La notte della Pasqua i cristiani la celebrano attorno alla mensa dell’agnello, mangiano il pane della vita e devono il calice della salvezza, nutriti quindi del corpo e del sangue di Cristo. Pane azzimo dell’ostia e calice del vino sono nel segno della continuità dell’eucarestia con il banchetto pasquale ebraico pur nella novità della presenza reale del Signore Gesù. Perciò la liturgia della Veglia pasquale canta così: “Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti del Cristo dall’oscurità del peccato e della corruzione del mondo, li consacra all’amore del padre e li unisce alla comunione dei santi.. Questa è la notte in cui Cristo , spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro.
Nel dialogo tra padre e figlio (Es.13,14) seduti intorno alla mensa del Pessach risuona una domanda : “ Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti ?” Perché si fa memoria della schiavitù di Egitto , ci si dispone a gustare il sapore della libertà bevendo alle quattro coppe della salvezza.
Quattro, come le tipologie di figli, e di benedizioni, identificate dal midrash e che rappresentano la varietà di posizioni raggiunta nel tempo dalle generazioni, alla quale il genitore deve adeguatamente rispondere: il saggio, il malvagio, il semplice, colui che non sa porre domande. Il figlio saggio, che non esclude se stesso dall’obbligo di eseguire i comandamenti di Dio e che riconosce le sue radici; il malvagio, che considera quei “riti” irrilevanti per lui, autoescludendosi dalla comunità (secondo l’Haggadah è l’unico non meritevole della liberazione dalla schiavitù, l’unico che sarebbe stato lasciato in Egitto); il semplice, il quale domanda “che significato ha tutto questo?”, merita una risposta altrettanto semplice, lineare, elementare sulle ragioni dell’Esodo; infine il figlio che non sa porre domande: è disinteressato, non ribelle, e quindi — a differenza del malvagio — secondo la Torah è meritevole lo stesso della ritrovata libertà anche solo per la semplice appartenenza (non rinnegata) al popolo ebraico.
La notte di Pessach è la notte che rivela le innumerevoli meraviglie di salvezza che l’altissimo ha operato: quattro, dalle quali derivano tutte le altre e tutte e quattro si sono compiute nella notte e nel buio del cuore, la luce è venuta a salvarci. Il racconto delle quattro notti è riferito nella tradizione ebraica in rapporto alla benedizione ( o qiddush) delle quattro coppe in un antico documento che ne parla ed è il TARGUM ONKELOS a Es. 12,42.”In realtà quattro notti sono scritte nel libro del memoriale. LA PRIMA NOTTE fu quando il Signore si manifestò nel mondo per crearlo: il mondo era deserto vuoto e la tenebra si estendeva sulla superficie nell’abisso ma il Verbo del Signore era la luce e illuminava. Ed egli la chiamò notte prima (QIDDUSH della prima coppa) .
LA SECONDA NOTTE fu quando il Signore si manifestò ad Abramo dell’età di cento anni,mentre Sara sua moglie ne aveva novanta,affinché si compisse ciò che dice la scrittura : certo Abramo genera all’età di cento anni e Sara partorisce all’età di novant’anni. Isacco aveva trentasette anni quando fu offerto sull’altare. I cieli si abbassarono e discesero e Isacco ne contemplò la perfezione e i suoi occhi rimasero abbagliati per le loro perfezioni. Ed egli la chiamò : notte seconda (QIDDUSH della seconda coppa). LA TERZA NOTTE fu quando il Signore si manifestò contro gli egiziani durante la notte : la sua mano uccideva i primogeniti di Egitto e la sua destra proteggeva i primogeniti di Israele per compiere la parola della Scrittura : Israele è il mio primogenito (Es. 4,22) Ed egli la chiamò : la notte terza ( QIDDUSH della terza coppa).
LA QUARTA NOTTE sarà quando il mondo giungerà alla sua fine per essere redento. Le sbarre di ferro saranno spezzate e le generazioni degli empi saranno distrutte.E Mosè salirà dal deserto e il Re dall’alto: e il Verbo camminerà in mezzo a loro ed essi cammineranno insieme., E’ la notte di Pasqua nel nome del Signore ,notte predestinata e preparata per la redenzione di tutti i figli d’Israele in ogni generazione (QIDDUSH della quarta coppa).”
Far memoria di queste quattro notti aiuta ad entrare intensamente nella notte di Pasqua, culmine e fonte della salvezza nostra e di tutte le creature che sono al mondo. Come quattro tappe esse scandiscono il cammino, teso a fare sempre più di noi , per tanti aspetti figli della notte, i figli della luce redenti dall’Amore.
Perché questa notte è diversa dalle altre? Perché non mangiamo pane lievitato ma solo pane azzimo non lievitato? E perché erba amara al posto delle normali verdure? Festa della libertà ritrovata (dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto), festa della primavera (Torah e Talmud collocano l’avvenimento nella stagione dal clima migliore), Pesach — la Pasqua ebraica — è anche festa dei bambini. Le loro domande, durante le due cene del Seder (rito che apre gli otto giorni di celebrazione), sono frutto dello stupore di trovarsi davanti una tavola apparecchiata in modo differente, dopo che l’intera famiglia, per giorni, ha eliminato scrupolosamente dalla casa ogni forma di alimento lievitato. Le risposte le troveranno nell’Haggadah, la raccolta di interpretazioni rabbiniche narranti gli eventi che hanno portato all’Esodo, dalle dieci piaghe d’Egitto all’apertura del Mar Rosso guidati da Mosè, dalla manna scesa dal cielo ai dieci comandamenti. È infatti quasi sempre il più giovane, generalmente un bambino, a recitare e cantare i brani più significativi.
