L’esortazione apostolica nella festa di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre
UN NUOVO CAPITOLO PER LA CHIESA E L’AMBIENTE
«Laudate Deum» è il titolo della prossima esortazione apostolica di Papa Francesco. E tra i 464 partecipanti al Sinodo sulla sinodalità (4-29 ottobre 2023) ci sono due vescovi della Cina «proposti dalla Chiesa locale, d’intesa con le autorità, e nominati dal Papa». Sono i due eventi principali della Chiesa in questo autunno.
ESORTAZIONE – Il titolo del documento è stato rivelato da Bergoglio il 21 settembre ai rettori di università latinoamericane. Il Vaticano lo ha pubblicato a tarda sera il 25 settembre: «L’umanità è stanca di questo uso improprio della natura e deve tornare a un buon utilizzo della natura e al dialogo con la natura». L’esortazione apostolica esce nella festa di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre. Si tratta – dice – di uno sguardo a quello che è successo e cosa bisogna fare».
SINODO – Su 464 partecipanti i membri sono 365 «come i giorni dell’anno: 364 più il Papa», di cui 54 donne votanti. Quattro settimane, scandite da vari appuntamenti, che vedono riuniti – nell’aula Paolo VI e non nell’aula del Sinodo – cardinali e patriarchi; vescovi e sacerdoti (pochi); religiosi/e e laici/e dei cinque continenti alle prese con i tablet: votano, leggono e scaricano i documenti «così si evita lo spreco di carta». L’elenco dei partecipanti «è completo e definitivo» spiegano in Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione e presidente della Commissione per l’informazione: il gesuita Giacomo Costa, segretario speciale; e mons. Luis Marín de San Martín, sottosegretario della Segreteria generale. I due presuli cinesi sono di nomina pontificia: Antonio Yao Shun, vescovo di Jining/Wumeng nella Mongolia Interna, e Giuseppe Yang Yongqiang, vescovo di Zhoucun. Anche nel Sinodo dei giovani nel 2018 ci furono due vescovi cinesi: Giovanni Battista Yang Xiaoting, vescovo di Yan’ An (Shaanxi) e Giuseppe Guo Jincai, vescovo di Chengde (Hebei): la loro presenza, solo per alcuni giorni, era stata un forte segnale che seguiva l’accordo Cina-Santa Sede per le nomine dei vescovi. Una novità annunciata da Francesco alla Messa di apertura: «Per la prima volta sono con noi due vescovi dalla Cina continentale». C’è anche mons. Stephen Chow, vescovo di Hong Kong, che diventa cardinale nel Concistoro del 30 settembre. «È evidente l’importanza della Chiesa cinese presente al Sinodo, per la Chiesa e per il popolo cinese».
INFORMAZIONE – Dice il dott. Ruffini: «Sarà una comunicazione rispettosa degli interventi e non farà chiacchiericcio; cercherà di dire le cose costruttive per la Chiesa in modo da trasmettere lo spirito ecclesiale, non politico perché il Sinodo non è un parlamento o un parlatoio, come dice il Papa. Non sarà coperta dal segreto pontificio ma sarà frutto di confidenzialità e riservatezza».
EVENTI – Il 30 settembre l’importante veglia ecumenica in piazza San Pietro, poi il trasferimento a Sacrofano (Roma) per il ritiro fino al 3 ottobre; Messa di apertura il 4; Messe quotidiane all’altare della Cattedra; pellegrinaggio il 12; preghiera con migranti e rifugiati il 19 «a cui terrebbe molto partecipare il Papa».
MODULI – I primi quattro moduli sono sull’«Instrumentum laboris»; nel quinto e ultimo si discute e perfeziona la relazione e le sintesi. Nei Circoli minori – 35 nelle diverse lingue (14 l’inglese e 8 l’italiano) «i gruppi lavoreranno in profondità. Il Papa tiene molto a non far emergere le singole voci e invita a passare da quello che ognuno ha elaborato a un tessuto comune e a un confronto effettivo».
ECOLOGIA – Alla vigilia della nuova «Laudato si’» (4 ottobre) il Sinodo darà il suo contributo alla salvaguardia del creato attraverso la compensazione: «Mediante il supporto economico della Fondazione SOS Planet e l’apporto tecnico di LifeGate si compensa parte delle emissioni di CO 2 . Il progetto scelto risponde al criterio di ecologia integrale che riunisce ecologia, attenzione al territorio, aiuto concreto alle popolazioni. Il progetto, realizzato in Nigeria e Kenya, persegue la diffusione di stufe da cucina efficienti e di tecnologie di purificazione dell’acqua destinate a famiglie, comunità e istituzioni. Le nuove tecnologie riducono il consumo di biomassa non rinnovabile e di combustibili fossili per cucinare e per l’ebollizione dell’acqua. Così si migliora l’inquinamento dell’aria, si riducono le malattie respiratorie e i tassi di mortalità, si migliora la salute delle popolazioni». Già nel Sinodo panamazzonico (6- 27 ottobre 2019) ci fu la compensazione con la riforestazione della Riserva indigena di Selva de Matavén in Sud-America.
SINODALITÀ – Ne parla al Consiglio permanente il presidente della Conferenza episcopale cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna: «Vuol dire rimettere in discussione le arroccate solitudini ecclesiali nell’incontro, nella comunione, nell’ascolto, nell’impegno missionario che ci attende confrontandoci con la folla e le sue sofferenze. È una grande occasione di rinnovamento e affratellamento. Ci misuriamo con la realtà, la città, il territorio, il quartiere».
San Luigi Gonzaga è stato un santo italiano del XVI secolo, appartenente all’ordine dei Gesuiti. Nato in una famiglia nobile, decise di dedicarsi alla vita religiosa e di servire Dio. È noto per la sua grande devozione e per la sua vita di preghiera, ma anche per la sua dedizione ai poveri e ai malati. Morì giovane, a soli 23 anni, a causa di una malattia contratta mentre assisteva i malati di peste. È considerato il patrono della gioventù e dei giovani studenti.
La vita di San Luigi Gonzaga
San Luigi Gonzaga è stato un giovane santo italiano che ha dedicato la sua vita a servire Dio e gli altri. Nato a Castiglione delle Stiviere nel 1568, Luigi era il figlio primogenito del marchese Ferrante Gonzaga. Fin da giovane, Luigi dimostrò una grande devozione per la fede cattolica e una forte inclinazione per la vita religiosa.
