La duplice povertà delle donne

La duplice povertà delle donne

 La duplice povertà delle donne  DCM-010

Povertà è una parola complessa. Ha accezioni negative e positive al tempo stesso: viene associata a mancanza e privazione, ma anche a beatitudine e aspirazione di vita. Il povero è da commiserare, è colpevole della propria condizione, oppure è un santo, che ha compreso il segreto di una vita felice. È una persona da aiutare, oppure un esempio da imitare. L’economista iraniano Majid Rahnema, nel suo libro Quando la povertà diventa miseria individua cinque forme di povertà:

«Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale» (2005, Einaudi).

Cinque forme di povertà, ma non tutte maledizioni; alcune addirittura vie di felicità. C’è infatti povertà e… povertà. Il titolo originale del libro dell’economista iraniano è molto più eloquente della sua traduzione italiana: Quand la misère chasse la pauvreté, cioè Quando la miseria scaccia la povertà. In certe circostanze, infatti, la miseria è talmente grave da rendere impossibile il vivere la povertà intesa come virtù liberamente scelta: se non ho il denaro per nutrire i miei figli, o per curarli, è impossibile scegliere una vita sobria e generosa. «Per l’uomo con lo stomaco vuoto, il cibo diventa Dio», diceva Gandhi; e quando l’uomo è in una tale condizione, diventa facilmente schiavo di chi gli promette quel cibo. Anche l’economista Alfred Marshall così si esprimeva nel 1890: «È vero che persino un uomo povero può raggiungere nella religione, negli affetti famigliari e nell’amicizia la felicità più alta. Ma le condizioni che caratterizzano la povertà estrema tendono ad uccidere questa felicità». Potremmo dunque dire che la povertà è una benedizione e la miseria invece una maledizione. La miseria va dunque combattuta, la povertà può diventare un’ideale di vita, che porta alla felicità. Quest’ultimo nesso è difficile da comprendere: perché privarsi volontariamente di beni e ricchezze può renderci felici? “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli” (Lc. 6,20). I poveri sperimentano il regno dei cieli già su questa terra: «Un regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano: la provvidenza è per Lucia, non per don Rodrigo. Le feste più belle sono le feste di poveri: forse sulla terra non ci sono cose più gioiose di matrimoni e nascite celebrate da poveri in mezzo ai poveri» (Luigino Bruni, «Avvenire» 2015).

Donne e povere: una doppia marginalità

Purtroppo, anche quando parliamo di miseria e di costrizione ad una vita povera, dobbiamo constatare che esistono differenze tra uomini e donne: neanche la miseria livella i generi. Ho recentemente incontrato una donna che per 13 anni ha lavorato come badante senza tutele: ora è senza lavoro, senza possibilità di pensione, in cerca disperata di un’opportunità, e quindi pronta a rimanere invisibile pur di avere di che mangiare. Qui si apre il tema della minore autonomia finanziaria delle donne che le espone ad una maggiore fragilità di fronte a eventi sfortunati. La maggioranza delle donne non possiede un conto bancario, se sposate non hanno la titolarità dei conti, e, avendo meno pratica, sono anche meno competenti in questi ambiti. E purtroppo esiste una correlazione ben documentata tra autonomia finanziaria e violenza domestica: le donne più soggette a violenze domestiche sono quelle che non hanno la libertà e l’autonomia per allontanarsi da mariti violenti. Quello della violenza è ormai un fenomeno conosciuto, ma ci sono tanti altri ambiti in cui le donne non sono conosciute e riconosciute, soprattutto quando rischiano impoverimento ed esclusione.

A volte, infatti, i dati che raccogliamo distorcono la realtà, spesso perché pensati da uomini e avendo l’uomo come norma. È la tesi di Caroline Criado Perez, che nel suo libro Invisible women: exposing data bias in a world designed for men (Chatto & Windus, London 2019) cita tanti esempi di come le statistiche non vedano lo specifico e le esigenze delle donne, e quindi restituiscono un quadro deformato della realtà. E se poi le politiche si basano su questi dati, va da sé che le donne abbiano vita più difficile. Secondo l’autrice le donne sono invisibili nella vita quotidiana: pensiamo al lavoro domestico (associato alle donne) che viene visto come un fenomeno normale; nella progettazione delle città: quanti piani urbanistici tengono conto di chi si sposta normalmente per fare la spesa?; sul lavoro: il divario salariale tra uomo e donna per lo svolgimento di mansioni identiche è ormai noto; nella tecnologia: solo per citare un esempio, il software di Google ideato per la dettatura decifra il linguaggio maschile con una probabilità del 70 per cento superiore rispetto a quello femminile; in campo medico: prendere il corpo maschile come paradigma e oggetto di studio porta, ancora oggi, ad un maggior numero di diagnosi sbagliate per le donne, e limita la ricerca su patologie tipicamente femminili.