Nishtanah (Cosa differenzia questa sera dalle altre sere?), il testo con le tradizionali “quattro domande”. In quel preciso “ordine” (traduzione italiana del termine Seder), in quella sequenza di atti di intensa partecipazione, i più giovani scoprono le origini, una parte essenziale della loro storia.
Pesach, “passare oltre”, come fece il Signore (Esodo, 12, 13) vedendo il sangue d’agnello su stipiti e architravi delle case dei figli d’Israele — era stato Dio stesso a dire a Mosè e ad Aronne di segnare le porte in questo modo — la notte in cui colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto. Ed è così che quel giorno, il quattordicesimo del mese di Nissan, è diventato per gli ebrei l’inizio, un “memoriale” (zikkaron), rito perenne da celebrare di generazione in generazione. Quest’anno, secondo il calendario ebraico, che è calcolato su base lunare, Pesach comincerà la sera del 27 marzo per concludersi il 4 aprile. La meticolosa preparazione al Seder è dunque già cominciata, preceduta dalla pulizia della casa, dalla quale deve scomparire qualsiasi residuo di lievito. Quella sera, la prima, sulla tavola imbandita compariranno piatti decorati dove non devono mancare — prodotti rigorosamente kasher — il pane non lievitato (matzot), a ricordare la precipitosa fuga dall’Egitto, un gambo di sedano, erba amara, il maror (i romani sono soliti mettere delle foglie di lattuga), a rappresentare la durezza della schiavitù, una zampa di capretto (a simboleggiare l’agnello sacrificato al posto dei primogeniti del popolo ebraico), un uovo sodo, per il lutto ma anche per la vita che ricomincia, il charoset, impasto che ricorda l’argilla per comporre i mattoni, e poi quattro bicchieri di vino.
Intorno alla tavola si riuniscono le famiglie, si invitano gli amici, anche gli ospiti di passaggio. Al termine, l’augurio “l’anno prossimo a Gerusalemme” con la speranza, anzi la certezza, di rivedersi al Pesach successivo. Dalla schiavitù alla libertà. Il testo dell’Haggadah è pieno di frasi che inducono a rinnovare questo passaggio. Una di esse si trova proprio all’inizio: «Chi ha fame venga e mangi, chi ha necessità venga e faccia Pesach (con noi)». La libertà, spiega il rabbino Giuseppe Momigliano su “Moked”, «non è un bene che si risolve nel privato, non ci autorizza a chiuderci in noi stessi; la celebrazione del Seder ci ricorda che libertà è anche “invitare a fare Pesach”, cioè condividere con chi è materialmente privo del necessario per la festa, e coinvolgere chi, per circostanze della vita, si trova in solitudine, fisica o esistenziale». Come l’arrivederci a Gerusalemme, Leshanà habbà beJerushalaim, che conclude la cerimonia, non è semplicemente un auspicio ma la promessa, il richiamo a una città, osserva ancora Momigliano, «luogo aperto e accessibile, di preghiera e di incontro per tutte le genti e per ogni fede».
L'ebraismo in breve spiegato ai bambini
Un breve video per aiutare anche i più piccoli ad incominciare a conoscere questa antica tradizione e a confrontarsi con culture diverse.
La Cena Pasquale in ebraico si chiama Seder di Pesach. Seder significa “ordine” in quanto si consuma secondo un ben preciso ordine rituale, che – in estrema sintesi – è il seguente: Kadesh – la Benedizione sul Vino, Karpas – “l’Antipasto”, Yachatz: si spezza la matzà. Si intingono le erbe, si prende l’uovo, si usa l’acqua salata e poi l’agnello: tutto ha un significato.
La Pasqua Ebraica si celebra al tramonto del 14^ giorno del mese di Nissan del calendario ebraico (luni-solare)
Pesach, la memoria della Pasqua ebraica tramandata a tavola
Ci dice il Vangelo: “Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua ebraica, i discepoli dissero a Gesù: dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?”. Tutti noi, quando si parla della cena pasquale, abbiamo in mente le bellissime opere d’arte che nei secoli l’hanno rappresentata, prima fra tutte l’Ultima Cena di Leonardo.
Gesù fece l’ultima cena non come viene comunemente raffigurata, tutti seduti attorno ad una tavola imbandita, con una tovaglia ben stirata, bicchieri e bottiglie di vetro e così via. Dobbiamo tenere presente infatti che Gesù ed i suoi discepoli erano dei girovaghi, l’equivalente di senza fissa dimora di oggi, che transitando a piedi nel deserto, si presentavano sporchi, polverosi ed accaldati. Venivano allora messi dei tappeti per terra ove si sedevano distesi sulla sinistra.