All’età di nove anni, Luigi fu mandato a studiare presso il Collegio Romano dei Gesuiti, dove si distinse per la sua intelligenza e la sua pietà. Durante il suo tempo a Roma, Luigi incontrò il fondatore dei Gesuiti, Sant’Ignazio di Loyola, che lo ispirò a dedicare la sua vita a Dio. Luigi decise di entrare nell’ordine dei Gesuiti e di diventare un sacerdote.
Nel 1585, Luigi contrasse la peste mentre assisteva i malati nell’ospedale di Roma. Nonostante la sua giovane età, Luigi si dedicò completamente alla cura dei malati, mettendo a rischio la sua stessa vita. Alla fine, Luigi morì di peste all’età di soli 23 anni.
La vita di San Luigi Gonzaga è un esempio di devozione e sacrificio per gli altri. Luigi ha dedicato la sua vita a servire Dio e gli altri, mettendo sempre le esigenze degli altri al di sopra delle sue. La sua vita è un esempio di come la fede può ispirare le persone a fare grandi cose per gli altri.
San Luigi Gonzaga è stato canonizzato nel 1726 da Papa Benedetto XIII. La sua festa viene celebrata il 21 giugno in tutto il mondo cattolico. La sua vita e il suo esempio continuano a ispirare le persone di tutte le età e di tutte le fedi.
San Luigi Gonzaga è stato un giovane santo che ha dedicato la sua vita a servire Dio e gli altri. La sua vita è un esempio di devozione e sacrificio per gli altri, e il suo esempio continua a ispirare le persone di tutte le età e di tutte le fedi. Che la sua vita ci ispiri a vivere con devozione e a servire gli altri con amore e compassione.
Le opere e i miracoli di San Luigi Gonzaga
San Luigi Gonzaga è stato un santo molto amato e venerato dalla Chiesa Cattolica. Nato nel 1568 a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, Luigi Gonzaga era il figlio primogenito del marchese Ferrante Gonzaga. Fin da giovane, Luigi dimostrò una grande devozione per la fede cristiana e una forte inclinazione alla vita religiosa.
Luigi Gonzaga entrò nel noviziato dei Gesuiti a Roma all’età di 17 anni, dove si distinse per la sua profonda spiritualità e la sua dedizione alla preghiera e alla penitenza. Durante il suo noviziato, Luigi Gonzaga si dedicò anche all’assistenza ai malati e ai poveri, dimostrando una grande compassione e un grande amore per il prossimo.
Dopo aver completato il suo noviziato, Luigi Gonzaga fu ordinato sacerdote e inviato a Mantova, dove si dedicò all’evangelizzazione e all’assistenza ai bisognosi. Durante la sua permanenza a Mantova, Luigi Gonzaga contrasse la peste mentre assisteva i malati, morendo a soli 23 anni.
Nonostante la sua giovane età, San Luigi Gonzaga ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa Cattolica. La sua vita e il suo esempio di santità hanno ispirato molti fedeli a seguire il suo esempio di dedizione alla fede e di amore per il prossimo.
Tra le opere di San Luigi Gonzaga, spicca la sua dedizione all’assistenza ai malati e ai poveri. Durante la sua vita, Luigi Gonzaga si dedicò con grande zelo all’assistenza ai bisognosi, dimostrando una grande compassione e un grande amore per il prossimo. La sua dedizione alla carità cristiana è stata un esempio per molti fedeli, che hanno seguito il suo esempio di generosità e di amore per il prossimo.
Ma San Luigi Gonzaga è stato anche un grande evangelizzatore. Durante la sua permanenza a Mantova, Luigi Gonzaga si dedicò con grande zelo all’evangelizzazione, cercando di portare la luce della fede cristiana a tutti coloro che incontrava. La sua testimonianza di vita e la sua predicazione hanno ispirato molti fedeli a seguire il suo esempio di dedizione alla fede e di amore per il prossimo.
Ma la vita di San Luigi Gonzaga è stata anche segnata da numerosi miracoli. Si racconta che, durante la sua permanenza a Mantova, Luigi Gonzaga abbia compiuto numerosi miracoli, tra cui la guarigione di malati e la risurrezione di un bambino morto. Questi miracoli hanno confermato la santità di San Luigi Gonzaga e hanno ispirato molti fedeli a venerarlo come un santo.
In conclusione, San Luigi Gonzaga è stato un grande santo della Chiesa Cattolica, la cui vita e il cui esempio di santità hanno ispirato molti fedeli a seguire il suo esempio di dedizione alla fede e di amore per il prossimo. La sua dedizione all’assistenza ai malati e ai poveri, la sua predicazione e i suoi miracoli hanno confermato la sua santità e lo hanno reso un modello di vita cristiana per tutti i fedeli.
La venerazione di San Luigi Gonzaga nella Chiesa Cattolica
San Luigi Gonzaga è un santo molto venerato nella Chiesa Cattolica. Nato nel 1568 a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, Luigi Gonzaga era il figlio primogenito del marchese Ferrante Gonzaga. Fin da giovane, Luigi dimostrò una grande devozione religiosa e una forte inclinazione alla vita ascetica.
All’età di nove anni, Luigi decise di consacrarsi a Dio e di diventare un gesuita. Nel 1585, all’età di 17 anni, entrò nel noviziato dei gesuiti a Roma. Durante il suo noviziato, Luigi si distinse per la sua grande umiltà, la sua obbedienza e la sua devozione alla preghiera.
Dopo il noviziato, Luigi fu inviato a studiare filosofia e teologia a Padova. Durante i suoi studi, Luigi si dedicò con grande zelo alla preghiera e alla penitenza, e si distinse per la sua grande intelligenza e la sua profonda spiritualità.
Nel 1591, Luigi contrasse la peste mentre assisteva i malati nell’ospedale di Roma. Nonostante la sua giovane età, Luigi accettò la morte con grande serenità e morì il 21 giugno dello stesso anno.
La vita di San Luigi Gonzaga è stata un esempio di santità e di devozione per molti fedeli della Chiesa Cattolica. La sua vita è stata caratterizzata dalla sua grande umiltà, dalla sua obbedienza e dalla sua devozione alla preghiera.
La venerazione di San Luigi Gonzaga nella Chiesa Cattolica è molto diffusa. San Luigi Gonzaga è stato canonizzato nel 1726 da papa Benedetto XIII e la sua festa liturgica viene celebrata il 21 giugno.
