Dio, canterai come in una notte di festa. Sarai gioioso come quando, al suono del flauto, sali alla montagna del Signore, la Roccia d’Israele”. – Is 30:29
Essendo la società ebraica agricola, gli israeliti dipendevano dalla benedizione di Dio sulla terra. Le tre grandi Feste che richiedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme, avvenivano all’inizio della primavera (mietitura dell’orzo), nella tarda primavera (mietitura del frumento) e a fine estate (resto del raccolto). Erano occasioni non solo di grande allegria ma anche di profonda gratitudine verso Dio che aveva assicurato la pioggia necessaria perché il paese fosse produttivo. Dio aveva promesso al suo popolo: “Nella terra in cui andate ci sono monti e valli, e il suolo è irrigato dalla pioggia. Il Signore, vostro Dio, si prende cura di questa terra e la rende sempre rigogliosa dall’inizio alla fine dell’anno. Se ubbidirete veramente agli ordini che oggi vi comunico: se amerete il Signore, vostro Dio, e lo servirete con tutto il cuore e con tutta l’anima, egli farà scendere la pioggia sui vostri campi nella stagione giusta, in autunno e in primavera, e voi ne ricaverete frumento, vino e olio. Il Signore farà crescere nei pascoli l’erba per il vostro bestiame. Avrete sempre da mangiare e da saziarvi!”. – Dt 11:11-15.
Riusciamo a immaginare la grande impressione che doveva fare Gerusalemme in piena festa? Mentre si saliva alla città santa, che è a un’altitudine di circa 700 m, la capitale d’Israele era già visibile a distanza. L’emozione cresceva. Più grande impressione doveva fare il Tempio che spiccava meraviglioso e imponente. L’emozione cresceva quando il suono delle trombe segnava l’inizio delle cerimonie sacre.
Spero che questi versetti ci faccianoo riflettere sulla bellezza e l’importanza di Gerusalemme nella storia della salvezza.
Tutta la Sacra Scrittura è piena di tesori nascosti nella Parola di Dio!
Canto dei pellegrini. Salmo di Davide. Che gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore!’. E ora i nostri passi si fermano alle tue porte, Gerusalemme. Gerusalemme, città ben costruita, raccolta entro le tue mura! A te salgono le tribù, le tribù del Signore. Qui Israele deve lodare il nome del Signore. Qui, nel palazzo di Davide, siedono i re a rendere giustizia. Pregate per la pace di Gerusalemme. Dite: ‘Sicurezza per chi ti ama, pace entro le tue mura, prosperità nei tuoi palazzi!’. Per amore dei miei parenti e vicini io dico: ‘Pace su di te!’. Per amore della casa del Signore, nostro Dio, voglio chiedere per te ogni bene.
Isaia 2:3
Molti popoli vi accorreranno, e diranno: «Venite, saliamo al monte del SIGNORE, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci insegnerà le sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri». Da Sion, infatti, uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del SIGNORE.
Salmi 122:6
Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
Salmi 128:5
Il SIGNORE ti benedica da Sion! Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita.
Salmi 137:6
resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.
Cantico 2:7
Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro per le gazzelle, per le cerve dei campi, non svegliate, non svegliate l’amore mio, finché lei non lo desideri!
Cantico 8:4
Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro, non svegliate, non svegliate l’amor mio, finché lei non lo desideri!
Isaia 33:20
Contempla Sion, la città delle nostre solennità! I tuoi occhi vedranno Gerusalemme, soggiorno tranquillo, tenda che non sarà mai trasportata, i cui picchetti non saranno mai divelti, il cui cordame non sarà mai strappato.
Salmi 122:6
Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
Cantico 5:8
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio amico, che gli direte? Che sono malata d’amore.
Idea Progettazione di Marilena MarinoVocedivina,it
A dispetto di molti che reputano il Medioevo come uno dei momenti più bui dell’umanità, la nascita del teatro sacro è una prova – invece – della sua vivacità nel creare linguaggi sempre nuovi che hanno segnato la storia. Il teatro sacro nasce nella Chiesa e dalla Chiesa, non solo idealmente ma strutturalmente: le navate e l’altare diventano scenografia; i presbiteri, autori e attori delle storie bibliche messe in scena; e i fedeli, primi spettatori di questi “misteri sacri” che dal Mistero della Fede attingono.
