La Domenica in albis è oggi più comunemente conosciuta come festa della misericordia, e cade nella seconda domenica di Pasqua, ovvero la domenica seguente a quella in cui si celebra tale festività. Nell’anno liturgico della Chiesa cattolica si tratta di un giorno dedicato alla devozione della divina Misericordia. È convinzione dei credenti che ricevere la Comunione durante questa giornata serva a liberarsi di tutte le pene. Nel messale del 1962, la giornata dedicata alla festa della misericordia viene appunto chiamata Domenica in albis, mentre in seguito al Concilio Vaticano II e la conseguente riforma liturgica tale giorno viene chiamato “seconda domenica di Pasqua” oppure “domenica dell’ottava di Pasqua”.
Jubilate omnis terra, Jubilate Domino nostro, Alleluia, alleluia, Iubilate Deo, Exsultate in lætitia, Jubilate Deo. Laudate eum in excelsis, Laudate Dominum nostrum Omnes angeli et virtutes, Laudate eum Quoniam magnus Rex est Dominus Super omnem terram. Laudate pueri Dominum, Laudate nomen Domini Benedictus nomen eius, Benedictus in sæcula, Super cælos gloria eius, Laudate omnes gentes. Laudate eum omnes angeli, Laudate omnes virtutes, In æternum laudate eum Omnes gentes et populi, Quia ipse mandavit Et omnia creata sunt. …jubilate Deo omnis terra.
Il nome di Domenica in Albis (vestibus depostis) è legato al rito del Battesimo
Tradotta letteralmente, la locuzione latina in albis (vestibus) sta a significare bianche (vesti). Agli albori della Chiesa, il battesimo era infatti impartito durante la Pasqua, di notte, e per l’occasione i battezzandi vestivano con una tunica bianca, che indossavano anche peri l resto della successiva settimana, fino (appunto) alla domenica dopo Pasqua. Da cui il modo di dire latino “in albis depositis o deponendis” ovvero “domenica in cui si ripongono le vesti bianche”, che ha portato tale giorno ad essere definito Domenica in albis.
Durante questi giorni i nuovi battezzati, con la loro veste bianca, partecipavano alle cosiddette “catechesi mistagogiche” (o “battesimali”) e venivano così gradualmente introdotti a fare esperienza del Signore nella comunità cristiana. Scriveva S. Giovanni Crisostomo ai neobattezzati: “È infatti un vero matrimonio spirituale ciò che si compie qui. Deducilo dal fatto che, come nelle nozze umane le feste durano sette giorni e si veste l’abito della festa, così anche noi per altrettanti giorni vi prolunghiamo questa festa spirituale, allestendovi la mistica mensa colma di innumerevoli beni. Ma che dico, sette giorni? Queste feste spirituali continueranno per sempre, se voi, restando sobri e vigilanti, conserverete immacolata e smagliante la veste nuziale del battesimo”.
Alla catechesi, nei riti di iniziazione cristiana antica, era così dedicata tutta la settimana che segue la Pasqua; il vescovo sentiva infatti la necessità di accompagnare i neofiti nei loro primi passi e condurli, attraverso le diverse celebrazioni, oltre la soglia del mistero cristiano.
Questa domenica è stata proclamata Festa della Divina Misericordia da Giovanni Paolo II nel 2000, anno giubilare
Il Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, riformato dopo il concilio Vaticano II, ha voluto recuperare l’antica tradizione della “mistagogia” e ne sottolinea il significato: “Dopo il conferimento dei tre sacramenti di iniziazione, Battesimo, Confermazione, Eucaristia, la comunità insieme con i neofiti prosegue il suo cammino nella meditazione del Vangelo, nella partecipazione all’Eucaristia e nell’esercizio della carità, cogliendo sempre meglio la profondità del mistero pasquale e traducendolo sempre più nella pratica della vita (Rica, n. 37).
Il culto della Divina Misericordia è legato alla figura di Santa Faustina Kowalska
La Chiesa ortodossa ha preferito a questo il nome di “domenica di San Tommaso”, dalla lettura del brano evangelico (Gv 20,26-29) che riporta l’incredulità di San Tommaso, come avviene anche nella liturgia romana.