San Luigi Gonzaga è stato dichiarato patrono dei giovani, dei seminaristi e degli studenti. La sua vita è stata un esempio di come la fede e la devozione possano guidare la vita di una persona e portarla alla santità.
La vita di San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è riservata solo a pochi eletti, ma è alla portata di tutti coloro che desiderano seguire Cristo con umiltà e devozione. San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è un’utopia, ma una realtà concreta che può essere raggiunta da tutti coloro che si affidano alla grazia di Dio.
La venerazione di San Luigi Gonzaga nella Chiesa Cattolica ci invita a seguire il suo esempio di umiltà, obbedienza e devozione alla preghiera. San Luigi Gonzaga ci insegna che la vita cristiana non è una questione di regole e di precetti, ma di amore e di fedeltà a Cristo.
La vita di San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di perfezione, ma di conversione e di crescita spirituale. San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di meriti, ma di grazia e di misericordia.
La venerazione di San Luigi Gonzaga nella Chiesa Cattolica ci invita a pregare per la sua intercessione e a chiedere la sua protezione e la sua guida nella nostra vita spirituale. San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di solitudine, ma di comunione con Dio e con gli altri.
La vita di San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di successo, ma di fedeltà alla volontà di Dio. San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di potere, ma di servizio e di umiltà.
La venerazione di San Luigi Gonzaga nella Chiesa Cattolica ci invita a seguire il suo esempio di vita e a chiedere la sua intercessione per diventare anche noi santi e testimoni della fede. San Luigi Gonzaga ci insegna che la santità non è una questione di perfezione, ma di amore e di fedeltà a Cristo.
Conclusione
San Luigi Gonzaga è stato un santo italiano del XVI secolo, noto per la sua vita di preghiera e di servizio agli altri. È stato un membro della Compagnia di Gesù e ha dedicato la sua vita alla cura dei malati e dei bisognosi. È considerato il patrono della gioventù cattolica e della purezza. La sua festa si celebra il 21 giugno.
Si celebra quaranta giorni dopo la Pasqua e conclude la permanenza visibile di Dio fra gli uomini. È preludio della Pentecoste e segna l’inizio della storia della Chiesa. L’episodio è descritto dai Vangeli di Marco e Luca e negli Atti degli Apostoli. Fino al 1977 in Italia era anche festa civile
Cantiamo assieme“BENEDIRÒ IL SIGNORE IN OGNI TEMPO GUARDANDO A LUI IL MIO VOLTO SPLENDERÀ”
Con la solennità dell’Ascensione di Gesù al Cielo si conclude la vita terrena di Gesù che con il suo corpo, alla presenza degli apostoli, si unisce fisicamente al Padre, per non comparire più sulla Terra fino alla sua Seconda venuta (Parusìa) per il Giudizio finale. Questa festività è molto antica e viene attestata già a partire dal IV secolo. Per la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti, l’Ascensione si colloca di norma 40 giorni dopo la Pasqua, cioè il giovedì della sesta settimana del Tempo pasquale, ovvero quello successivo alla VI domenica di Pasqua. Nel Credo degli Apostoli viene menzionata con queste parole: «Gesù è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine». Nella Chiesa ortodossa l’Ascensione è una delle 12 grandi feste. La data della celebrazione è stabilita a partire dalla data della Pasqua nel calendario ortodosso. Essa è conosciuta sia con termine greco Analepsis (salire su) sia con Episozomene (salvezza). Quest’ultimo termine sottolinea che Gesù salendo al cielo ha completato il lavoro della redenzione. Più chiari ancora gli Atti, che nominano esplicitamente il monte degli ulivi, poiché dopo l’ascensione i discepoli «ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato.»(Atti 1:12) La tradizione ha consacrato questo luogo come il Monte dell’Ascensione.
Giotto Ascensione Scrovegni
QUAL È IL SENSO BIBLICO DELLA PAROLA ASCENSIONE?
Secondo una concezione spontanea e universale, riconosciuta dalla Bibbia, Dio abita in un luogo superiore e l’uomo per incontrarlo deve elevarsi, salire. L’idea dell’avvicinamento con Dio, è data spontaneamente dal monte e nell’Esodo (19,3), a Mosè viene trasmessa la proibizione di salire verso il Sinai, che sottintendeva soprattutto quest’avvicinamento al Signore; “Delimita il monte tutt’intorno e dì al popolo; non salite sul monte e non toccate le falde. Chiunque toccherà le falde sarà messo a morte”. Il comando di Iavhè non si riferisce tanto ad una salita locale, ma ad un avvicinamento spirituale; bisogna prima purificarsi e raccogliersi per poter udire la sua voce. Non solo Dio abita in alto, ma ha scelto i luoghi elevati per stabilirvi la sua dimora; anche per andare ai suoi santuari bisogna ‘salire’. Così lungo tutta la Bibbia, i riferimenti al “salire” sono tanti e continui e quando Gerusalemme prende il posto degli antici santuari, le folle dei pellegrini ‘salgono’ festose il monte santo; “Ascendere” a Gerusalemme, significava andare a Iavhè, e il termine, obbligato dalla reale posizione geografica, veniva usato sia dalla simbologia popolare per chi entrava nella terra promessa, come per chi ‘saliva’ nella città santa. Nel Nuovo Testamento, lo stesso Gesù “sale” a Gerusalemme con i genitori, quando si incontra con i dottori nel Tempio e ancora “sale” alla città santa, quale preludio all’”elevazione” sulla croce e alla gloriosa Ascensione.
QUALI SONO I TESTI CHE PARLANO DI QUESTO EVENTO?
I Libri del Nuovo Testamento contengono sporadici accenni al mistero dell’Ascensione; i Vangeli di Matteo e di Giovanni non ne parlano e ambedue terminano con il racconto di apparizioni posteriori alla Resurrezione. Marco finisce dicendo: “Gesù… fu assunto in cielo e si assise alla destra di Dio” (XVI, 10); ne parla invece Luca: “Poi li condusse fin verso Betania, e alzate le mani, li benedisse. E avvenne che nel benedirli si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (XXIV, 50-51). Ancora Luca negli Atti degli Apostoli, attribuitigli come autore sin dai primi tempi, al capitolo iniziale (1, 11), colloca l’Ascensione sul Monte degli Ulivi, al 40° giorno dopo la Pasqua e aggiunge: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Gli altri autori accennano solo saltuariamente al fatto o lo presuppongono, lo stesso s. Paolo pur conoscendo il rapporto tra la Risurrezione e la glorificazione, non si pone il problema del come Gesù sia entrato nel mondo celeste e si sia trasfigurato; infatti nelle varie lettere egli non menziona il passaggio dalla fase terrestre a quella celeste. Ma essi ribadiscono l’intronizzazione di Cristo alla destra del Padre, dove rimarrà fino alla fine dei secoli, ammantato di potenza e di gloria; “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo sta assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra; siete morti infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!” (Colossesi, 3, 1-3).