Secondo il rito ebraico infatti i commensali si adagiavano sul lato sinistro, per evidenziare il fatto che erano uomini liberi. Nei tempi antichi infatti, soltanto le persone libere potevano adagiarsi mentre mangiavano. Ma andiamo avanti con il Vangelo: “Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua. Seguitelo. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta: là preparate per noi”.I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro il Maestro e prepararono per la Pasqua”. Gesù viene così a trovarsi in mezzo alla fiera del bestiame, condotto a Gerusalemme dalle colline circostanti ed alle spezie portate dalle carovane fin dalla Mesopotamia.
I pellegrini che venivano ospitati da famiglie del luogo, consumavano nelle case la cena. Tutti gli altri per strada, nelle piazze od in campagna. Quando scendeva la sera, migliaia di agnelli venivano arrostiti nei cortili delle case, nelle vie, intorno alle tende. E mangiavano tutti insieme, ricchi e poveri, uomini e donne, servi e padroni. La Pasqua ebraica si chiama “Pesach”, che significa “passaggio” ed in Israele dura 7 giorni. Si celebra la notte in cui l’Angelo Sterminatore passò sull’Egitto, uccidendo tutti i suoi primogeniti, uomini e animali. Era la decima piaga, quella che dette il colpo di grazia all’ottusa chiusura del faraone e lo costrinse a lasciar andare gli ebrei per la loro strada. Era l’inizio della loro liberazione.
Scrive Renzo Infante (esperto in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico, con dottorato alla Pontificia Università Gregoriana) “Nei testi sulla Pasqua, Giuseppe Flavio sottolinea la dimensione di grande festa popolare, che radunava folle immense in Gerusalemme. Egli stimò che il numero dei giudei saliti a Gerusalemme per l’ultima Pasqua al tempo di Nerone fosse di circa 2.500.000”. La Pasqua ebraica non va però confusa con la Festa degli Azzimi (si festeggia infatti il giorno dopo), vuol essere un ricordo della fuga dall’Egitto, quando gli Ebrei furono costretti a scappare con urgenza e non ebbero così il tempo per lasciare lievitare il pane per il viaggio. Il pane azzimo infatti è un pane che non è stato fermentato ed al quale non è stato aggiunto lievito.
La Pasqua Ebraica si celebra al tramonto del 14^ giorno del mese di Nissan del calendario ebraico (luni-solare), dunque con l’arrivo del 15 di Nissan, come stabilito dalla Torah: “Nel primo mese, il giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete azzimi“. Ma qual’è il Mese di Nissan? Ce lo dice la Bibbia:“Sarà per voi il capo dei mesi, sarà il primo fra i mesi dell’anno”. La parola Nissan ha un’origine dal termine “Nes”, Miracolo, in quanto in tutto il mese si celebra l’evento più miracoloso della storia del popolo d’Israele: l’uscita dall’Egitto con la conseguente acquisizione della libertà assoluta. Il mese di Nissan è definito dalla tradizione talmudica il mese della redenzione, in quanto, come il popolo di Israele è stato redento dalla schiavitù in Egitto al tempo di Mosè, così sarà redenta l’intera Umanità durante questo mese. Comunemente cade nei mesi di marzo-aprile ed è a data variabile.
La Cena Pasquale in ebraico si chiama Seder di Pesach. Seder significa “ordine” in quanto si consuma secondo un ben preciso ordine rituale, che – in estrema sintesi – è il seguente:
Si inizia con Kadesh – la Benedizione sul Vino. I quattro bicchieri di vino che si bevono durante il Seder, secondo il Talmud, sono il simbolo delle seguenti quattro promesse di riscatto date da Yahvè (Dio) a Mosè: vehotzetì – vi sottrarrò dalle tribolazioni dell’Egitto; vehitzaltì – vi salverò dal loro servaggio; vegaaltì – vi libererò con braccio disteso; velakachtì – vi prenderò quale Popolo, a Me. Si usa il vino perché è simbolo di gioia e di felicità. Dopo Kadesh vi è Urchatz, il Lavaggio Rituale delle mani. Si lavano le mani, versando acqua tre volte sulla mano destra e poi tre volte sulla mano sinistra. Questo è uno dei primi atti che vengono compiuti, anche allo scopo di attirare la curiosità dei bambini presenti.
Segue Karpas: “l’Antipasto”. Si intinge un piccolo pezzo di cipolla, patata o sedano nell’acqua salata e prima di mangiarlo si recita la benedizione sulle verdure. L’acqua salata rappresenta le lacrime amare degli antenati ebrei in Egitto.
C’è poi Yachatz: si spezza la matzà (il pane azzimo) in due, in ricordo di quando Yahvè divise in due il Mar Rosso, per consentire ai Figli di Israele di attraversarlo all’asciutto. A questo punto, venivano invitati i poveri ad unirsi al Seder.
Durante il pasto Pasquale si prendono le erbe amare e si intingono nel charoset, pasta di colore scuro fatto di frutta e noci, che ricorda l’argilla fatta dagli ebrei in Egitto, per la fabbricazione di mattoni. Le erbe amare ricordano l’amarezza della schiavitù in Egitto. E si mangia, a seguire, un uovo sodo intinto nell’acqua salata. L’uovo sodo, non avendo spigoli, evidenzia che non c’è né un inizio, né una fine. E’ quindi il simbolo dell’eternità della vita. E poi c’e’ l’agnello pasquale, che va mangiato in ricordo di quanto avvenne alla vigilia della fuga dall’Egitto: “Ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne”.