Sviluppato intorno alla metà del XIII secolo, nella sua totale emancipazione dall’influsso ecclesiastico, il teatro sacro trova fondamenti storici in alcuni monasteri francesi, intorno alla metà del X secolo. In questi monasteri si attuava una rielaborazione dei passi più importanti della Sacra Scrittura. Questi brani tratti dalla Bibbia venivano cantati inserendo delle parole nei vocalizzi finali: erano i Traineés de Notes, Sequelae o Jubili, o più generalmente conosciuti come tropi (dal latino tropus che ha il significato di verso).
Il filologo italiano Vincenzo De Bartholomaeis, nella sua indagine Laudi drammatiche e rappresentazioni sacre (Firenze, Le Monnier, 1943), menzionando come stadio preliminare al teatro sacro i passi dialogati del Responsoriale romano (sec. VII-VIII) per il periodo dell’Avvento e della Quaresima, individua i primi abbozzi dei drammi liturgici proprio nei tropi, specialmente in quelli creati nell’abbazia di San Gallo, in Svizzera. Ed è un nome che, primo fra tutti, viene individuato: è quello di Tuotilo di San Gallo, indicato anche come Tutilo o Tutilone (850 circa – 915 circa), monaco e compositore tedesco, che – prendendo spunto dal testo romano dell’ufficio notturno della Pasqua – crea un vero e proprio dramma teatrale: è il famoso Quem quaerintis in sepulcro o Christicolae?, prima forma drammatico-liturgica conosciuta nel rituale cristiano, che narra la visita al Santo Sepolcro delle tre Marie e l’annuncio dato dall’angelo dell’avvenuta Resurrezione. Il dialogo in quattro versi – che di norma veniva recitato dai canonici durante l’introito della messa di Pasqua – veniva interpretato da quattro sacerdoti: tre per i personaggi delle Marie e uno per sostenere il ruolo dell’angelo.
Con il tempo i drammi liturgici divennero sempre più lunghi e complessi e vennero, dunque, separati dalle funzioni religiose perché neanche le chiese più grandi erano più in grado di ospitare la folla che si radunava intorno a questi spettacoli. Fu allora che il dramma si trasferì all’esterno, sui gradini dei sagrati delle chiese, anche se cominciarono ad insorgere dei dubbi da parte delle autorità ecclesiastiche per il forte impatto delle rappresentazioni sulla vita del popolo.
A partire dal XII secolo, accanto ai drammi liturgici, si affiancano – così – nuove strutture drammaturgiche: sono i Misteri, nuova forma teatrale che – assieme alla musica – viene espressa non più nella lingua ufficiale della Chiesa, il latino, bensì in lingua volgare. La testimonianza iconografica più importante, in questo senso, è la raffigurazione della cosiddetta Passione di Valenciennes: in questa rappresentazione convivono la casa della Madonna per l’Annunciazione, il Tempio della Presentazione, il Palazzo di Erode, il Paradiso e l’Inferno. Per realizzare ciò si provvedeva a una lunga sequela di costruzioni chiamate edicole – definite così per la loro forma tondeggiante – aperte in direzione dello sguardo dello spettatore.
Nel corso del Seicento e Settecento si sviluppa un’altra forma teatrale che dai precedenti sviluppi drammaturgici prende spunto: sono gli Oratori che vanno a sostituire progressivamente le monodie medievali e rinascimentali. Anche in questo caso, è la Passione di Cristo ad essere il tema più rappresentato. Di questo nuovo filone teatrale, emergono in particolare due sottocategorie: la prima vedeva l’impiego di testi tratti – con profondo rigore – dai Vangeli, accompagnati da arie o musiche; mentre la seconda sottocategoria attingeva sempre alle Sacre Scritture, ma queste erano solo uno spunto tematico per poi sviluppare la trama in modo originale e indipendente.
All’epoca della Riforma, tra diverse rappresentazioni sacre, possiamo ricordare in particolar modo una Passione messa in scena a Zurigo da Jakob Ruf, scrittore della Germania meridionale, che rimase fedele al testo biblico, rinunciando ad episodi a effetto. Dal 1570 circa, l’ortodossia calvinista criticò duramente lo sfarzo degli accessori scenici e l’esaltazione del Cristo sofferente, condannando la messinscena dei drammi biblici come un’eresia. Il divieto di rappresentazioni teatrali decretato a Ginevra nel 1617 e a Zurigo nel 1624 contribuì alla riduzione dell’attività teatrale nel XVII secolo.