Pietro Perugino, Ascensione di Cristo
QUALI SONO LE FONTI STORICHE?
Luca, il terzo evangelista, negli Atti degli Apostoli specifica che Gesù dopo la sua passione, si mostrò agli undici apostoli rimasti, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio; bisogna dire che il numero di ‘quaranta giorni’ è denso di simbolismi, che ricorre spesso negli avvenimenti del popolo ebraico errante, ma anche con Gesù, che digiunò nel deserto per 40 giorni. San Paolo negli stessi ‘Atti’ (13, 31) dice che il Signore si fece vedere dai suoi per “molti giorni”, senza specificarne il numero, quindi è ipotesi attendibile, che si tratti di un numero simbolico. L’Ascensione secondo Luca, avvenne sul Monte degli Ulivi, quando Gesù con gli Apostoli ai quali era apparso, si avviava verso Betania, dopo aver ripetuto le sue promesse e invocato su di loro la protezione e l’assistenza divina, ed elevandosi verso il cielo come descritto prima (Atti, 1-11). Il monte Oliveto, da cui Gesù salì al Cielo, fu abbellito da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino con una bella basilica; verso la fine del secolo IV, la ricca matrona Poemenia edificò un’altra grande basilica, ricca di mosaici e marmi pregiati, sul tipo del Pantheon di Roma, nel luogo preciso dell’Ascensione segnato al centro da una piccola rotonda. Poi nelle alterne vicende che videro nei secoli contrapposti Musulmani e Cristiani, Arabi e Crociati, alla fine le basiliche furono distrutte; nel 1920-27 per voto del mondo cattolico, sui resti degli scavi fu eretto un grandioso tempio al Sacro Cuore, mentre l’edicola rotonda della chiesa di Poemenia, divenne dal secolo XVI una piccola moschea ottagonale.
QUAL È IL SIGNIFICATO DELL’ASCENSIONE?
San Giovanni nel quarto Vangelo, pone il trionfo di Cristo nella sua completezza nella Resurrezione, e del resto anche gli altri evangelisti dando scarso rilievo all’Ascensione, confermano che la vera ascensione, cioè la trasfigurazione e il passaggio di Gesù nel mondo della gloria, sia avvenuta il mattino di Pasqua, evento sfuggito ad ogni esperienza e fuori da ogni umano controllo. Quindi correggendo una mentalità sufficientemente diffusa, i testi evangelici invitano a collocare l’ascensione e l’intronizzazione di Gesù alla destra del Padre, nello stesso giorno della sua morte, egli è tornato poi dal Cielo per manifestarsi ai suoi e completare la sua predicazione per un periodo di ‘quaranta’ giorni. Quindi l’Ascensione raccontata da Luca, Marco e dagli Atti degli Apostoli, non si riferisce al primo ingresso del Salvatore nella gloria, quanto piuttosto l’ultima apparizione e partenza che chiude le sue manifestazioni visibili sulla terra. Pertanto l’intento dei racconti dell’Ascensione non è quello di descrivere il reale ritorno al Padre, ma di far conoscere alcuni tratti dell’ultima manifestazione di Gesù, una manifestazione di congedo, necessaria perché Egli deve ritornare al Padre per completare tutta la Redenzione: “Se non vado non verrà a voi il Consolatore, se invece vado ve lo manderò” (Giov. 16, 5-7). Il catechismo della Chiesa Cattolica dà all’Ascensione questa definizione: “Dopo quaranta giorni da quando si era mostrato agli Apostoli sotto i tratti di un’umanità ordinaria, che velavano la sua gloria di Risorto, Cristo sale al cielo e siede alla destra del Padre. Egli è il Signore, che regna ormai con la sua umanità nella gloria eterna di Figlio di Dio e intercede incessantemente in nostro favore presso il Padre. Ci manda il suo Spirito e ci dà la speranza di raggiungerlo un giorno, avendoci preparato un posto”.
Andrea Mantegna, Ascensione, 1460, Galleria degli Uffizi, Firenze
È FESTA ANCHE DAL PUNTO DI VISTA CIVILE?
La prima testimonianza della festa dell’Ascensione, è data dallo storico delle origini della Chiesa, il vescovo di Cesarea, Eusebio (265-340); la festa cadendo nel giovedì che segue la quinta domenica dopo Pasqua, è festa mobile e in alcune nazioni cattoliche è festa di precetto, riconosciuta nel calendario civile a tutti gli effetti. In Italia previo accordo con lo Stato Italiano, che richiedeva una riforma delle festività, per eliminare alcuni ponti festivi, la Conferenza episcopale italiana ha fissato la festa liturgica e civile, nella domenica successiva ai canonici 40 giorni dopo Pasqua. Nel Rito ambrosiano, però, si celebra il giovedì. Al giorno dell’Ascensione si collegano molte feste popolari italiane in cui rivivono antiche tradizioni, soprattutto legate al valore terapeutico, che verrebbe conferito da una benedizione divina alle acque . A Venezia aveva luogo una grande fiera, accompagnata dallo “Sposalizio del mare”, cerimonia nella quale il Doge a bordo del “Bucintoro”, gettava nelle acque della laguna un anello, per simboleggiare il dominio di Venezia sul mare; a Bari la benedizione delle acque marine, a Firenze si celebra la “Festa del grillo”.