Ci sono poi le benedizioni, gli inni e le lodi , nella certezza che il Seder sia ben accetto dall’Onnipotente. Il seder finisce, per gli ebrei della diaspora, in esilio, dicendo: “Leshanà habaà biYrushalayim” tradotto: “L’anno prossimo a Gerusalemme!”
Benedizione del pasto
Benedetto Colui dei cui beni abbiamo mangiato e per la cui grande bontà viviamo!
Adattamento della traduzione di Dante Lattes
realizzata da David Pacifici
testo ebraico
(chi benedice)
Maestri! Signori! Benediciamo Colui dei cui beni abbiamo mangiato!
(i presenti)
Benedetto Colui dei cui beni abbiamo mangiato e per la cui grande bontà viviamo!
(chi benedice)
Benedetto sii Tu, Eterno, Dio nostro, Re del mondo, Colui che alimenta tutto l’universo: con la Sua bontà, con grazia, con pietà e con misericordia dà cibo ad ogni creatura, poiché la Sua pietà è infinita. Per la Sua grande bontà non ci mancò mai né mai ci mancherà alimento, per virtù del Suo Nome grande, poiché Egli alimenta, nutre e benefica tutti e procura il cibo per tutte le Sue creature che Egli creò. Benedetto sii Tu, o Eterno, che dai alimento a tutto il creato.
Ti ringraziamo, o Eterno Dio nostro, perché concedesti ai nostri padri una terra attraente, feconda e spaziosa, perché ci traesti, o Eterno, dalla terra d’Egitto e ci liberasti dal luogo della schiavitù; per il Tuo patto che suggellasti nella nostra carne, per la tua Torà che ci insegnasti, per le Tue norme che ci rendesti note, per la vita, per l’amore, per la pietà che ci accordasti, per il cibo con cui Tu ci alimenti e ci nutri, di continuo, ogni giorno, in ogni stagione, in ogni ora.
Per tutte queste cose, o Eterno, Dio nostro, noi Ti rendiamo grazie e Ti benediciamo, sia benedetto il Nome Tuo dalla bocca di ogni essere vivente, ogni giorno, in perpetuo, come è scritto nella Torà: “Mangerai e ti sazierai e benedirai l’Eterno tuo Dio per il bel paese che ti ha dato”. Benedetto sii Tu, o Eterno, per la terra e per il cibo.
Abbi pietà, o Eterno, Dio nostro, d’Israel tuo popolo, di Jerushalaim tua città, del monte Sion che è sede della Tua maestà, del regno del casato di David Tuo Mashiah, della grande e sacra Casa dedicata al Tuo Nome! Dio nostro, Padre nostro, sii Tu il nostro pastore, sii Tu a darci il cibo, a porgerci il nutrimento, a fornirci l’alimento, a provvedere ai nostri bisogni. Liberaci presto, o Eterno, Dio nostro, da tutte le nostre ansie. Fa che non abbiamo bisogno, o Eterno, Dio nostro, né dei doni degli esseri mortali né dei loro prestiti, ma soltanto della Tua mano piena, aperta, santa e generosa sì che non abbiamo mai a vergognarci né a rimanere mortificati.
Se è sabato si dice: Fa, o Eterno, Dio nostro, che attingiamo un senso di vigore e di pace dall’adempimento dei Tuoi precetti e dall’osservanza del settimo giorno, di questo Sabato grande e sacro, poiché esso è per Te giorno grande e sacro, destinato alla cessazione del lavoro ed al riposo, con sentimento di amore, secondo il comandamento della Tua volontà. Concedi noi, o Eterno, Dio nostro, il sereno riposo che Tu desideri in modo che la sventura, il dolore e l’ansia non turbino il nostro giorno di pace. Concedi a noi di vedere Sion, la Tua città, riconfortata, e Jerushalaim, Tua santa città, ricostruita poiché Tu sei il Signore della salvezza, il Signore della consolazione.
Ricostruisci Jerushalaim, città santa, presto ai giorni nostri.
Benedetto sii Tu, o Eterno, che con un atto di pietà ricostruisci Jerushalaim. Così sia.
Benedetto sii Tu, o Eterno, Dio nostro, Re del mondo; Tu che sei l’unico Dio, il padre nostro, il nostro Re, il nostro onnipotente Signore, il nostro creatore, il nostro redentore, il nostro autore, il nostro santo, il santo di Giacobbe, il nostro pastore, il pastore di Israel, il Re buono e benefico verso ogni essere,Colui che quotidianamente ci ha dimostrato, ci dimostra e ci dimostrerà la Sua benevolenza, che ci ha colmato, ci colma e ci colmerà sempre di grazia, di amore, di pietà, di sollievo, di salvezza, di prosperità, di benedizione, di salute, di conforto, di nutrimento, di alimento, di pietà, di vita, di pace e di ogni bene. Egli non ci privi d’alcun bene.
Il Misericordioso regni sopra di noi in perpetuo.
Il Misericordioso Sia benedetto in cielo ed in terra.