Sul finire dell’Ottocento si assiste ad un vero e proprio recupero del sacro in teatro che, nel Novecento, troverà poi uno sviluppo inatteso. Autori come Strindberg, Claudel, Maeterlinck, Hofmannsthal ed Eliot si cimentano in testi dove la Sacra Scrittura trova nuovamente spazio: testi lontani dalle sacre rappresentazioni medievali, ovviamente, ma che testimoniano quanto il tema della fede sia importante per la letteratura.
Sacre rappresentazioni, drammi liturgici, misteri: una tradizione millenaria che nel nostro oggi sta trovando sempre maggiore rilevanza grazie ai molteplici festival teatrali dedicati al tema del sacro. Ma non solo: a queste rassegne si affiancano non pochi comuni italiani che, proprio durante la Settimana Santa, allestiscono piazze e strade per accogliere storiche rappresentazioni della Passione di Cristo.
di Antonio Tarallo
di Marilena Marino
L’uomo ha sempre avvertito il bisogno di socializzare e riunirsi in gruppi, non solo per motivi di sopravvivenza, ma anche allo scopo di celebrare il rito, il mito e la caccia, che sono stati individuati dagli antropologi teatrali quali luoghi di origine del teatro.
Dopo la caduta dell’Impero (476) gli spettacoli vengono proibiti dalla Chiesa. Il teatro scompare.
Verso l’anno 1000 si sviluppa il teatro sacro, che si svolge all’interno della Chiesa, durante la Settimana Santa per rappresentare la Passione. la sacra rappresentazione e forme analoghe di teatro si hanno in Francia, Spagna e Inghilterra.
Parallelamente, nelle corti feudali, si sviluppano intrattenimenti laici e forme di teatro popolare.
Il teatro religioso
I primi spettacoli teatrali mettevano in scena episodi tratti dalle Sacre Scritture. Si svolgevano per le strade, sul sagrato della chiesa, nella piazza ed erano finalizzati all’edificazione e all’istruzione dei fedeli. Per coinvolgere gli spettatori, la rappresentazione (jeu) utilizzava un linguaggio semplice e piano, che talvolta accoglieva espressioni popolari. La prima opera drammatica in volgare francese è l’anonimo Jeu d’Adam (circa 1150), tratto alquanto liberamente dall’episodio della Genesi.
Nel Medioevo l’Europa si trovò senza un vero e proprio centro culturale e politico e nessun autore ebbe la rilevanza degli antichi. Mentre il mondo classico si era distinto per i suoi prestigiosi centri di cultura come Atene, Roma e Bisanzio e grandi autori quali Euripide e Menandro, il mondo medioevale si caratterizzò per lo stato-nazione composto da una confederazione di comunità autonome. Gli autori furono spesso anonimi, ma non mancano interessanti figure di letterati, come Rosvita, una monaca tedesca del X secolo, le cui sei opere ci danno una visione unica del teatro di quel periodo.
Tale passaggio comportò una certa discontinuità nel mondo teatrale europeo. Il cristianesimo antico, infatti, mostrò un aperto dissenso nei confronti del teatro e lo condannò perché lo considerava fonte di oscenità e menzogne, come testimoniano i documenti pontifici diffusi durante il Medioevo. I chierici, per esempio, ebbero la proibizione di frequentare istrioni e giocolieri. L’attività teatrale, però, prosperava e non era possibile eliminarla, si doveva limitarla o assimilarla volgendo la situazione a proprio favore. Si decise allora di spostare il dramma dai luoghi deputati all’ippodromo dove gli spettacoli con animali e le competizioni sportive potevano essere completati con le recite dei mimi. Un altro provvedimento fu quello di non elargire più fondi statali a favore del teatro. Il processo di assimilazione ebbe più successo della limitazione e il cristianesimo si impose sul paganesimo: le feste pagane si tramutarono in feste cristiane, i templi diventarono chiese e i santuari pagani furono adibiti a cimiteri. Durante le funzioni religiose fu inserita la musica antifonaria e alcuni passi del Vangelo vennero messi in scena e commentati dal sacerdote.