Card. Ratzinger: “L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre” (Da “Immagini di speranza”)
Ascensione
Nel racconto dell’ascensione di Cristo l’evangelista Luca ha inserito un’osservazione che continuo a trovare sorprendente, per quanto io abbia cercato più volte di chiarirne il significato teologico. Infatti Luca nel suo vangelo dice che i discepoli erano pieni di grande gioia quando dal monte degli ulivi scesero verso Gerusalemme. Secondo la nostra normale psicologia qui c’è davvero qualcosa che non va: l’Ascensione del Signore al cielo era l’ultima apparizione del Risorto; i discepoli sapevano che non avrebbero più rivisto il Signore in questo mondo. Certo, questo congedo non è paragonabile a quello del venerdì santo. Allora, infatti, Gesù sembrava aver fallito e tutte le speranze fino ad allora riposte in lui dovevano apparire ora come un grande abbaglio. Al contrario, il congedo da lui il quarantesimo giorno dopo la risurrezione, reca in sé qualcosa di trionfale e rassicurante: questa volta Gesù non è infatti consegnato alla morte, ma entra fino in fondo nella vita. Non è sconfitto, ma Dio gli ha reso giustizia. Per questo c’è motivo di gioia. Ma quando l’intelletto e la volontà gioiscono, non è detto che il sentimento debba fare lo stesso. Pur comprendendo la vittoria di Gesù, si può soffrire per la perdita della sua vicinanza umana. La paura dei discepoli di essere abbandonati potrebbe essere cresciuta, tanto più all’idea del compito smisurato che si prospettava loro: uscire verso l’ignoto e rendere testimonianza a Gesù davanti a un mondo che li vedeva solo come gente di poco conto venuta dalla Giudea, per di più emarginata dal suo stesso popolo. Ma proprio qui si collocano, inamovibili, le parole della grande gioia di coloro che tornavano a casa. Non riusciremo mai a chiarire queste parole, finchè non capiremo fino in fondo la letizia dei martiri: il canto di un Massimiliano Kolbe nel bunker della fame; il gioioso inno di lode a Dio, che Policarpo intona sul rogo, e molto altro ancora. Nei santi dell’amore del prossimo troviamo la stessa grande gioia proprio nei momenti in cui essi rendono agli ammalati e ai sofferenti i servizi più difficili; e grazie a Dio non si tratta solo di storie passate. Così, da simili esperienze possiamo intuire qualcosa di come la gioia della vittoria di Cristo coinvolga non solo l’intelletto, ma possa comunicarsi anche al cuore e giungere in tal modo alla sua pienezza. Solo quando qualcosa di simile avviene anche in noi stessi, possiamo comprendere la festa dell’Ascensione di Cristo. Quello che è accaduto qui è la vittoria della definitività della redenzione nel cuore dell’uomo, così che la conoscenza diventa gioia. Come siano andate le cose nei particolari non lo sappiamo. Ma la Sacra Scrittura ci dà comunque dei punti di riferimento. Luca ci racconta per esempio che Gesù, nei quaranta giorni dopo la risurrezione, si mostrò agli occhi dei discepoli e si fece udire da loro, spiegando le cose del regno di Dio. Aggiunge poi una terza espressione, con la quale documenta la convivenza e la comunione di quei giorni, un’espressione un po’ strana, che la traduzione ecumenica rende con “pasto in comune”. Ma il testo alla lettera dice che il Signore aveva “mangiato il sale con loro”. Il sale era il preziosissimo dono con cui si accoglievano gli ospiti e, quindi, espressione della vera ospitalità. Per questo si dovrebbe piuttosto tradurre: egli li accolse nella sua ospitalità, in un’ospitalità che non è solo un evento esteriore, ma che significa condivisione della propria vita. Ma il sale è anche un simbolo di passione; è condimento ed è mezzo di conservazione che agisce contro la corruzione, contro la morte. Malgrado tutto ciò che quelle parole enigmatiche possono voler dire, l’intenzione è in qualche modo chiara: Gesù aveva reso percepibile il mistero alla sensibilità e al cuore dei discepoli. Non era più solo un’idea, si era appena rivelato alla loro consapevolezza razionale, eppure essi erano toccati fin nella loro fisicità dalla sua sostanza.
Essi non conoscevano più solo dall’esterno Gesù e il suo messaggio, esso viveva dentro di loro. C’è un’altra annotazione dell’evangelista che mi pare importante. Egli afferma che Gesù aprì le braccia e li benedisse. Mentre li benediceva, scomparve dinanzi a loro. La sua ultima immagine sono le sue braccia aperte, i gesti della benedizione. L’icona dell’Ascensione dell’Oriente cristiano, che nel suo nucleo risale fino alle prime forme di arte cristiana, ha fatto di questa scena il vero centro di tutto. L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre e, insieme, la forza che apre la porta del mondo verso l’alto. E’ benedicendoli che egli se ne va, ma vale anche il contrario: benedicendoli egli resta. E’ questo, da allora, il suo modo di rapportarsi con il mondo e con ciascuno di noi: egli benedice, è divenuto lui stesso benedizione per noi. Proprio queste parole potrebbero allora cogliere nel modo più semplice il centro di quell’evento e chiarire la strana contraddizione di quel congedo che è gioia piena: l’evento che i discepoli avevano sperimentato era stato benedizione, ed essi se ne andarono come persone che erano state benedette, non abbandonate. Sapevano di essere stati benedetti per sempre e di trovarsi sotto quelle mani benedicenti, dovunque fossero andati. Letta in questo senso, l’annotazione di san Luca viene a trovarsi molto vicina ad alcune frasi dei discorsi d’addio di Gesù, riferiti da Giovanni. Colpisce anzitutto il ruolo riservato alla gioia. In primo luogo i discepoli dovevano passare attraverso l’esperienza della tristezza; si, l’esperienza della perdita, del venir meno della comunità, è necessaria perché essi possano arrivare alla gioia. “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”, dice Gesù (Gv 14,18), e con questo venire si intende proprio quella nuova esperienza della vicinanza che Luca descrive con il termine “benedizione”. Infatti questa frase del discorso d’addio corrisponde all’altra: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Intercessore, perché rimanga con voi per sempre” (Cv 14,16). La teologia della Chiesa d’Oriente ha posto sullo stesso piano la preghiera del Signore per un altro Intercessore e la benedizione nel giorno dell’Ascensione: le mani benedicenti sono anche mani offerenti, mani oranti. Esse sono sempre elevate dinanzi al Padre e lo pregano che non lasci mai più soli i suoi, che il Consolatore rimanga sempre con loro. Se leggiamo insieme Luca e Giovanni, possiamo dire: i discepoli, guardando Gesù benedicente e orante, hanno capito che era proprio vero: “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”. Hanno avuto la certezza definitiva: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Hanno saputo che Cristo viene ora e per sempre come benedizione; che egli, per così dire, continua a mangiare il sale con loro, che essi erano e sarebbero rimasti benedetti in mezzo a tutte le tribolazioni. I testi liturgici della Chiesa d’Oriente mettono in evidenza anche un altro aspetto di quell’evento. Vi si legge: “ Il Signore è risorto, per risollevare l’immagine decaduta di Adamo e per mandarci lo Spirito che santifica le nostre anime”. L’Ascensione di Cristo rivela anche l’aspetto a prima vista nascosto dell’Ecce homo. Pilato ha mostrato alla folla radunata il Gesù reietto e abbattuto, rinviando in tal modo al volto oltraggiato e umiliato dell’uomo come tale. “Guardate, questo è l’uomo”, aveva detto. Cinema e teatro contemporanei continuano a metterci davanti – talvolta con compassione, più spesso cinicamente e molte volte anche con il piacere masochistico dell’autodistruzione – l’uomo umiliato e sconfitto, in tutte le forme di orrore: questo è l’uomo, continuano a dirci. L’evoluzionismo ci riporta al passato, ci mostra il risultato delle sue ricerche, l’argilla da cui è venuto l’uomo, e ci martella: questo è l’uomo.