Il Misericordioso
Altra Benedizione cibo testo ebraico
Ti ringraziamo, o Eterno Dio nostro, perché concedesti ai nostri padri una terra attraente, feconda e spaziosa, perché ci traesti, o Eterno, dalla terra d’Egitto e ci liberasti dal luogo della schiavitù; per il Tuo patto che suggellasti nella nostra carne, per la tua Torà che ci insegnasti, per le Tue norme che ci rendesti note, per la vita, per l’amore, per la pietà che ci accordasti, per il cibo con cui Tu ci alimenti e ci nutri, di continuo, ogni giorno, in ogni stagione, in ogni ora.
Per tutte queste cose, o Eterno, Dio nostro, noi Ti rendiamo grazie e Ti benediciamo, sia benedetto il Nome Tuo dalla bocca di ogni essere vivente, ogni giorno, in perpetuo, come è scritto nella Torà: “Mangerai e ti sazierai e benedirai l’Eterno tuo Dio per il bel paese che ti ha dato”. Benedetto sii Tu, o Eterno, per la terra e per il cibo.
Abbi pietà, o Eterno, Dio nostro, d’Israel tuo popolo, di Jerushalaim tua città, del monte Sion che è sede della Tua maestà, del regno del casato di David Tuo Mashiah, della grande e sacra Casa dedicata al Tuo Nome! Dio nostro, Padre nostro, sii Tu il nostro pastore, sii Tu a darci il cibo, a porgerci il nutrimento, a fornirci l’alimento, a provvedere ai nostri bisogni. Liberaci presto, o Eterno, Dio nostro, da tutte le nostre ansie. Fa che non abbiamo bisogno, o Eterno, Dio nostro, né dei doni degli esseri mortali né dei loro prestiti, ma soltanto della Tua mano piena, aperta, santa e generosa sì che non abbiamo mai a vergognarci né a rimanere mortificati.
Fa, o Eterno, Dio nostro, che attingiamo un senso di vigore e di pace dall’adempimento dei Tuoi precetti e dall’osservanza del settimo giorno, di questo Sabato grande e sacro, poiché esso è per Te giorno grande e sacro, destinato alla cessazione del lavoro ed al riposo, con sentimento di amore, secondo il comandamento della Tua volontà. Concedi noi, o Eterno, Dio nostro, il sereno riposo che Tu desideri in modo che la sventura, il dolore e l’ansia non turbino il nostro giorno di pace. Concedi a noi di vedere Sion, la Tua città, riconfortata, e Jerushalaim, Tua santa città, ricostruita poiché Tu sei il Signore della salvezza, il Signore della consolazione.
Ricostruisci Jerushalaim, città santa, presto ai giorni nostri.
Benedetto sii Tu, o Eterno, che con un atto di pietà ricostruisci Jerushalaim. Così sia.
Benedetto sii Tu, o Eterno, Dio nostro, Re del mondo; Tu che sei l’unico Dio, il padre nostro, il nostro Re, il nostro onnipotente Signore, il nostro creatore, il nostro redentore, il nostro autore, il nostro santo, il santo di Giacobbe, il nostro pastore, il pastore di Israel, il Re buono e benefico verso ogni essere, Colui che quotidianamente ci ha dimostrato, ci dimostra e ci dimostrerà la Sua benevolenza, che ci ha colmato, ci colma e ci colmerà sempre di grazia, di amore, di pietà, di sollievo, di salvezza, di prosperità, di benedizione, di salute, di conforto, di nutrimento, di alimento, di pietà, di vita, di pace e di ogni bene. Egli non ci privi d’alcun bene.
Il Misericordioso regni sopra di noi in perpetuo.
Il Misericordioso Sia benedetto in cielo ed in terra.
Il Misericordioso sia lodato in tutte le generazioni e sia glorificato in noi per l’eternità e sia esaltato in noi, sempre, in perpetuo.
Il Misericordioso ci alimenti con decoro.
Il Misericordioso spezzi il giogo che ci sta sul collo e ci riconduca a fronte alta, alla nostra terra.
Il Misericordioso mandi una copiosa benedizione in questa casa e su questa mensa, alla quale abbiamo mangiato.
Il Misericordioso ci mandi il profeta Elia, ricordato in bene, ad annunciarci con gioia redenzioni e consolazioni.
Il Misericordioso benedica il (mio padre e mio maestro) padrone di questa casa e la (mia madre e mia maestra) padrona di questa casa; li benedica insieme con la loro famiglia, con i loro figli e con tutto ciò che essi hanno; benedica noi e tutto ciò che abbiamo; nello stesso modo in cui furono benedetti i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe, in ogni loro opera, da ogni parte
Per concludere ricordiamo che Il rito del pane e del vino è di antichissima tradizione ebraica ed è interessante evidenziare che si seguiva in particolare tutti i giorni nella Comunità degli Esseni di Qumran. Era infatti previsto che in ogni gruppo di 10 uomini vi fosse almeno un Sacerdote fra di loro e che quando si riunivano a cena si disponessero a tavola secondo la scala gerarchica.
A tavola veniva servito sia del pane che del vino. Il primo a toccarli doveva essere il Sacerdote, che li benediceva. E così si legge nei rotoli trovati nel Mar Morto: “E allorché disporranno la tavola per mangiare il pane o il vino per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano, per benedirli”. Scrive a questo proposito David Flusser: “C’è qualche influenza essena sulla Messa cristiana e sull’Eucaristia, se si guarda alla somiglianza di ordine e significato tra il pasto esseno e l’Eucaristia cristiana, con successione di pane e vino”.