L’incredulità di san Tommaso. Domenica in Albis Depositis . « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Solitamente questo desiderio di Tommaso è visto come una mancanza di fede. In realtà Tommaso ci indica la strada della fede. Il segno dei chiodi e il costato aperto indicano il Crocifisso. Dobbiamo dire: «Il Crocifisso è risorto», ma anche: «Il Risorto rimane il Crocifisso», perché è con l’amore crocifisso che Gesù continua la sua opera di salvezza. Gesù risorto mostra il suo cuore, cioè il suo amore misericordioso che è salvezza per tutti.
La prima domenica dopo Pasqua (dominica de Thomas, Domenica in albis, Κυριακή τοῦ Ἀντίπασχα ἤτοι ἡ ψηλάφησις τοῦ ἁγίου Ἀποστόλου Θωμᾶ) ha una lettura dedicata principalmente alla memoria delle apparizioni di Cristo dopo la Risurrezione agli Apostoli, compreso Tommaso. In ricordo di questo evento tutta la settimana dopo Pasqua, così come il sesto giorno dopo la Resurrezione (la prima domenica dopo Pasqua), nella chiesa la tradizione è considerata dedicata all’apostolo Tommaso.
La liturgia della domenica di San Tommaso rafforza la fede dei credenti, esclamando con San Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” La Domenica di San Tommaso ha questo nome nella Chiesa orientale perché si legge il brano dal Vangelo di San Giovanni in cui si parla sull’incredulità di San Tommaso: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e con loro questa volta c’era anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, e si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!»” La festa era già registrata nei “Decreti Apostolici” dell’Antiochia, intorno al 380, dove la racconto sulla sua istituzione si conduce dal nome dell’apostolo Tommaso stesso (ἑορτὴ τιμία αὐτὴ ἡ ὀδόη, ἐν ᾗ Δυσπιστοῦντα ἐμὲ θωμᾶν ἐπὶ τῇ ἀναστά ἐππ ἐπληροφ è la festa venerata nell’ottavo giorno, in cui io, Tommaso, che non credevo, mi riempii di [fede] nella risurrezione).
Jubilate Deo, cantate Domino! Jubilate Deo, cantate Domino! Solo l’uomo vivente la gloria ti dà: solo chi ti serve vivente in te sarà.
Come cantano i cieli la tua santità, sulla terra inneggi l’intera umanità.
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. Giovanni 20, 19-31
Idea Progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo. Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga. don Tonino Bello
SU ALI D’AQUILA (Salmo 96 )
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Il giorno successivo alla Pasqua, detto comunemente Pasquetta, è chiamato anche lunedì di Pasqua, e nel calendario liturgico cattolico, lunedì dell’Ottava di Pasqua.
Questa festività che “allunga” quella di Pasqua, prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Vi trovarono il grande masso che chiudeva l’accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto” (Mc 16,1-7). E aggiunse: “Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli”, ed esse si precipitarono a raccontare l’accaduto agli altri.
L’espressione “lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua, alla stessa stregua degli altri giorni dell’ottava (martedì, mercoledì ecc.)
Perché il giorno dopo la Pasqua si chiama Lunedì dell’Angelo? E perché non è festa di precetto? La tradizione nella Chiesa è fonte certa per la fede del popolo di Dio, e va colto il significato profondo che essa ha attribuito nei secoli a giorni e gesti che hanno un valore determinante per il senso cristiano della storia.
Il Lunedì dell’Angelo è un prolungamento della Pasqua, come rispondendo alla necessità di gustare e contemplare una scena che ha cambiato la storia del mondo, e la nostra personale. Siamo di fronte al punto di svolta per il Creato e l’umanità: e dopo il giorno di festa grande nel quale si è come sopraffatti dalla grandezza della notizia del sepolcro vuoto e del Figlio di Dio risorto e vivo, la fede della gente ha sancito la necessità di soffermarsi sul messaggio dell’annuncio di Pasqua. Recato da un angelo.
Quella alla quale la Chiesa dedica la giornata che segue l’evento della Risurrezione è infatti la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio, alla sua promessa di una compagnia che non verrà mai più meno. La risposta, per la verità, è della donna: perché l’Angelo al quale la Chiesa ci invita a guardare in questa giornata appare alle donne che si erano recate al sepolcro “portando con sé gli aromi che avevano preparato” per il corpo di Gesù calato dalla croce il venerdì e dopo la sosta del sabato ebraico. Le parole dell’Angelo suonano sbalorditive, inaudite: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”.