Se ci ricordassimo più spesso che l’essere umano è maschio e femmina, anche le azioni di contrasto alla miseria sarebbero più efficaci.

La povertà è una scelta solo quando si è superata la miseria

Tornando alla differenza tra povertà e miseria, è importante riconoscere un legame tra queste due condizioni: solo chi sceglie liberamente uno stile di vita povero, solo chi rinuncia ai beni e sperimenta la condizione di povertà, può aiutare i miseri a risollevarsi. Tutto ciò che, invece, arriva dall’alto in basso, e vede la condizione di deprivazione solo come un problema da risolvere, non avrà mai le chiavi giuste per combattere efficacemente la miseria. Luisa de Marillac, Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Giovanni Battista Scalabrini (fatto santo il 9 ottobre da Papa Francesco), Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Calabria, Francesca Cabrini, Giovanni Bosco, Madre Teresa, scegliendo la via della povertà, hanno ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei vergognosi, nei derelitti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di grande e di bello per cui valse di spendere la loro vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguirono, attratti e ispirati dal loro esempio. In questa scia di precursori e profeti, le figure di donne spiccano per coraggio e capacità di andare controcorrente, considerato il fatto che sono state generalmente relegate in secondo piano. Purtroppo l’esempio e le gesta di queste donne, molte delle quali fondatrici di Istituti e ordini religiosi, è meno conosciuto rispetto a quello dei loro “colleghi” uomini. Anche oggi molti istituti religiosi femminili sono sulla frontiera di quella che potremmo chiamare miseria nella miseria di molte donne: traffico di esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne, alfabetizzazione ed educazione finanziaria, soprattutto nei Paesi in cui alle donne non è dato accesso a percorsi ordinari di istruzione, aiuto alla maternità, laddove si può facilmente morire nel dare alla luce una creatura.

Il lavoro delle consacrate non è quello di una ong

In che cosa il lavoro di tante donne consacrate a favore di altre donne si differenzia da quello di tante agenzie internazionali? Innanzitutto lo scopo: rendere vive le parole di Gesù «sono venuto a portare vita e vita in abbondanza» (Gv. 10,10). Portare la tenerezza di Dio per ogni creatura, soprattutto per gli emarginati e gli esclusi. In secondo luogo c’è un come, che è un già e un non ancora. Una proposta cristiana perché non ci siano esclusi, quella della comunione dei beni. Nella prima Comunità cristiana, leggiamo negli Atti degli Apostoli: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e poi veniva distribuito secondo il bisogno» [At. 4, 34-35]. La messa in comune era libera e spontanea, e i beni venivano ripartiti secondo le necessità. La conseguenza della messa in comune è che nella Comunità “non c’erano bisognosi”. Quando in una Comunità si dona con gioia e si condivide tutto, non ci sono bisognosi. Una scelta di sobrietà individuale condivisa tra tanti genera comunità inclusive. L’apostolo Paolo, in ogni piccola chiesa da lui fondata, provvedeva a organizzare le collette e nelle sue lettere spiega come realizzarle, per questo insiste, richiama e ringrazia. Da san Paolo impariamo che si condividono i beni, ma anche il proprio lavoro, perché tutti abbiano qualcosa da dare e che la Provvidenza è un attore fondamentale nella condivisione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore… Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente» [2 Cor. 9, 7.10].

La Provvidenza e il centuplo non si manifestano sempre sullo stesso piano dei doni e dei beni che vengono messi in comunione. Ad un privarsi di beni materiali, ad esempio, può corrispondere una inaspettata fecondità del lavoro, e viceversa. A questo proposito è significativo un passo della Lettera ai Romani: «La Macedonia e l’Acaia hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella Comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito per rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (cf. Rm 15,20-27). Comunione di beni spirituali e materiali, dunque.