Gerusalemme, Edicola dell’Ascensione
Si, l’immagine di Adamo è decaduta; giace nella sporcizia e continuerà ad essere sporcata. Ma l’Ascensione di Cristo dice ai discepoli , dice a noi: il gesto di Pilato è solo una mezza verità, e ancor meno di questo. Cristo non è solo il volto insanguinato e trafitto; egli è il Signore di tutto il mondo. Ma la sua signoria non umilia la terra, le restituisce il suo splendore, la possibilità di parlare della bellezza e della potenza di Dio. Cristo ha risollevato l’immagine di Adamo: voi non siete solo sporcizia; vi innalzate al disopra di tutte le dimensioni cosmiche fino al cuore di Dio. L’Ascensione di Cristo è la riabilitazione dell’uomo: non l’essere colpiti abbassa e umilia, ma il colpire; non l’essere oggetto di sputi abbassa e umilia , ma lo sputare addosso a qualcuno; non chi è offeso, ma chi offende è disonorato; non è la superbia che innalza l’uomo, ma l’umiltà; non è l’autoglorificazione a renderlo grande, ma la comunione con Dio, di cui egli è capace. L’Ascensione di Cristo non è uno spettacolo per i discepoli, ma un’evento in cui essi stessi sono inseriti. E’ un sursum corda, un movimento verso l’alto, a cui tutti veniamo chiamati. Ci dice che l’uomo può vivere rivolto verso l’alto, che è capace dell’altezza. Di più: l’altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso. A questa altezza l’uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. L’immagine dell’uomo è elevata, ma noi abbiamo la libertà di tirarla verso il basso e strapparla oppure di lasciarci elevare, innalzare verso l’alto. Non si comprende l’uomo se ci si chiede solo da dove viene. Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. E solo quando questa altezza viene percepita, nasce un rispetto incondizionato verso l’uomo, un rispetto che lo considera sacro anche in tutte le sue profonde umiliazioni. Solo partendo da qui si può imparare ad amare l’umanità in sé e negli altri. Per questo la parola più importante nei riguardi dell’uomo non può essere l’accusa. Certo, anche l’accusa è necessaria, perché la colpa sia riconosciuta come colpa e sia distinta dalla vera essenza dell’uomo. Ma l’accusa da sola non basta: se la si isola in se stessa, diventa negazione e per ciò stesso uno strumento di devastazione dell’uomo. Per questo non è neppure giusto dire, come qualche volta si fa oggi, che la fede dovrebbe tenere desta la memoria sovversiva dell’umanità, che essa deve impedire di venire a compromesso con l’ ingiustizia di questo mondo. E’ vero comunque che la fede ci insegna una memoria, la memoria della Croce e della risurrezione di Cristo. Ma questa memoria non è sovversiva. Ci ricorda sicuramente che l’immagine di Adamo è decaduta, ma ci ricorda soprattutto che questa immagine è stata risollevata e che, anche se decaduta, resta pur sempre l’immagine della creatura amata da Dio. La fede ci impedisce di dimenticare; desta in noi l’autentica, sconvolgente memoria dell’origine: del fatto che noi veniamo da Dio; e vi aggiunge la nuova memoria che si esprime nella festa dell’Ascensione di Cristo: la memoria che il luogo autenticamente appropriato della nostra esistenza è Dio stesso e che è da lì che dobbiamo guardare l’uomo. La memoria della fede è in questo senso pienamente positiva: libera la dimensione ultima positiva dell’uomo. Riconoscere questo è una difesa ben più efficace contro ogni riduzione dell’uomo rispetto alla semplice memoria delle negazioni che, alla fine, può lasciare dietro di sé solo il disprezzo per l’uomo. L’antidoto più efficace contro la rovina dell’uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L’Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull’uomo. Essa ci insegna il rispetto per l’umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini. Se si pensa a tutto questo, svanisce da sé l’idea che l’Ascensione di Cristo sia la canonizzazione di un’immagine del mondo ormai superata. Il problema centrale è infatti la grandezza dell’umanità, non i piani del cosmo. Si tratta di Dio e dell’uomo, dell’autentica altezza dell’umanità, non del posto delle stelle. Questa visione non deve però ingannarci, inducendoci a pensare il cristianesimo del tutto fuori e del mondo e a fare della fede una semplice questione di sentimento. C’è sempre anche un riferimento giusto, pienamente sensato della fede all’insieme del mondo creato, per la quale, tra l’altro, la vecchia immagine del mondo può comunque servire da strumento di orientamento. Non è tanto facile da spiegare, dato che la nostra capacità immaginativa ha subito un cambiamento dovuto all’utilizzo tecnico del mondo. Possiamo forse trovare una possibile via d’accesso se pensiamo ancora una volta al tipo classico d’icona con cui la Chiesa d’Oriente ha rappresentato l’Ascensione di Cristo. In esse si percepisce che lo scenario in cui si svolge l’evento è quello del monte degli Ulivi grazie ad alcuni rami d’ulivo che si irradiano dalla figura che separa cielo e terra. Con ciò è subito revocata anche la notte del Getsemani :il luogo dell’angoscia diventa il luogo della sicurezza fiduciosa. Proprio là dove è stato vissuto da Cristo nel suo intimo il dramma della morte e della sua umiliazione si compie il rinnovamento dell’uomo. Proprio là comincia la sua vera ascensione. Ma le foglie d’ulivo hanno a loro volta qualcosa da dire: esse esprimono la bontà della creazione, la ricchezza dei suoi doni, l’unità tra la creazione e l’uomo, in cui ambedue sono compresi a partire dal Creatore. Essi sono segni della pace, per questo divengono qui segni di una liturgia cosmica. La storia di Gesù Cristo non è solo un avvenimento capitato tra gli uomini su un povero pianeta smarrito nella vastità e nel silenzio dell’universo. E’ un evento che abbraccia cielo e terra, la realtà tutta intera. Quando noi celebriamo la liturgia, non siamo di fronte a una sorta di riunione tra parenti in cui ci concediamo a vicenda l’appoggio di una limitata comunione. La liturgia cristiana ha una dimensione cosmica: ci uniamo alla lode della creazione e, nel contempo, le prestiamo la nostra voce. In conclusione, desidero aggiungere ancora un pensiero, questa volta tutto dalla tradizione figurata dell’Occidente. Tutti voi conoscete sicuramente quelle immagini tanto squisitamente naif in cui sopra le teste degli apostoli rimangono visibili solo i piedi di Gesù che sporgono ancora dalla nuvola circostante. A sua volta la nuvola si presenta esternamente come un cerchio scuro, ma all’interno è di una luminosità fulgida. Mi sembra che dietro l’apparente ingenuità di questa rappresentazione si celi qualcosa di molto profondo. Tutto quello che noi vediamo di Cristo nel tempo della storia sono i suoi piedi e la nube. I suoi piedi: che cosa significa ciò? Torna alla mente una strana espressione del vangelo di Matteo, tratta dal racconto della risurrezione, in cui si dice che le donne si strinsero ai piedi di Gesù e lo adorarono. In quanto risorto egli supera e sovrasta qualsiasi ordine di grandezza terrena: solo i suoi piedi possiamo ancora toccarli e li tocchiamo