L’annuncio centrale della fede si realizza in un incontro, suscita stupore, e muove a comunicare subito ciò che si è scoperto. “Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo”. Ancora pieni di gioia per la Pasqua, siamo incoraggiati a tornare al cuore della scena, come se un giorno solo non bastasse. In questo lunedì protagonista è tutto il movimento generato dal dialogo tra Dio e l’essere umano che è dentro il messaggio di Pasqua ma che ha bisogno di un suo spazio, sebbene la definizione liturgica di questa giornata sia “Lunedì nell’Ottava di Pasqua” e l’Angelo sia piuttosto il nome popolare che la tradizione gli ha conferito, a sottolinearne il messaggio proprio.
Devozione, dunque, più che mistero di fede: un’estensione della Pasqua che non a caso popolarmente ha fatto di questo giorno la “Pasquetta”, una piccola Pasqua tutta per festeggiare uscendo dal sepolcro di ciascuno e mettendosi in movimento (la gita fuori porta, sospesa dalla pandemia come uscita fisica, ma non nel nostro intimo). Conseguenza di queste caratteristiche devozionali è il fatto che la Chiesa non preveda il precetto, ovvero il dovere per il credente di partecipare all’Eucaristia nel giorno della festa che ricorda la Pasqua (è ciò che fa ogni domenica dell’anno).
Ma questa giornata devozione alimentata dalla fede delle generazioni credenti ha come costruito un singolarissimo giorno supplementare di festa, che ha trovato anche la forma di una preghiera: la sequenza “Victimae Paschali Laudes”, che risale all’XI secolo e che popolarmente è nota per la domanda in rima a Maria (Maddalena, protagonista della commovente scena in cui è chiamata per nome dal Risorto) cui la Chiesa domanda “cos’hai visto per la via”. E allora, è bello recitarla e meditarla (anche nella versione originale in latino) in questo lunedì che prolunga la Pasqua con una tale forza che anche l’autorità civile ne ha riconosciuto – pressoché ovunque nei Paesi di radice cristiana – il valore di festa per tutti.
Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode. L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.
Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?». «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.
Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).
Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e – si potrebbe dire – degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, … mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?”, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto… Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.
Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!
Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: “Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!” Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf. Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
Idea progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it
Vaticano 2.0: il Papa prepara la rivoluzione digitale
La svolta 5G di Bergoglio in vista del Giubileo 2025
di Luigi Bisignani
TikTok…sono Francesco!
Il Santo Padre non è ancora un TikToker, ma la sua rivoluzione digitaleè già iniziata e sarà battezzata urbi et orbi al Giubileo del 2025. Aspettiamoci dunque cyberspazi con effetti speciali, a cominciare dalla Basilica di San Pietro e i Musei Vaticani, per un’esperienza immersiva nelle meraviglie vaticane. E se i fedeli non andranno alla montagna, sarà la montagna ad andare dai fedeli, con San Pietro – anziché Singapore o la Silicon Valley – che porterà direttamente nelle case dei cristiani il “metaverso”. Il Papa è convinto che l’opera di evangelizzazione della Chiesa, ormai ai minimi storici, debba avere un “upgrade”. Così, spinto anche da potenti lobby Usa che, uno ad uno, gli hanno fatto incontrare i grandi profeti del mondo digitale, da Gates, Musk a Cook, i quali, a loro volta, gli hanno vaticinato la “modernità religiosa” dei big data per stare al passo con i tempi.
Una rivoluzione copernicana per Bergoglio se si pensa che in Argentina, negli anni ‘90, non voleva saperne di avere in arcivescovado anche solo un semplice computer. Preferiva dilettarsi con “Más allá del horizonte”, più conosciuta come “Milagros”, la telenovela argentina a produzione targata Silvio Berlusconi, nei confronti del quale, forse per questo, ha nutrito sempre una particolare simpatia.
Francesco, una volta eletto e sorprendendo tutti, qualche tempo dopo affermò che “Internet era un dono di Dio e che occorreva aprire le porte delle Chiesa all’era digitale”. E da lì a poco ha scoperto i videomessaggi grazie ai quali non fa che intrattenersi a tutte le ore con gli amici, facendo impazzire i suoi collaboratori.
Il rivoluzionario passo successivo nel digitale è stato nel 2020, quando, con la sua benedizione, Microsoft, Ibm, la Fao e il Governo italiano hanno firmato la Call for an AI Ethics, un protocollo d’intesa nato per sostenere un approccio etico all’Intelligenza Artificiale, così da promuovere tra organizzazioni, governi e istituzioni un senso di responsabilità condivisa.