Il cammino della comunione dei beni dipende dall’impegno di tutti e dal contributo di ciascuno. Non è un caso che il primo dissidio nella prima Comunità cristiana sia l’episodio di Anania e Saffira. [At. 5, 1-11 ] Essi, pur condividendo i beni, cercano anche di trattenere qualcosa per se stessi, mentendo a Pietro. Il primo problema di corruzione della Comunità non riguarda la dottrina o la fede, ma la comunione dei beni. È forse a causa di questo episodio, e dei tanti episodi in cui gli interessi personali prevalgono sul bene comune, che oggi si parla poco della comunione dei beni come un ideale e un modo di vivere che risolverebbe alla radice il problema degli scartati? Eppure tanti istituti religiosi, tante comunità cristiane e movimenti, senza fare troppo rumore, stanno vivendo questo ideale e sono germi, bozzetti di come potrebbe essere il mondo se lo pensassimo con gli occhi di è scartato e tutti comprendessimo la beatitudine della povertà.

di Alessandra Smerilli
Figlia di Maria Ausiliatrice, economista, segretaria del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale

     

    La conversione del Manzoni

    La conversione del Manzoni


    La conversione del Manzoni
    Vincenzo Zaccaria, baccelliere in Scienze Bibliche
    Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione”
    all’età di 25 anni, ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” .
    Pare tuttavia si tratti di un episodio leggendario, ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito
    taceva volontariamente nel trattare l’argomento o al massimo rispondeva a bassa vo
    ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in
    ne a mio parere più convincente, anche perché l’ho studiata sui banchi di scuola. A
    nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di
    colgo l’occasione per ringraziarlo).
    in compagnia della moglie Enrichetta, calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del
    matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. La folla è festante, la confusione è tanta;
    grida di gioia al passaggio degli sposi e lo scoppio di alcuni fuochi d’artificio portano il Manzoni a perdere di
    vista la moglie in un attimo. Il Manzoni prova immediatamente a ritrovarla, la chiama ad alta voce,
    ma non riesce più a ritrovarla; la moglie sembra sparita. I minuti passano,
    ve ritrovare la moglie, ma nulla, la moglie sembra scomparsa. Smarrito,
    il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le
    il silenzio e la quiete della basilica tranquillizzano immediatamente il Manzoni. S
    con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere,
    per mettersi alla prova e prega per ritrovare la moglie! Di certo sarà rimasto per qualche minuto da solo in un
    , avrà supplicato di essere ascoltato, avrà insistito con sincerità,
    di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenzial
    dopo questa prova, può nuovamente abbracciarla.
    L’esistenza del Manzoni da quel momento cambiò
    nell’animo ma anche nella sua arte. Graz
    uomini possono continuare ad apprezzare gli
    componimenti dedicati alle maggiori festività del cattolicesimo
    Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale
    Pentecoste.
    Riprendo alcuni momenti de La Resurrezione
    parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia
    dell’uomo:
    È risorto: il capo santo
    più non posa nel sudario
    è risorto: dall’un canto
    dell’avello solitario
    sta il coperchio rovesciato:
    come un forte inebbriato ,
    De tenebris in admirabile lumen
    “Egli vi ha chiamati fuori delle tenebre,
    per condurvi nella sua luce meravigliosa”. – 1Pt 2:9, TILC.
    Lapide posta sul primo pilastro sinistro
    Roch, che commemora la
    Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione”
    ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” .
    ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito
    al massimo rispondeva a bassa voce ӏ stata la grazia di
    ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in
    studiata sui banchi di scuola. Allora il
    nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di maturità fu
    calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del
    la confusione è tanta; spinte, urla,
    tano il Manzoni a perdere di
    la chiama ad alta voce, si fa
    la moglie sembra sparita. I minuti passano, ma non rinuncia;
    la moglie sembra scomparsa. Smarrito, stanco e sospinto dalla
    il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le
    zzano immediatamente il Manzoni. Senza però
    con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere, ha l’occasione
    per qualche minuto da solo in un
    avrà insistito con sincerità, le sue parole
    di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenziale”.
    Manzoni da quel momento cambiò non solo
    ma anche nella sua arte. Grazie a quel momento, gli
    uomini possono continuare ad apprezzare gli Inni sacri, cinque
    ori festività del cattolicesimo: La
    l Natale, La Passione, La
    La Resurrezione. Gustiamo con le
    parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia
    il Signor si risvegliò
    Era l’alba; e molli il viso
    Maddalena e l’altre donne
    fean lamento in su l’Ucciso;
    ecco tutta di Sionne
    si commosse la pendice
    e la scolta insultatrice
    di spavento tramortì
    Un estranio giovinetto
    si posò sul monumento:
    era folgore l’aspetto
    era neve il vestimento:
    alla mesta che ‘l richiese
    dié risposta quel cortese:
    è risorto; non è qui.
    Parafrasi:
    Egli è risorto: il suo capo non è più avvolto dal sudario; è risorto: ad un lato del sepolcro vuoto sta,
    rovesciata, la pietra tombale: il Signore si risvegliò, come un uomo forzuto che è stato ubriacato dal vino.
    Era l’alba, e col volto bagnato di pianto Maddalena e le altre donne piangevano l’uccisione di Gesù, quando
    la pendice del monte Sion [su cui sorge Gerusalemme] tremò e le guardie, che con la loro presenza e con il
    loro atteggiamento costituivano un insulto a Cristo, tramortirono di paura.
    Un giovinetto sconosciuto a tutti [un angelo] si posò sul luogo della tragedia: ed era il suo aspetto come
    quello di un fulmine, e il suo abbigliamento come neve: rispondendo ad una domanda di Maria Maddalena,
    con dolcezza annunciò: Egli non è più qui, è risorto.