Una forma particolare di dramma che si diffuse in Europa durante il Medioevo fu la sacra rappresentazione nella quale venivano raffigurate vicende a sfondo religioso, come l’Annunciazione o la Passione, e storie attinte dalla Bibbia. Il teatro medioevale si sviluppò progressivamente dalle chiese e accolse forme drammatiche differenti mescolate fra loro (cristiane e pagane), unite dal rituale proprio delle cerimonie liturgiche, effettuate sia in chiesa che nelle feste stagionali popolari in appropriati momenti del calendario. Le prime recite fatte all’interno delle chiese ben presto ebbero bisogno di uno spazio scenico più ampio per soddisfare l’esigenza di utilizzare scenografie multiple, dove si presentavano contemporaneamente più scene della vita di Cristo.
Si costruirono dei palcoscenici nei sagrati all’esterno delle chiese che diedero l’opportunità di mettere in scena anche rappresentazioni teatrali con tematiche profane e alcune recite furono fatte anche nelle piazze. Per dare maggiore spettacolarità alle rappresentazioni, ai palcoscenici furono aggiunti semplici ma efficaci trucchi scenici, ingranaggi e botole. Dopo il 1300 le confraternite si accollarono l’onere di organizzare gli spettacoli, aiutati dalle corporazioni che si preoccupavano di costruire e arredare le scene. In genere i palchi venivano costruiti con assi di legno, collocate in modo diverso, in circolo o in linea retta, a seconda della rappresentazione. Nonostante la rottura con la drammaturgia classica, la messa in scena dei drammi medioevali mostrò quanto il mondo medioevale fosse ancora legato al mondo romano. I papi romani presero il posto degli imperatori romani ma furono simili a loro in alcuni aspetti rilevanti: uso della lingua latina, controllo del territorio, conflittualità dei diversi gruppi in lotta per la conquista del potere. Accanto ai drammi biblici, nel Medioevo europeo furono rappresentati i drammi sacri sulla vita dei santi che presero il posto degli dei greco-romani: i miracoli o il martirio di un santo, inglese o francese che fosse, divennero popolari quanto i drammi biblici.
L’aspetto più interessante di queste rappresentazioni consisteva nella natura locale e particolare del culto del santo: i fedeli avvertivano la necessità di festeggiare il proprio santo patrono con rappresentazioni teatrali, orazioni e bancarelle di mercato; le chiese si trasformavano in luoghi di pellegrinaggio dove venivano esposte le reliquie dei santi; le associazioni artigiane dedicavano una cappella al proprio santo protettore; anche i re ricorsero ai santi nazionali, come fece Giorgio d’Inghilterra. Lo sviluppo del culto dei santi e delle attività teatrali che vennero messe in scena per farli conoscere e amare, contribuì a costruire l’identità di gruppo. Nel Medioevo le processioni ricoprirono un ruolo importante nella vita della città medioevale, come lo era stato per i cortei nei centri urbani nell’antichità, dove gli attori camminavano per le vie accompagnati da carri su cui venivano messi in scena momenti particolari della vita di Dioniso. Quando Cristo prese il posto di Dioniso, furono mostrate in processione scene attinte dalla Bibbia, che si trasformarono poi in rappresentazioni teatrali. Con il passare del tempo, il teatro si spostò nella città stessa e gli spettacoli furono recitati all’aperto nella stagione estiva, con la partecipazione dell’intera comunità, o al coperto nelle ricche abitazioni in inverno.
giullare a corte
Le rappresentazioni teatrali fecero ancora parte di cerimonie religiose e la chiesa diede la propria disponibilità nei locali al chiuso per ospitare eventi comunitari di tutti i generi. Una figura caratteristica del Medioevo fu quella dei giullari, dei veri e propri performer capaci di trasformare corpo o viso a secondo dell’attività scenica: giocolieri, saltimbanchi, ballerini, acrobati, cantastorie e motteggiatori erano diffusi in tutta la zona neolatina. La loro figura, condannata dalla Chiesa, va ricollegata a quella del mimo o dell’istrione romano. Attori professionisti a tutti gli effetti, si guadagnavano da vivere intrattenendo il popolo nelle piazze o rallegrando gli invitati ad un banchetto o ad un festino. Le ragioni del crollo del teatro medioevale nelle diverse parti d’Europa furono complesse: più che di una mancanza d’interesse si trattò di una repressione crescente nelle nazioni cattoliche causata anche da fattori politici ed economici.