Tuttavia, nella Chiesa ci sono molte sacche di resistenza a questa nuova linea “Matrixiana”; tra i followers più convinti, invece, si annoverano il neocapo della Cei il Cardinale Matteo Zuppi, l’Arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Don Paolo Benanti, teologo francescano e accademico noto al grande pubblico per la trasmissione “Codice – La vita è digitale” su Raiuno di Barbara Carfagna.
Ma anche in Segreteria di Stato risiede grande sensibilità per il digitale da parte di un folto gruppo capitanato da Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati.
Dopo l’incontro con Bill Gates, che lo ha colpito per la sua filantropia, il “Papa 5G” ha avviato la “digital revolution” conversando anche con Elon Musk (Starlink potrebbe essere il primo provider di internet gratis, come è già successo in Ucraina) e poi con Tim Cook, Ceo di Apple, il quale gli ha spiegato la direzione che prenderà l’azienda che dirige finanziando scuole dove si formeranno gli ingegneri che svilupperanno reti neurali artificiali. Quest’ultime imitano il comportamento del cervello umano, consentendo ai software di riconoscere modelli e risolvere problemi comuni nei campi dell’artificial intelligence, del machine learning e del deep learning. Ed è proprio questa, secondo il neo-pastore digitale Bergoglio, la rivoluzione che cambierà il modo di fare evangelizzazione della Chiesa e anche quello grazie al quale le finanze vaticane dovranno sostenersi.
Ai Musei Vaticani, grazie a monsignor Paolo Nicolini, vicedirettore gestionale che ne guida la trasformazione, vedremo in tutto il mondo ologrammi che riprodurranno le magnifiche opere contenute nei musei ed è già iniziata la produzione degli “nft” (digital art) di quasi tutte le principali opere. Bergoglio, citando più volte Marconi con i suoi esperimenti radio, avvenuti in Vaticano, che hanno cambiato le sorti del mondo, desidera che la Pontificia Accademia delle Scienze nata con lo scopo di promuovere il progresso della matematica, della fisica, delle scienze naturali e lo studio dei relativi problemi epistemologici, diventi, inter alia, un marchio di garanzia non solo per l’eticità delle scoperte del mondo scientifico, ma anche un laboratorio all’avanguardia del digitale, chiamando a sé grandi ingegneri digitali.
Un ambizioso progetto che necessita però di uno staff da affiancare al Cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson, giudicato ancora non perfettamente in linea con questa nuova missione da “Futurama”. L’high-tech, dunque, come strumento di pace e crescita per l’uomo, con un occhio ai paletti da imporre al Transumanesimo, ovvero l’impiego della tecnologia per migliorare la condizione umana. Internet, bene comune dell’umanità e, dunque, possibilmente accessibile a tutti.
L’e-learning, infine, per scolarizzare a basso costo i bambini in tutto il mondo: in sintesi, il digitale utilizzato per abbattere ogni forma di discriminazione. È su questi temi che Bergoglio vorrebbe incentrare la sua ultima parte di pontificato, un “digilitalesimo” per superare il grande gap giovani-religione-Chiesa. È proprio vero che le vie del Signore sono infinite. A maggior ragione, se poi ci aggiungi quelle virtuali: sempre gloria nell’alto del Cloud.
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”
“Gesù sconfina” per dirci che la misericordia di Dio è per tutti. Non dimentichiamo questo: la misericordia di Dio è per tutti e per ognuno di noi. ‘La misericordia di Dio è per me’, ognuno può dire questo”. Così il Papa, a braccio, ha spiegato che “la Parola di Dio è per tutti”: “È un dono rivolto a ciascuno e che perciò non possiamo mai restringerne il campo di azione perché essa, al di là di tutti i nostri calcoli, germoglia in modo spontaneo, imprevisto e imprevedibile, nei modi e nei tempi che lo Spirito Santo conosce”.