    San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale

    San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale

    Lettera Apostolica “Patris Corde” del Santo Padre Francesco

    CON CUORE DI PADRE: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]

    I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.

    Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.

    Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).

    Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).

    Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]

    Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.

    1. Padre amato

    La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]

    San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]

    Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]

    In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]

    La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).

    Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

    1. Padre nella tenerezza

    Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

    Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

    Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).

    La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).

    Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]

    Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).

    Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.

    1. Padre nell’obbedienza

    Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]

    Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.

    Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).

    In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

    Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).

    L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.

    San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]

    In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.

    Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).

    Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).

    Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]

    1. Padre nell’accoglienza

    Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]

    Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.

    La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

    Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.

    La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.

    Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).

    Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.

    Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.

    L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).

    1. Padre dal coraggio creativo

    Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

    Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

    A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.

    Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.

    Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.

    Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.

    Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]

    Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]

    Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.

    Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.

    6 Padre lavoratore

    Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.

    In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.

    Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

    La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!

    1. Padre nell’ombra

    Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]

    Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

    Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).

    Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

    La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

    La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

    Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.

    ..*

    «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.

    Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.

    Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).

    I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.

    Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.

    Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]

    Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.

    A lui rivolgiamo la nostra preghiera:

    Salve, custode del Redentore,
    e sposo della Vergine Maria.
    A te Dio affidò il suo Figlio;
    in te Maria ripose la sua fiducia;
    con te Cristo diventò uomo.
    O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
    e guidaci nel cammino della vita.
    Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
    e difendici da ogni male. Amen.

    Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato. Francesco

    Treccani “architetta”, “notaia”, “medica” e “soldata”. La lingua è femmina

    Treccani “architetta”, “notaia”, “medica” e “soldata”. La lingua è femmina

     

    Architetta, notaia, medica, soldata: arriva per Treccani il primo «Dizionario della lingua italiana» che registra anche le forme femminili di nomi e aggettivi che tradizionalmente si trovano solo al maschile. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta «la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua». Cercando il significato di un aggettivo come «bello» o «adatto» troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico: bella, bello; adatta, adatto. L’Istituto della Enciclopedia Italiana abbandona anche il “vocabolariese” e riconosce tra i neologismi «distanziamento sociale», «lockdown» e «smart-working». Cronaca di una lingua che, finalmente, evolve.

    L’infaticabile lavoro di aggiornamento della lingua italiana a cui l’Osservatorio di Treccani si dedica senza sosta da oltre un secolo si concretizza in una nuova opera in tre volumi: Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storicoetimologico e Storia dell’Italiano per immagini, che sarà presentata in anteprima il 16 settembre alla XXIII edizione di Pordenonelegge, la Festa del Libro con gli Autori.
    Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, «Il Vocabolario Treccani 2022» è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole.

    Parole da leggere. Parole da scoprire. Parole da vedere. I tre volumi del Vocabolario raccontano la nostra lingua secondo tre approcci diversi. Nel «Dizionario dell’italiano Treccani – Parole da leggere» Treccani propone – per eliminare anche gli stereotipi di genere secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.