La passione di Cristo è uno dei temi più ricorrenti e affascinanti del teatro religioso e popolare. Si tratta di una forma di espressione artistica che ha origini antiche e che si è diffusa in diverse regioni d’Italia e del mondo, assumendo caratteristiche diverse a seconda dei contesti storici, culturali e geografici.
La passione di Cristo consiste nella rievocazione scenica degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dalla sua entrata trionfale a Gerusalemme fino alla sua crocifissione, morte e resurrezione. Attraverso il linguaggio teatrale, si intende trasmettere il messaggio evangelico e suscitare emozioni e riflessioni nel pubblico.
Tra le rappresentazioni più famose e antiche della passione di Cristo in Italia, possiamo citare quella di Sordevolo (BI), che si svolge ogni cinque anni dal 1815, quella di Cantiano (PU), che risale al secolo di San Francesco, e quella ispirata ai dipinti del Caravaggio, che mette in evidenza la forza e la fragilità del corpo di Cristo.
Queste rappresentazioni coinvolgono centinaia di attori non professionisti, che si preparano con dedizione e impegno per mesi o addirittura anni. Le scenografie sono spesso imponenti e realistiche, ricostruendo i luoghi della Gerusalemme dell’anno 33 d.C., come il palazzo di Erode, il Sinedrio, il Pretorio di Pilato, il Giardino del Getsemani, il Cenacolo e il Monte Calvario.
Le rappresentazioni della passione di Cristo sono spettacoli corali che coinvolgono tutta la comunità locale, sia come attori sia come spettatori. Si tratta di un’esperienza culturale e spirituale che unisce fede e arte, tradizione e innovazione. Ogni edizione è unica e irripetibile, capace di emozionare ed educare le generazioni presenti e future.
«Perché la donna dà cura e vita al mondo: è via verso la pace». Lo ha affermato il Papa ricevendo in udienza i partecipanti alla Conferenza “Women Building a Culture of Encounter Interreligiously”
«La pace va ricercata coinvolgendo maggiormente la donna. Perché la donna dà cura e vita al mondo: è via verso la pace». Lo ha affermato papa Francesco ricevendo in udienza i partecipanti alla Conferenza Internazionale “Women Building a Culture of Encounter Interreligiously”, promossa dal Dicastero per il Dialogo Interreligioso in collaborazione con l’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche (Umofc), che si svolge fino a domani presso la Pontificia Università Urbaniana.
Il Pontefice si è congratulato per l’iniziativa. «Non è un evento comune che i fedeli di dodici religioni di tutto il mondo si riuniscano e discutano su questioni importanti riguardanti l’incontro e il dialogo per promuovere la pace e la comprensione nel nostro mondo ferito. E dal momento che il vostro Convegno è dedicato all’ascolto delle esperienze e delle prospettive delle donne, esso è ancora più significativo», ha sottolineato Francesco. «Vi sono grato – ha concluso – per l’impegno e gli sforzi che compite per promuovere la dignità delle donne e in particolare delle ragazze».
PRIMO MAGGIO: SANT’ESCRIVÀ E IL LAVORO DA SANTIFICARE
Un’occasione per rileggere le parole del santo Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei, canonizzato nel 2002 da Papa Giovanni Paolo II.
Come santificare il lavoro quotidiano.
“Se mi dicono che Tizio è un buon cristiano, ma un cattivo calzolaio, che me ne faccio? Se non si sforza di imparare bene il suo mestiere, o di esercitarlo con cura, non potrà santificarlo né offrirlo al Signore; perché la santificazione del lavoro quotidiano è il cardine della vera spiritualità per tutti noi che — immersi nelle realtà terrene — siamo decisi a coltivare un intimo rapporto con Dio”.