David Flusser (1917 – 2000) è stato professore di Cristianesimo Primitivo e Giudaismo del Secondo Tempio, alla Hebrew University di Gerusalemme. E’ unanimamente considerato il massimo esperto mondiale in materia. Ma va sottolineato, infine, che anche Melchisedec, re di Salem (si ritiene Gerusalemme), offrì “pane e vino”, come fece Gesù nell’ultima cena. Recitano infatti così le Sacre Scritture: “Quando Abramo fu di ritorno, dopo la vittoria su Chedorlaomer e dei re che erano con lui, il re di Sodoma gli uscì incontro nella Valle di Save, cioè la Valle del re. Intanto Melchisedec, Re di Salem offrì pane e vino”.
Il piatto del Seder di Pesach (in ebraico: קערה? , ke’ara) è un piatto di specifica fattura contenente cibi simbolici che vengono consumati o solamente mostrati durante questa celebrazione. Lo scopo del piatto è quello di tramandare e valorizzare le tradizioni del popolo ebraico attraverso il cibo. Il piatto è progettato per esprimere l’unicità della celebrazione pasquale. Un altro possibile scopo è quello di tenere gli ingredienti vicini tra loro, pronti per la notte del Seder di Pesach.
I cibi simbolici
Ciascuno dei sei elementi disposti sul piatto ha un significato specifico allo scopo di ripercorrere, attraverso il pasto rituale, la storia della Pasqua ebraica e dell’esodo dall’Egitto. I tre matzos, corrispondenti al settimo elemento simbolico, non sono considerati una vera e propria parte del piatto del Seder di Pesach. I sei elementi tradizionali del piatto del Seder di Pesach sono:
Maror e Chazeret
Maror e Chazeret – Questi termini ebraici si riferiscono a erbe amare, che simboleggiano appunto la durezza e l’amarezza della schiavitù sofferta dagli ebrei in Egitto. Nella tradizione ebraica ashkenazita l’indivia, la lattuga romana fresca (entrambe rappresentanti la durezza delle invasioni romane) o il rafano possono essere consumate come Maror, per obbedire al comandamento di mangiare erbe amare durante il Seder di Pesach. Il termine Chazeret corrisponde ad altre erbe amare, tra le quali di solito figura sempre la lattuga romana, utilizzata nella preparazione del korech, un “panino” pasquale .
Charoset
Charoset – Una miscela dolce di colore marrone che rappresenta la malta e i mattoni usati dagli schiavi ebrei per costruire i granai o le piramidi d’Egitto. Nelle case degli ebreiashkenaziti, il Charoset viene tradizionalmente preparato con noci tritate, mele grattugiate, cannella e vino rosso dolce.
Karpas
Karpas – Il termine si riferisce a tipi di verdure diverse dalle erbe amare. Queste hanno lo scopo di rappresentare speranza e rinnovamento. La verdura scelta viene immersa in acqua salata all’inizio della celebrazione. Di solito vengono utilizzati prezzemolo o altre verdure di colore verde.[1] Alcuni sostituiscono il prezzemolo con cipollotto tritato (a rappresentare l’amarezza della schiavitù in Egitto) o con patate (che rappresentano la dura condizione patita dagli ebrei nei ghetti nella Germania nazista e in altri paesi europei). Le gocce che cadono dopo aver immerso le verdure nell’acqua salata sono una rappresentazione visiva delle lacrime, un ricordo simbolico del dolore provato dagli schiavi ebrei in Egitto. Di solito, in uno Shabbat o un pasto festivo, durante la celebrazione del kiddush, la prima cosa da mangiare dopo aver bevuto il vino è il pane. Durante il Seder di Pesach, invece, la prima cosa consumata dopo il kiddush è una verdura. Segue immediatamente la famosa domanda, Ma Nishtana: “Perché questa notte è diversa da tutte le altre?”
L’elemento del Karpas simboleggia anche la primavera, dato che gli ebrei celebrano la Pasqua in questa stagione.
Zeroah
Zeroah – (traslitterato Z’roa) solitamente uno stinco d’agnello arrostito. È un pezzo particolare, in quanto unico elemento di carne del piatto. Rappresenta il “Korban Pesach” (o sacrificio pasquale) di un agnello il cui sangue fu “spruzzato” dagli israeliti schiavi in Egitto sulle porte delle proprie case, in modo che Dio “passasse oltre” quelle abitazioni durante la decima piaga.[2]
Beitzah
Beitzah – Un uovo bollito, a simboleggiare il korban chagigah (il sacrificio festivo) che veniva offerto al tempio di Gerusalemme, viene poi arrostito al forno e consumato come parte del pasto del Seder. Sebbene sia il sacrificio di Pesach che quello del chagigah fossero in origine di carne, oggi per il chagigah si utilizza un uovo, simbolo del lutto (le uova sono tradizionalmente la prima pietanza servita dopo un funerale ebraico), richiamando il sentimento di dolore per la distruzione del Tempio di Gerusalemme e la conseguente impossibilità di offrire proprio lì i sacrifici ordinati nei testi sacri in occasione della Pasqua. L’uso dell’uovo nel Seder di Pesach viene attestato per la prima volta in un commento del rabbino Moses Isserles riportato nel Shulchan Aruch, testo normativo ebraico del XVI secolo, ma il periodo preciso in cui iniziò tale usanza è sconosciuto.[3] L’uovo non viene comunque utilizzato durante la parte cerimoniale “ufficiale” del Seder. Alcuni ne mangiano uno sodo immerso in acqua salata o aceto come antipasto. L’uovo è anche il simbolo del cerchio della vita: nascita, riproduzione e morte.