nell’adorazione. Qui si potrebbe riflettere sul fatto che, mettendosi sulle sue tracce, seguiamo i suoi passi nella preghiera. Pregando andiamo verso di lui, pregando arriviamo a toccarlo, anche se in questo mondo ciò avviene sempre da lontano, sempre dal basso, sempre e solo sulle tracce del suo cammino terreno. Nel contempo diventa chiaro che non possiamo trovare le tracce dei piedi di Cristo se guardiamo solo in basso, se ci limitiamo a misurare le impronte e intendiamo la fede come qualcosa di tangibile. Il Signore è movimento verso l’alto e possiamo riconoscerlo solo se anche noi ci mettiamo in movimento, guardando in alto e salendo. Dalla lettura dei Padri della Chiesa ci viene ancora un importante suggerimento: la vera elevazione dell’uomo avviene quando, nel donarsi umilmente agli altri, impara ad abbassarsi totalmente, fino a terra, fino al gesto del lavare i piedi. Proprio questa umiltà che sa abbassarsi porta l’uomo verso l’alto; proprio questo modo di andare verso l’alto vuole farci imparare l’Ascensione. L’immagine delle nuvole va nella stessa direzione. Ci ricorda quella nuvola che precedeva Israele nella sua peregrinazione attraverso il deserto: di giorno era nuvola, di notte una colonna di fuoco. Anche “nuvola” è un’espressione che indica un movimento, una realtà di cui noi non possiamo impadronirci e che non possiamo fissare; essa rappresenta un segno di orientamento che ci aiuta solo se le andiamo dietro, rappresenta il Signore, che è sempre davanti a noi. Essa è insieme nascondimento e presenza: per questo è divenuta immagine sensibile dei segni sacramentali in cui il Signore ci precede, in cui egli si nasconde e, insieme, si lascia toccare. Torniamo ancora una volta al nostro punto di partenza. L’Ascensione è stata motivo di gioia per i discepoli. Essi sapevano che non sarebbero stati più soli. Sapevano di essere benedetti. E’ proprio questa la consapevolezza che la Chiesa vuole imprimere dentro di noi nei quaranta giorni dopo Pasqua. Essa desidera che anche per noi la consapevolezza diventi un sapere non solo della ragione ma del cuore, perché anche in noi possa scaturire la grande gioia che ai discepoli non poteva più essere tolta. Perché sorga questa sapienza del cuore è necessario l’incontro, un addentrarci nel discorso con il Signore, una profonda familiarità con lui, che la Scrittura descrive con l’espressione del “mangiare insieme il sale”. A questa apertura interiore ci invita la festa dell’Ascensione di Cristo. Quanto più ci riesce, tanto più comprenderemo la grande gioia scaturita nel giorno di quell’apparente congedo che, in verità, è stato l’inizio di una nuova vicinanza.
Da Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa”, Edizioni San Paolo 2005
Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Lettera Apostolica “Patris Corde” del Santo Padre Francesco
CON CUORE DI PADRE: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]
I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.
Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.
Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).
Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).
Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]
Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.
Padre amato
La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]
San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]
Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]
In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]
La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).
Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.
Padre nella tenerezza
Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).
Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).
Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).
La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).
Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]
Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).
Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.
Padre nell’obbedienza
Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]
Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.
Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).
In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).
Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).
L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.
San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]
In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.
Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).
Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).
Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]
Padre nell’accoglienza
Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]
Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.
La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.
La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.
Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).
Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.
L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).
Padre dal coraggio creativo
Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.
Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).
A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.
Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.
Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.
Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.
Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]
Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]
Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.
Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.
6 Padre lavoratore
Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.
In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.
Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?
La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!
Padre nell’ombra
Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]
Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.
Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).
Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.
La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).
Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.
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«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.
Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.
Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).
I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.
Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.
Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]
Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.
A lui rivolgiamo la nostra preghiera:
Salve, custode del Redentore, e sposo della Vergine Maria. A te Dio affidò il suo Figlio; in te Maria ripose la sua fiducia; con te Cristo diventò uomo. O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi, e guidaci nel cammino della vita. Ottienici grazia, misericordia e coraggio, e difendici da ogni male. Amen.
Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato. Francesco
La conversione del Manzoni Vincenzo Zaccaria, baccelliere in Scienze Bibliche Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione” all’età di 25 anni, ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” . Pare tuttavia si tratti di un episodio leggendario, ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito taceva volontariamente nel trattare l’argomento o al massimo rispondeva a bassa vo ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in ne a mio parere più convincente, anche perché l’ho studiata sui banchi di scuola. A nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di colgo l’occasione per ringraziarlo). in compagnia della moglie Enrichetta, calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. La folla è festante, la confusione è tanta; grida di gioia al passaggio degli sposi e lo scoppio di alcuni fuochi d’artificio portano il Manzoni a perdere di vista la moglie in un attimo. Il Manzoni prova immediatamente a ritrovarla, la chiama ad alta voce, ma non riesce più a ritrovarla; la moglie sembra sparita. I minuti passano, ve ritrovare la moglie, ma nulla, la moglie sembra scomparsa. Smarrito, il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le il silenzio e la quiete della basilica tranquillizzano immediatamente il Manzoni. S con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere, per mettersi alla prova e prega per ritrovare la moglie! Di certo sarà rimasto per qualche minuto da solo in un , avrà supplicato di essere ascoltato, avrà insistito con sincerità, di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenzial dopo questa prova, può nuovamente abbracciarla. L’esistenza del Manzoni da quel momento cambiò nell’animo ma anche nella sua arte. Graz uomini possono continuare ad apprezzare gli componimenti dedicati alle maggiori festività del cattolicesimo Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale Pentecoste. Riprendo alcuni momenti de La Resurrezione parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia dell’uomo: È risorto: il capo santo più non posa nel sudario è risorto: dall’un canto dell’avello solitario sta il coperchio rovesciato: come un forte inebbriato , De tenebris in admirabile lumen “Egli vi ha chiamati fuori delle tenebre, per condurvi nella sua luce meravigliosa”. – 1Pt 2:9, TILC. Lapide posta sul primo pilastro sinistro Roch, che commemora la Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione” ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” . ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito al massimo rispondeva a bassa voce ”è stata la grazia di ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in studiata sui banchi di scuola. Allora il nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di maturità fu calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del la confusione è tanta; spinte, urla, tano il Manzoni a perdere di la chiama ad alta voce, si fa la moglie sembra sparita. I minuti passano, ma non rinuncia; la moglie sembra scomparsa. Smarrito, stanco e sospinto dalla il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le zzano immediatamente il Manzoni. Senza però con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere, ha l’occasione per qualche minuto da solo in un avrà insistito con sincerità, le sue parole di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenziale”. Manzoni da quel momento cambiò non solo ma anche nella sua arte. Grazie a quel momento, gli uomini possono continuare ad apprezzare gli Inni sacri, cinque ori festività del cattolicesimo: La l Natale, La Passione, La La Resurrezione. Gustiamo con le parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia il Signor si risvegliò Era l’alba; e molli il viso Maddalena e l’altre donne fean lamento in su l’Ucciso; ecco tutta di Sionne si commosse la pendice e la scolta insultatrice di spavento tramortì Un estranio giovinetto si posò sul monumento: era folgore l’aspetto era neve il vestimento: alla mesta che ‘l richiese dié risposta quel cortese: è risorto; non è qui. Parafrasi: Egli è risorto: il suo capo non è più avvolto dal sudario; è risorto: ad un lato del sepolcro vuoto sta, rovesciata, la pietra tombale: il Signore si risvegliò, come un uomo forzuto che è stato ubriacato dal vino. Era l’alba, e col volto bagnato di pianto Maddalena e le altre donne piangevano l’uccisione di Gesù, quando la pendice del monte Sion [su cui sorge Gerusalemme] tremò e le guardie, che con la loro presenza e con il loro atteggiamento costituivano un insulto a Cristo, tramortirono di paura. Un giovinetto sconosciuto a tutti [un angelo] si posò sul luogo della tragedia: ed era il suo aspetto come quello di un fulmine, e il suo abbigliamento come neve: rispondendo ad una domanda di Maria Maddalena, con dolcezza annunciò: Egli non è più qui, è risorto.
Architetta, notaia, medica, soldata: arriva per Treccani il primo «Dizionario della lingua italiana» che registra anche le forme femminili di nomi e aggettivi che tradizionalmente si trovano solo al maschile. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta «la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua». Cercando il significato di un aggettivo come «bello» o «adatto» troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico: bella, bello; adatta, adatto. L’Istituto della Enciclopedia Italiana abbandona anche il “vocabolariese” e riconosce tra i neologismi «distanziamento sociale», «lockdown» e «smart-working». Cronaca di una lingua che, finalmente, evolve.
L’infaticabile lavoro di aggiornamento della lingua italiana a cui l’Osservatorio di Treccani si dedica senza sosta da oltre un secolo si concretizza in una nuova opera in tre volumi: Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storicoetimologico e Storia dell’Italiano per immagini, che sarà presentata in anteprima il 16 settembre alla XXIII edizione di Pordenonelegge, la Festa del Libro con gli Autori. Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, «Il Vocabolario Treccani 2022» è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole.
Parole da leggere. Parole da scoprire. Parole da vedere. I tre volumi del Vocabolario raccontano la nostra lingua secondo tre approcci diversi. Nel «Dizionario dell’italiano Treccani – Parole da leggere» Treccani propone – per eliminare anche gli stereotipi di genere secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.
Oltre a promuovere un uso della lingua più al passo con i tempi e attento alla questione di genere, il Dizionario dell’italiano Treccani vuol essere uno strumento accessibile a tutti, rispettoso del primo diritto di chi legge, quello dell’immediata comprensione dei significati. Niente più “vocabolariese”, tecnicismi lessicografici, spiegazioni complesse e definizioni che per essere comprese hanno bisogno di altre definizioni. Gli esempi che guidano all’utilizzo delle singole voci sono riferiti all’uso reale della lingua e le definizioni sono volutamente chiare, semplici, dirette.
Particolare attenzione è stata data ai lettori più giovani e al loro mondo: non solo si è scelto di dare spazio a numerosi termini ricorrenti nei testi scolastici e universitari, ma è stato favorito l’inserimento di molti esempi presi direttamente dalla rete, dai blog o dalle reti sociali. Un’apertura nei confronti del digitale «che dimostra la fiducia dall’Istituto verso i nuovi mezzi di comunicazione e le nuove generazioni». Attenta anche la selezione dei neologismi accolti. In «Storia dell’italiano per immagini» ci sono testi e illustrazioni in grado di trasmettere un ritratto suggestivo e originale della storia della nostra lingua e nel «Dizionario storico-etimologico – Parole da scoprire», c’è una pagina per ognuna delle 521 parole analizzate che conduce il lettore attraverso un viaggio temporale alla scoperta di aneddoti, storie e particolarità.