Raccontava così Josemaría Escrivá, de Balaguer fondatore dell’Opus Dei canonizzato nel 2002 da papa Giovanni Paolo II. A molti il primo maggio festa del lavoro viene in mente tutta la sua predicazione sul lavoro e la santificazione del lavoro. Non a caso l’Opus Dei contribuisce affinchè “persone di tutte le razze e condizioni, cerchino di amare e servire Dio e gli altri attraverso il loro lavoro”. Sono numerosissimi gli insegnamenti sul lavoro del santo che affermava “Chi pensasse che la vita soprannaturale si edifica volgendo le spalle al lavoro, non comprenderebbe la nostra vocazione; per noi infatti il lavoro è il mezzo specifico di santificazione” . Scegliere tra le sue parole sull’impegno quotidiano di uomini e donne è un percorso difficile ma al contempo entusiasmante per lo sguardo nuovo e vivificante che regalano sulle fatiche, le ripetitività, i fallimenti che ognuno vive nelle proprie giornata lavorative. “Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini”, diceva, “non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti degli uomini, ma anche un segno dell’amore di Dio per le sue creature e dell’amore degli uomini fra di loro e per Dio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità.”
Ma vi proponiamo altri pensieri per imparare ad alzare lo sguardo dal livello orizzontale della vita di tutti i giorni e coniugarla con il Bene che aiuta ad impegnarsi con occhi nuovi. Un compito difficile, forse irraggiungibile, ma che dà nuovo senso alla vita:
È tempo che i cristiani dicano ben forte che il lavoro è un dono di Dio e che non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro; è testimonianza della dignità dell’uomo. (E’ Gesù che passa n.47).
Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzata. (Solco, n.487).
Siamo venuti a richiamare di nuovo l’attenzione sull’esempio di Gesù che visse trent’anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza. (Colloqui con Monsignor Josemaría Escrivà de Balaguer, n.55).
Lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro. (Omelia: Amare il mondo appassionatamente).
Fate tutto per Amore. – Così non ci sono cose piccole: tutto è grande. – La perseveranza nelle piccole cose, per Amore, è eroismo. (Cammino, n.813).
Insisto: nella semplicità del tuo lavoro ordinario, nei particolari monotoni di ogni giorno, devi scoprire il segreto – nascosto per tanti – della grandezza e della novità: l’Amore. (Solco, n.489).
Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature. Non offrirete nulla con qualche difetto, ammonisce la Sacra Scrittura, perché non sarebbe gradito [Lv 22, 20], Pertanto, il lavoro di ciascuno, il lavoro che impiega le nostre giornate e le nostre energie, dev’essere un’offerta degna per il Creatore, operatio Dei, lavoro di Dio e per Dio: in una parola, dov’essere un’opera completa, impeccabile. (Amici di Dio n.55)
Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato, e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice — all’uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell’autobus, passeggiando, o non importa dove —: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero. (Amici di Dio n.273). Tutto ciò in cui interveniamo noi, piccoli uomini – perfino la santità – è un tessuto di piccole cose, le quali – secondo la rettitudine d’intenzione – possono formare un arazzo splendido d’eroismo o di bassezza, di virtù o di peccato. I poemi epici riferiscono sempre avventure straordinarie, mescolate tuttavia a particolari di vita domestica dell’eroe. – Possa tu sempre tenere in gran conto – linea retta! – le piccole cose.(Cammino, n.826).
Pensate che con il vostro lavoro professionale svolto con senso di responsabilità, oltre a sostenervi economicamente, prestate un servizio direttissimo allo sviluppo della società, alleggerite i pesi degli altri e mantenete tante opere assistenziali — locali e universali — a beneficio delle persone e dei popoli meno fortunati. (Amici di Dio n.120). Quando avrai terminato il tuo lavoro, fa’ quello del tuo fratello, aiutandolo, per Cristo, con tale spontanea delicatezza che egli non avverta neppure che stai facendo più di quanto devi secondo giustizia. – Questa sì che è fine virtù di un figlio di Dio. (Cammino, n.440).
COME POSSIAMO SANTIFICARE IL LAVORO E SANTIFICARCI NEL LAVORO?
Opus Dei: Come possiamo santificare il lavoro e santificarci nel lavoro?
La pace richiede quattro condizioni essenziali: verità, giustizia, amore e libertà (Papa Giovanni Paolo II)
Solo l’Azione Cattolica contò 1.279 soci e 202 assistenti ecclesiastici uccisi. Gino Pistoni, Aldo Gastaldi, Luigi Pierobon, Giuseppe Perotti e tanti altri: giovani ispirati dal Vangelo diedero la vita per un’Italia libera e democratica. Tra essi anche tanti sacerdoti. E tante donne.