    Oltre a promuovere un uso della lingua più al passo con i tempi e attento alla questione di genere, il Dizionario dell’italiano Treccani vuol essere uno strumento accessibile a tutti, rispettoso del primo diritto di chi legge, quello dell’immediata comprensione dei significati. Niente più “vocabolariese”, tecnicismi lessicografici, spiegazioni complesse e definizioni che per essere comprese hanno bisogno di altre definizioni. Gli esempi che guidano all’utilizzo delle singole voci sono riferiti all’uso reale della lingua e le definizioni sono volutamente chiare, semplici, dirette.

    Particolare attenzione è stata data ai lettori più giovani e al loro mondo: non solo si è scelto di dare spazio a numerosi termini ricorrenti nei testi scolastici e universitari, ma è stato favorito l’inserimento di molti esempi presi direttamente dalla rete, dai blog o dalle reti sociali. Un’apertura nei confronti del digitale «che dimostra la fiducia dall’Istituto verso i nuovi mezzi di comunicazione e le nuove generazioni». Attenta anche la selezione dei neologismi accolti. In «Storia dell’italiano per immagini» ci sono testi e illustrazioni in grado di trasmettere un ritratto suggestivo e originale della storia della nostra lingua e nel «Dizionario storico-etimologico – Parole da scoprire», c’è una pagina per ognuna delle 521 parole analizzate che conduce il lettore attraverso un viaggio temporale alla scoperta di aneddoti, storie e particolarità.

    Gazzetta del Sud

    Cosa fa Dio in Vacanza?

    Cosa fa Dio in Vacanza?

    Ciò che Dio ha fatto durante le mie vacanze estive e probabilmente anche le tue( Tratto da un racconto)

    parco nazionale delle montagne

    Il peccato riporta le sue piccole vittorie, ma il Dio dell’amore è molto più grande..

    Non sono riuscito a dormire l’ultima notte del nostro soggiorno di agosto al campeggio KOA fuori dal Glacier National Park, dove la nostra famiglia stava festeggiando una riunione. È stata una settimana da capogiro. Seguendo il consiglio di amici, avevamo guidato dal Kansas attraverso il Wyoming fino al Montana e avevamo alloggiato nei campeggi dei parchi nazionali Grand Tetons e Yellowstone.

    Così sono andato a fare una passeggiata alle 4 del mattino e ho pensato a cosa Dio ha fatto durante le mie vacanze estive. 

    Innanzitutto, ho visto l’amore di Dio nel mondo naturale. 

    La vacanza è arrivata dopo che ho registrato l’episodio del mio podcast Extraordinary Story incentrato sulle parole di Gesù sui gigli del campo, che un autore chiama “una passeggiata attraverso il Giardino dell’Eden al fianco del meraviglioso Creatore, una passeggiata curativa intesa a apri i nostri occhi e cura l’inquietudine del nostro cuore attraverso la contemplazione del mondo naturale che ci circonda”.

    Quel giorno, ho capito cosa intendeva sulla Going-to-the-Sun Road del Montana, con scogliere a strapiombo che torreggiano su di noi da un lato e precipitano in un abisso dall’altro. Le nebbie si muovevano al rallentatore oltre i sempreverdi e l’acqua bianca scendeva a cascata lungo scogliere frastagliate. Continuava a venirmi in mente una frase, così l’ho detta ad alta voce nel furgone: “Dio ha creato tutto questo pensando a noi”. 

    Questo è innegabilmente vero. 

    Dio ha dato agli esseri umani la capacità unica di apprezzare la bellezza – e poi ha reso la terra straordinariamente bella perché ci ama. O meglio, poiché Egli è fuori dal tempo, ciò a cui assistiamo in ogni momento è il suo atto creativo originale, che travolge noi e tutti nella storia con la verità della sua bellezza e bontà.

    In secondo luogo, ho visto l’amore di Dio nella mia famiglia.

    In realtà, Dio non solo ci benedice con il suo atto creativo, ma ci invita a farlo. Insieme alla bellezza della natura nel Giardino dell’Eden, Dio ha donato al suo popolo l’amore sponsale che doveva “essere fecondo e moltiplicarsi”.