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”, di far salire sulla barca di Pietro chi si incontra perché questa è la Parola di Dio, “non è proselitismo”
“E se la salvezza è destinata a tutti, anche ai più lontani e perduti – ha spiegato Francesco nell’omelia della Messa celebrata domenica, nella basilica di San Pietro, per la quarta Domenica della Parola di Dio – allora l’annuncio della Parola deve diventare la principale urgenza della comunità ecclesiale, come fu per Gesù. Non ci succeda di professare un Dio dal cuore largo ed essere una Chiesa dal cuore stretto – questa sarebbe, mi permetto di dire, una maledizione –; non ci succeda di predicare la salvezza per tutti e rendere impraticabile la strada per accoglierla; non ci succeda di saperci chiamati a portare l’annuncio del Regno e trascurare la Parola, disperdendoci in tante attività secondarie, o tante discussioni secondarie”.
“Impariamo da Gesù a mettere la Parola al centro, ad allargare i confini, ad aprirci alla gente”, l’invito: “Metti la tua vita sotto la Parola di Dio. Questa è la strada che ci indica la Chiesa: tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo sotto l’autorità della Parola di Dio. Non sotto i nostri gusti, le nostre tendenze o preferenze, ma sotto l’unica Parola di Dio che ci plasma, ci converte, ci chiede di essere uniti nell’unica Chiesa di Cristo”.
I cristiani, ha spiegato il Papa, sull’esempio di Gesù sono “esperti nel cercare gli altri”: “E questo non è proselitismo, perché quella che chiama è la Parola di Dio, non la nostra parola”, ha precisato. “Questa è la nostra missione”, ha concluso Francesco: “Diventare cercatori di chi è perduto, di chi è oppresso e sfiduciato, per portare loro non noi stessi, ma la consolazione della Parola, l’annuncio dirompente di Dio che trasforma la vita”.
Ad un anno dal suo avvio, Francesco dedica il videomessaggio con le intenzioni di preghiera per il mese di ottobre al percorso sinodale, che ora inizia la fase continentale: “Non si tratta di raccogliere opinioni o di creare un parlamento, si tratta di ascoltare e di pregare. Senza preghiera non ci sarà sinodo”
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Non un sondaggio, né una raccolta di opinioni, tantomeno un parlamento, ma un’occasione per pregare insieme, per camminare tutti “nella stessa direzione” e, soprattutto, per “aprire la porta a chi è fuori della Chiesa”. Un anno dopo – era il 9 ottobre 2021 – dal suo avvio “dal basso”, cioè dalle chiese locali, Papa Francesco mette al centro del suo videomessaggio per le intenzioni di preghiera di ottobre il percorso sinodale. Percorso che, dopo la fase diocesana, cioè quella consultazione tra le Diocesi, le Conferenze episcopali e in tutto il popolo di Dio, si avvia verso la fase continentale, seconda tappa prima della grande assise che si celebrerà nell’ottobre 2023 in Vaticano.
Che cosa significa “fare Sinodo”? Significa camminare insieme: si-no-do. In greco vuol dire questo, “camminare insieme” e camminare nella stessa direzione.
Questo, dice il Papa in spagnolo nei circa 2 minuti del video, tradotto in 23 lingue e con una copertura stampa in 114 Paesi, è ciò “che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio. Che recuperi la consapevolezza di essere un popolo in cammino e di doverlo fare insieme”.
Ascoltare, più di sentire
Una Chiesa con questo stile sinodale diventa “una Chiesa dell’ascolto, che sa che ascoltare è più di sentire”, afferma ancora il Pontefice, mentre scorrono immagini di donne, uomini, giovani, anziani, religiosi, suore, famiglie che camminano in diversi luoghi del mondo.
L’ascolto che il Papa auspica è un sentirsi a vicenda “nella nostra diversità”, in modo da “aprire la porta a chi è fuori della Chiesa”.
Non si tratta di raccogliere opinioni, né di creare un parlamento. Il Sinodo non è un sondaggio; si tratta di ascoltare il protagonista, che è lo Spirito Santo, si tratta di pregare. Senza preghiera non ci sarà Sinodo.
Allora approfittiamo di questa opportunità per “essere una Chiesa della vicinanza, che è lo stile di Dio: la vicinanza”. Il Papa ringrazia, negli ultimi minuti del videomessaggio, “il popolo di Dio che, con il suo ascolto attento, sta percorrendo un cammino sinodale”.
Preghiamo affinché la Chiesa, fedele al Vangelo e coraggiosa nel suo annuncio, viva sempre più la sinodalità e sia un luogo di solidarietà, di fraternità e di accoglienza.