Piatto del Seder di Pesach
Molti dei piatti decorativi e artistici del Seder di Pesach, venduti nei negozi d’arte cerimoniale ebraica, possiedono già gli spazi separati per la suddivisione delle varie pietanze simboliche.
Tavola apparecchiata per il Seder con sopra: il tipico piatto del Seder di Pesach, acqua salata; matza; del vino kosher e una copia del testo Haggadah per ciascuno degli ospiti.
I Tre Matzot
Il sesto elemento simbolico sul tavolo Seder di Pesach è un altro piatto contenente tre matzot interi, impilati e separati l’uno dall’altro da tovaglioli. Il matzah centrale viene spezzato e una metà viene messa da parte per essere consumato successivamente come afikoman. La parte superiore e l’altra metà del matzot centrale vengono poi utilizzate per l’hamotzi (la benedizione del pane), e il matzah inferiore viene successivamente utilizzato per la preparazione del korech (“panino” di Hillel).
Acqua salata
L’acqua salata non fa tradizionalmente parte del Piatto del Seder, ma viene comunque posta sul tavolo in un recipiente a sé. Tuttavia, viene a volte utilizzata come uno dei sei elementi tradizionali al posto del chazeret. L’acqua salata sta a rappresentare le lacrime degli israeliti ridotti in schiavitù.
Varianti
Piatto del Seder con un’arancia.
Aceto – Gli ebrei tedeschi e persiani includono tradizionalmente l’aceto per il piatto del Seder, accanto all’elemento fondamentale del karpas . Il karpas viene dunque immerso in aceto e non in acqua salata.
Olive – Ad alcuni piatti seder viene aggiunta un’oliva per esprimere solidarietà ai palestinesi. Nel 2008, il Jewish Voice for Peace lanciò un appello per aggiungere un’oliva in ricordo delle piante d’ulivo sradicate in Palestina. L’aggiunta di questo elemento al piatto come appello alla pace tra Israele e Palestina è ben vista da alcuni ebrei.
Arancio – Alcuni ebrei includono nel piatto un’arancia. L’arancia è simbolo di fertilità e fruttuosità. La sua presenza nel piatto sta a rappresentare il concetto che tutti gli ebrei, incluse alcune categorie particolarmente emarginate.
La colazione di Pasqua: origini, tradizioni e pietanze
La tradizione della colazione di Pasqua nella cultura italiana
La tradizionalissima “colazione di Pasqua”. Si tratta, infatti, di una ricchissima colazione che vede l’unione di dolce e salato. Questa ha origini antiche ed è una tradizione ancora rispettata.
La colazione di Pasqua
La colazione di Pasqua è una tradizione antica che assume caratteristiche e forme diverse in base al territorio in cui ci troviamo. Nelle tradizioni locali ogni colazione possiede le sue peculiarità
Alcuni prodotti hanno un alto valore simbolico, sono un segno che si lega alla tradizione cristiana. La Pasqua nel calendario liturgico cade sempre a Primavera, quando la natura si sta risvegliando in tutto il suo vigore, diventando segno di rinascita. L’Uovo è l’ingrediente per eccellenza.
Fin dall’antichità aveva un forte valore simbolico (l’uovo cosmico, legato ai miti della creazione del mondo e dell’Universo), nella tradizione cristiana è il segno della Resurrezione. Il suo guscio rappresenta il sepolcro, da cui Cristo resusciterà, l’interno dell’uovo è segno di forza, di potenza, della nuova vita. Nel Medioevo nasce la tradizione di regalarsi le uova (vere), mentre la tradizione golosa dell’uovo di cioccolato è molto recente, a partire dal XIX secolo.
Poi abbiamo il Pane, Il chicco di grano se non muore non genera frutto. Evidente quindi il richiamo alla morte e resurrezione. E’ il simbolo dell’Eucaristia, il pane spezzato dell’Ultima Cena. Per il pane abbiamo molte varianti sia per cottura, sia per eventuali ingredienti aggiunti nella lievitazione o nella forma. Così da avere prodotti unici nel gusto e nell’aspetto, da essere tramandati fino ai giorni nostri.
La grande varietà di ricette locali ci porta a trovare lo stesso prodotto realizzato dolce o salato, alto o basso, con ingredienti in più o in meno, e questa diversità la si può riscontrare anche tra località limitrofe.
Nelle tradizioni locali, riscopriamo la storia, i simboli e la passione tramandata da famiglia a famiglia. Un identità unica, tutta da scoprire attraverso i luoghi e i sapori.