    Per me, ciò significava che mentre camminavo per il campeggio di notte, passavo davanti a figli, figlie, nipoti, zii, cugini e suoceri addormentati. 

    Alla cena di riunione di famiglia di quel giorno, avevo visto parenti in magliette Harley-Davidson chiacchierare con gli amministratori della scuola Montessori, guardalinee chiacchierare con dirigenti aziendali e adolescenti giocare con entusiasmo al “mostro di lava” nel parco giochi con nipoti e nipoti.

    La famiglia passa in secondo piano per gran parte dell’anno, ma durante le vacanze si vede quanto sia potente.

    Terzo: ho visto quanto è fragile tutto ciò.

    Bisogna ammettere che mentre assistevo alla maestosità della bellezza della montagna, la vedevo attraverso i finestrini sporchi di un furgone disseminato di involucri di snack alla frutta, bottiglie d’acqua, tovaglioli e il contenuto di borse per pannolini rovesciate. I boschi erano disseminati di una raccolta meno concentrata dello stesso tipo di cose, incluso almeno un involucro di snack che è esploso fuori dalla mia porta e in aria, più velocemente di quanto potessi correre.

    E, a parte il mio unico commento su Dio, la nostra conversazione familiare era per lo più fatta di forti lamentele per i piedi puzzolenti, valutazioni rabbiose dell’egoismo degli altri e discussioni su ciò che qualcuno diceva e su come lo diceva .

    Per quanto il nostro viaggio abbia evocato il Giardino dell’Eden, ha anche reso molto chiaro che il Giardino dell’Eden è scomparso, scambiato con il peccato.

    Quarto: ho visto il cielo.

    A nord, dove eravamo noi, il sole resta alto fino a molto tardi in agosto. Durante la mia passeggiata alle 4 del mattino, mi sono reso conto che era la prima volta che ero uscito nel buio più totale, ho alzato lo sguardo e ho visto il vasto cielo pieno di stelle.

    Aristotele guardò queste stelle e decise di voler vivere la sua vita in armonia con il logos, l’ordine dell’universo, la logica al centro delle cose. Ma voleva farlo attraverso il miglioramento personale, non il dono di sé.

    San Giovanni guardò questo cielo e scrisse “il Verbo si fece carne” – il Logos si fece uomo. Dopo che abbiamo distrutto il Giardino che ci ha donato, Gesù ha fatto per noi la via del ritorno riversandosi sulla croce e nei sacramenti. Ora, unendo la nostra donazione alla sua, possiamo risorgere dai nostri peccati e unirci all’Amore che è alla radice di tutto.

    Dante guardò le stesse stelle al termine del suo lungo viaggio e disse: “Qui la mia visione esaltata perdette la sua potenza e il mio desiderio fu trascinato dall’Amore che muove le stelle”.

    Il peccato ottiene le sue piccole vittorie, ma il Dio dell’amore è molto più grande e combatte al nostro fianco per la bellezza, la verità e la bontà in ogni passo del cammino. Questo è ciò che Dio ha fatto durante le mie vacanze estive.

    SINODO 2023

    SINODO 2023

    L’esortazione apostolica nella festa di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre

    UN NUOVO CAPITOLO PER LA CHIESA E L’AMBIENTE

    «Laudate Deum» è il titolo della prossima esortazione apostolica di Papa Francesco.
    E tra i 464 partecipanti al Sinodo sulla sinodalità (4-29 ottobre 2023) ci sono due vescovi della Cina «proposti dalla Chiesa locale, d’intesa con le autorità, e nominati dal Papa». Sono i due eventi principali della Chiesa in questo autunno.

    ESORTAZIONE – Il titolo del documento è stato rivelato da Bergoglio il 21 settembre ai rettori di università latinoamericane. Il Vaticano lo ha pubblicato a tarda sera il 25 settembre: «L’umanità è stanca di questo uso improprio della natura e deve tornare a un buon utilizzo della natura e al dialogo con la natura». L’esortazione apostolica esce nella festa di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre. Si tratta – dice – di uno sguardo a quello che è successo e cosa bisogna fare».