Fornos: servono ascolto, dialogo e discernimento
“Perché il cammino sinodale in corso sia un vero processo spirituale servono ascolto, dialogo, preghiera e discernimento. Non c’è discernimento senza preghiera”, commenta padre Frédéric Fornos S.J., direttore Internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa, ricordando che Francesco, peraltro, ha avviato nell’udienza generale del mercoledì un ciclo di catechesi sul discernimento. “Senza preghiera – sottolinea il gesuita – si possono condividere belle riflessioni ed esperienze, ma difficilmente si può stare in ascolto dello Spirito Santo, attore principale del Sinodo”.
L’intenzione di preghiera di Papa Francesco arriva in un momento importante del cammino sinodale, che – come detto – è iniziato nel 2021 e si concluderà nel 2023: conclusa la tappa iniziale, in cui le Chiese particolari, le Conferenze Episcopali e altre realtà ecclesiali hanno riflettuto sulla base del Documento preparatorio inviato da Roma, si inaugura infatti la tappa continentale, che pone l’accento su ascolto, discernimento e dialogo a livello regionale, partendo dagli apporti delle Chiese particolari. Nei giorni scorsi a Frascati si è riunito il gruppo di esperti che ha esaminato i diversi rapporti provenienti da questa grande consultazione del “popolo di Dio” e che ha elaborato il Documento per la fase continentale. Ieri, domenica 2 ottobre, il Documento è stato consegnato al Papa in un’udienza privata con una c
Nel Messia, nell’Emmanuele – il “Dio con noi” – lo shalom, la pace come pienezza di vita in assoluto, come felicità e salvezza, si realizza personalmente tra di noi ed è effusa attraverso lo Spirito santo su tutti gli esseri.
Questo Bambino, l’Emmanuele, è nato a beneficio di noi uomini, di noi peccatori, di tutti i credenti, dall’inizio alla fine del mondo. Giustamente è chiamato Meraviglioso, perché è insieme Dio e uomo. Il suo amore è la meraviglia degli angeli e dei santi glorificati. È il Consigliere, perché conosceva i consigli di Dio fin dall’eternità; e dà consigli agli uomini, nei quali consulta il nostro benessere. È il Consigliere meraviglioso; nessuno insegna come lui. È Dio, il potente. L’opera del Mediatore è tale che nessun potere inferiore a quello del Dio potente potrebbe realizzarla. È Dio, uno con il Padre. Come Principe della Pace, ci riconcilia con Dio; è il Datore della pace nel cuore e nella coscienza; e quando il suo regno sarà pienamente stabilito, gli uomini non impareranno più la guerra. Il governo sarà su di lui; egli ne porterà il peso. Del governo di Cristo si parla in modo glorioso. Non c’è fine all’aumento della sua pace, perché la felicità dei suoi sudditi durerà in eterno. L’esatto accordo di questa profezia con la dottrina del Nuovo Testamento dimostra che i profeti ebrei e i maestri cristiani avevano la stessa visione della persona e della salvezza del Messia. A quale re o regno terreno si possono applicare queste parole? Dona dunque, o Signore, al tuo popolo di conoscerti con ogni nome accattivante e in ogni carattere glorioso. Accresci la grazia in ogni cuore dei tuoi redenti sulla terra.
Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce
La pace, dice Isaia, è una presenza divina, un bambino che è nato per noi, un figlio che ci è stato donato, il cui nome sarà “Consigliere ammirabile, Dio forte, Padre eterno, Principe della pace” (cf. Is 9,5-6). Qui siamo certamente lontani dal nostro modo abituale di pensare la pace, ma la contemplazione, l’assiduità con la Parola ci svela che la pace è un dono che entra nella nostra storia, è una realtà che tocca tutti i rapporti, ma è innanzitutto una persona: il Messia, Gesù Cristo. C’è pace per l’umanità quando questa accede al piano storico della salvezza, cioè a Cristo, quando accoglie lo Spirito di Cristo e adotta i mezzi e i metodi di Cristo, che sono contrassegnati dalla mitezza, dalla debolezza, dall’umiltà; nel ripudio della violenza, della prevaricazione, dell’autoaffermazione, dell’orgoglio. La pace viene con chi ha i tratti descritti nella profezia di Zaccaria: chi “è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”, in colui che viene a far sparire i carri da guerra, i cavalli degli eserciti, l’arco e tutte le armi (cf. Zc 9,9-10).