Il partigiano è sempre “rosso”, “comunista”, “di sinistra”. Eppure in prima fila a combattere per la libertà e poi dopo, a lavorare per la ricostruzione dell’Italia e la nascita della Repubblica, c’era anche una Resistenza “bianca”. Cattolici e cattoliche che hanno dato un contributo non secondario alla lotta contro il nazi-fascismo e per lo sviluppo della vita democratica nel nostro Paese. Enrico Mattei, capo partigiano e poi presidente dell’Eni, al primo congresso della Democrazia cristiana nell’aprile del 1946 indicò in 65mila – poi giunti a 80mila nella fase finale della Resistenza –, impiegati in 180 brigate, i cattolici che parteciparono attivamente alla lotta partigiana. «Brigate del Popolo», «Fiamme Verdi», «Volontari della Libertà», «Squadre Bianche»: sono alcuni dei nomi sotto i quali, in tutto il Centro-nord, cercarono di distinguersi le formazioni “autonome” o “indipendenti” che spesso facevano riferimento in gran parte o del tutto al Vangelo. Senza contare che in molte zone, per esempio in Liguria e Romagna, anche nelle comuniste Brigate Garibaldi spiccava cospicua una presenza cattolica. Ma non fu solo questione di cifre. Nel panorama settentrionale, dove spiccano i nomi di Gino Pistoni, Tina Anselmi (staffetta partigiana e prima donna ministro della storia del nostro Paese), dello stesso Mattei, di Benigno Zaccagnini, Paolo Emilio Taviani, Giuseppe Dossetti, Sergio Cotta, Mariano Rumor, Ermanno Gorrieri, Giovanni Marcora, Teresio Olivelli, c’è tutta una serie di cattolici “feriali” che diventano punto di riferimento per la liberazione. Di preti che educano negli oratori e stanno accanto ai giovani. Che combattono. Alla soglia dei novant’anni padre Giulio Cittadini, sacerdote dell’istituto San Filippo Neri, mostra ancora il suo berretto da partigiano. Arruolato nella Brigata Garibaldi, fu tra i primi a entrare ad Ivrea liberata. Grande educatore e grande protagonista della Resistenza, come l’insegnante Emiliano Rinaldini, vicecomandante della Brigata Perlasca in Valsabbia, trucidato dai fascisti nei pressi della chiesetta di San Bernardo, il 10 febbraio 1945. Anche lui cresciuto nell’oratorio della Pace dove si è formata molta della resistenza bresciana e lombarda sulle orme di padre Manziana, detenuto a Dachau e poi vescovo di Cremona, del cardinale Giulio Bevilacqua, grande anticipatore del Concilio, di don Giacomo Vender, di padre Luigi Rinaldini che riceve dal suo vescovo il mandato ad accompagnare i giovani e gli studenti come cappellano delle Fiamme verdi. Sono educatori, maestri, sacerdoti che percepiscono come coerente e consequenziale al loro impegno di fede quello di affiancare i partigiani sulle montagne. «Ribelli per amore», secondo la felice immagine di Teresio Olivelli, capaci di opporsi al nazifascismo e alla sua ideologia con una ribellione che è innanzitutto morale e spirituale, ma che, nondimeno, costa a molti di loro il sacrificio della vita.
di Annachiara Valle https://www.famigliacristiana.it/articolo/il-ruolo-dei-cattolici-idee-lotta-e-tributo-di-sangue.aspx
LA RESISTENZA È PATRIMONIO COMUNE DELLA REPUBBLICA. «Io credo che in tempo di crisi sociale ed economica, in cui c’è bisogno di soluzioni credibili, sia legittimo arrivare al 25 aprile chiedendosi se il Paese abbia ancora un “idem sentire”, un punto di riferimento comune cui ispirarsi. La domanda è certo drammatica ma la risposta c’è: è la Costituzione, un patrimonio comune scritto in un periodo difficile a partire da visioni del mondo vivacemente contrapposte eppure capaci di arrivare a una sintesi» https://www.famigliacristiana.it/articolo/giovanni-bianchi-la-resistenza-e-patrimonio-comune-della-repubblica.