    SINODO – Su 464 partecipanti i membri sono 365 «come i giorni dell’anno: 364 più il Papa», di cui 54 donne votanti. Quattro settimane, scandite da vari appuntamenti, che vedono riuniti – nell’aula Paolo VI e non nell’aula del Sinodo – cardinali e patriarchi; vescovi e sacerdoti (pochi); religiosi/e e laici/e dei cinque continenti alle prese con i tablet: votano, leggono e scaricano i documenti «così si evita lo spreco di carta». L’elenco dei partecipanti «è completo e definitivo» spiegano in Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione e presidente della Commissione per l’informazione: il gesuita Giacomo Costa, segretario speciale; e mons. Luis Marín de San Martín, sottosegretario della Segreteria generale. I due presuli cinesi sono di nomina pontificia: Antonio Yao Shun, vescovo di Jining/Wumeng nella Mongolia Interna, e Giuseppe Yang Yongqiang, vescovo di Zhoucun. Anche nel Sinodo dei giovani nel 2018 ci furono due vescovi cinesi: Giovanni Battista Yang Xiaoting, vescovo di Yan’ An (Shaanxi) e Giuseppe Guo Jincai, vescovo di Chengde (Hebei): la loro presenza, solo per alcuni giorni, era stata un forte segnale che seguiva l’accordo Cina-Santa Sede per le nomine dei vescovi. Una novità annunciata da Francesco alla Messa di apertura: «Per la prima volta sono con noi due vescovi dalla Cina continentale». C’è anche mons. Stephen Chow, vescovo di Hong Kong, che diventa cardinale nel Concistoro del 30 settembre. «È evidente l’importanza della Chiesa cinese presente al Sinodo, per la Chiesa e per il popolo cinese».

    INFORMAZIONE – Dice il dott. Ruffini: «Sarà una comunicazione rispettosa degli interventi e non farà chiacchiericcio; cercherà di dire le cose costruttive per la Chiesa in modo da trasmettere lo spirito ecclesiale, non politico perché il Sinodo non è un parlamento o un parlatoio, come dice il Papa. Non sarà coperta dal segreto pontificio ma sarà frutto di confidenzialità e riservatezza».

    EVENTI – Il 30 settembre l’importante veglia ecumenica in piazza San Pietro, poi il trasferimento a Sacrofano (Roma) per il ritiro fino al 3 ottobre; Messa di apertura il 4; Messe quotidiane all’altare della Cattedra; pellegrinaggio il 12; preghiera con migranti e rifugiati il 19 «a cui terrebbe molto partecipare il Papa».

    MODULI – I primi quattro moduli sono sull’«Instrumentum laboris»; nel quinto e ultimo si discute e perfeziona la relazione e le sintesi. Nei Circoli minori – 35 nelle diverse lingue (14 l’inglese e 8 l’italiano) «i gruppi lavoreranno in profondità. Il Papa tiene molto a non far emergere le singole voci e invita a passare da quello che ognuno ha elaborato a un tessuto comune e a un confronto effettivo».

    ECOLOGIA – Alla vigilia della nuova «Laudato si’» (4 ottobre) il Sinodo darà il suo contributo alla salvaguardia del creato attraverso la compensazione: «Mediante il supporto economico della Fondazione SOS Planet e l’apporto tecnico di LifeGate si compensa parte delle emissioni di CO 2 . Il progetto scelto risponde al criterio di ecologia integrale che riunisce ecologia, attenzione al territorio, aiuto concreto alle popolazioni. Il progetto, realizzato in Nigeria e Kenya, persegue la diffusione di stufe da cucina efficienti e di tecnologie di purificazione dell’acqua destinate a famiglie, comunità e istituzioni. Le nuove tecnologie riducono il consumo di biomassa non rinnovabile e di combustibili fossili per cucinare e per l’ebollizione dell’acqua. Così si migliora l’inquinamento dell’aria, si riducono le malattie respiratorie e i tassi di mortalità, si migliora la salute delle popolazioni». Già nel Sinodo panamazzonico (6- 27 ottobre 2019) ci fu la compensazione con la riforestazione della Riserva indigena di Selva de Matavén in Sud-America.

    SINODALITÀ – Ne parla al Consiglio permanente il presidente della Conferenza episcopale cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna: «Vuol dire rimettere in discussione le arroccate solitudini ecclesiali nell’incontro, nella comunione, nell’ascolto, nell’impegno missionario che ci attende confrontandoci con la folla e le sue sofferenze. È una grande occasione di rinnovamento e affratellamento. Ci misuriamo con la realtà, la città, il territorio, il quartiere».

    Pier Giuseppe Accornero