Il dono più grande che abbiamo ricevuto da Dio, la consegna del Figlio agli esseri umani, è nient’altro che Il Vangelo della pace per mezzo di Gesù Cristo (cf. At 10,36; Ef 6,15).
Il vangelo di Matteo è organizzato attorno al principio per cui Dio è con noi.
Questo è l’inizio, e in Gesù si compie ciò che è stato promesso, perché il figlio che nasce da una vergine «sarà chiamato Emmanuele, cioè Dio con noi» (Mt 1,23).
Questo è il cuore che pulsa nei suoi discepoli e fa scorrere la vita nella loro comunità per quanto piccola possa essere: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Questa è l’assicurazione che sorregge in modo stabile il percorso sul quale Gesù lancia quelli che credono in lui e lo annunciano: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Sono le ultime parole del primo vangelo, parole che chiudono e insieme aprono, un arrivo che è dunque una partenza, una fine che è un inizio, che funziona come un propellente che lancia negli spazi dell’umanità di tutti i tempi, per portare a tutti, e ovunque, la grande notizia di un Dio che si fa uomo per stare con noi.
Ha senso pregare per la pace?
Forse nutriamo una certa diffidenza verso la preghiera come mezzo per ristabilire la pace. Temiamo l’evasione dalla realtà, lo spiritualismo, e qualche volta siamo portati a pensare che il problema della pace lo si debba risolvere con la lotta, non con la contemplazione. Qui non si tratta di eliminare o attenuare l’impegno storico, la prassi della pace: al contrario, si tratterà di potenziarla e renderla efficace ricorrendo alla sorgente della preghiera, della contemplazione. Se la pace è conosciuta nella sua verità attraverso la Parola, se ci è donata nell’assiduità con la Parola, può allora anche scaturire dalla preghiera come azione e prassi. Nessuna evasione, nessun privaticismo, nessun intimismo della pace.
La preghiera inoltre è sorgente di pace non solo a livello individuale – perché ci restituisce la pace con Dio e la pace del cuore – ma anche a livello collettivo, perché immette nella storia una forza efficace: è infatti una componente della storia in quanto attività che fa storia, che crea eventi.
È significativo che nel linguaggio biblico il termine “preghiera” derivi da “decidere”, “decidere con Dio”. Quando Abramo prega e intercede presso Dio per la salvezza del giusto a Sodoma e Gomorra, egli decide con Dio la pace del giusto che sarà salvato. Quando Mosè prega tenendo le braccia in alto – in quella battaglia più escatologica che storica contro l’avversario Amalek – egli prega e decide con Dio la pace del popolo eletto che minaccia di trovare la morte quando Mosè cessa di pregare.
Pregare nella nostra fede non è operazione arrogante, non è rito magico per garantirsi ciò che si desidera, ma è fare discernimento e decidere con Dio, con il Signore che lascia aperto davanti a sé uno spazio da varcarsi con la preghiera. La preghiera ha una funzione dunque nella storia, s’innalza dalla storia come grido di oppressi, di curvati, di poveri, di sfruttati, di prigionieri, di torturati, e spinge Dio alla liberazione, a intervenire; ma può anche essere l’intercessione del credente che chiede la pace dove questa è calpestata e inculcata. Tutte le vittime della storia sono preghiera efficace, ma anche gli eletti che gridano a Dio notte e giorno vedono Dio che interviene rapidamente (cf. Lc 18,7).
Occorre dunque pregare per la pace e questa è un’operazione di primaria importanza per il credente che è operatore di pace, uomo di pace, solo se questa pace la riceve nella preghiera, solo se nell’assiduità della Parola è trasformato da essere umano che coltiva in sé ribellione e violenza in essere umano obbediente a Dio e pacifico. Infatti, se la preghiera è entrare nei pensieri del Dio della pace, se è condividere la sua volontà di pace, allora pregando, contemplando, si viene plasmati esseri di pace. Non a caso nel Cantico dei cantici, celebrazione dello Shalom, il Messia è Shalom, il Pacifico, e la Sposa popolo di Dio è Shulamit, la pacifica. Diventare uomo di pace e donna di pace nella contemplazione è possibile perché la preghiera allarga il cuore, infonde il fuoco dell’amore nel cuore, apre il cuore all’amore per il cosmo intero.
Dio è con noi, sempre presente, pronto a decidere la pace con chi lo prega, pronto a donarla a tutti gli umani.