Il tavolo è apparecchiato e decorato a tema pasquale, con posate e piatti utilizzati per l’occasione. Su questo le portate sono miste: si passa dal dolce al salato e dal salato al dolce. Ma perché si fa la colazione e non il pranzo? La motivazione, molto antica, deriva dalla necessità di mangiare molto per celebrare la fine del digiuno compiuto durante la quaresima. E cosa si mangia esattamente? I piatti che si possono trovare sulla tavola di una colazione di pasqua variano da un tipico salame denominato corallina, le uova sode , i formaggi, le torte salate, ma anche quelle dolci. E ancora la frittata con asparagiselvatici, il latte, il the e il caffe. Per i più tradizionalisti non può mancare la coratella, ovvero interiora di abbacchio, accompagnata dai carciofi, e l’agnello. E per concludere non può non esserci la colomba e l’uovo di cioccolato.
Idea Progettazione Articolo di Marilena Marino Vocedivina.it
Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!». Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
Parola del Signore
Chi è questo cieco, accovacciato nell’oscurità della propria vita, ai margini di una folla apparentemente lucida e dal cammino ben rischiarato, ma che impedisce il grido di cuore del non vedente troppo intempestivo? Sono io, quando ho la coraggiosa ingenuità di interpellare Cristo, lui che giustamente non passa così vicino a me che per farsi fermare, e che non è importunato da nessun grido che viene dal cuore, soprattutto quello della non vedenza. Io, ancora, quando riconosco che la semplice preghiera, fiduciosa e non affettata, è il collirio che mi restituisce la vista. Io, infine, quando la mia lode si aggiunge a quella degli umili vedenti.
Commento su Lc 18, 35-43
«Mentre Gesù si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: “Passa Gesù, il Nazareno!”. Allora gridò dicendo: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Egli rispose: “Signore, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”. Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio».
Come vivere questa Parola?
Come è viva, limpida, e profonda la fede di questo anonimo cieco di cui ci parla Luca nel Vangelo di oggi! Egli se ne stava seduto lungo la strada che portava a Gerico a mendicare, quando dal tramestio della gente che accorreva, sente che “passa Gesù, il Nazareno“. Egli grida allora la sua preghiera accorata: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!“. È interessante annotare che il cieco non chiede subito il miracolo per riavere la vista, ma soltanto domanda che il Nazareno abbia pietà. È questa la preghiera più importante del cieco, tant’è vero che viene gridata una seconda volta, nonostante il rimprovero ricevuto dagli astanti “perché tacesse”. Solo in un secondo tempo, quando Gesù gli chiede esplicitamente: «Che cosa vuoi che io faccia per te?», egli risponde: «Signore, che io veda di nuovo!». Ciò vuol dire che la sua preghiera veniva dal profondo del suo cuore ed era colma di fede e di adesione totale al Maestro e non una richiesta egoistica di essere soltanto guarito dal suo male. E Gesù aveva intravisto in quel grido una fede umile e vera. Ecco perché il Signore, alla fine dell’incontro salvante con il cieco, gli dice espressamente: “La tua fede ti ha salvato”. È bello sottolineare che questa preghiera del cieco è stata poi scelta dall’Oriente cristiano come la preghiera caratteristica della spiritualità orientale, e chiamata la “preghiera del cuore” o meglio, denominata dai questi Padri, la “preghiera monologica” (cioè la preghiera riassunta in una sola parola: Gesù), da ripetersi lungo la giornata insieme col respiro del corpo (cfr. I racconti del Pellegrino russo).
Signore, anch’io con il cieco anonimo ti grido la mia umile e accorata preghiera: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». E la ripeterò spesso lungo la giornata, quasi fosse il mio respiro.
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”
“Gesù sconfina” per dirci che la misericordia di Dio è per tutti. Non dimentichiamo questo: la misericordia di Dio è per tutti e per ognuno di noi. ‘La misericordia di Dio è per me’, ognuno può dire questo”. Così il Papa, a braccio, ha spiegato che “la Parola di Dio è per tutti”: “È un dono rivolto a ciascuno e che perciò non possiamo mai restringerne il campo di azione perché essa, al di là di tutti i nostri calcoli, germoglia in modo spontaneo, imprevisto e imprevedibile, nei modi e nei tempi che lo Spirito Santo conosce”.
Nella Domenica della Parola di Dio, Francesco ricorda l’urgenza dell’annuncio, la necessità di professare “un Dio dal cuore largo”, di far salire sulla barca di Pietro chi si incontra perché questa è la Parola di Dio, “non è proselitismo”
“E se la salvezza è destinata a tutti, anche ai più lontani e perduti – ha spiegato Francesco nell’omelia della Messa celebrata domenica, nella basilica di San Pietro, per la quarta Domenica della Parola di Dio – allora l’annuncio della Parola deve diventare la principale urgenza della comunità ecclesiale, come fu per Gesù. Non ci succeda di professare un Dio dal cuore largo ed essere una Chiesa dal cuore stretto – questa sarebbe, mi permetto di dire, una maledizione –; non ci succeda di predicare la salvezza per tutti e rendere impraticabile la strada per accoglierla; non ci succeda di saperci chiamati a portare l’annuncio del Regno e trascurare la Parola, disperdendoci in tante attività secondarie, o tante discussioni secondarie”.
“Impariamo da Gesù a mettere la Parola al centro, ad allargare i confini, ad aprirci alla gente”, l’invito: “Metti la tua vita sotto la Parola di Dio. Questa è la strada che ci indica la Chiesa: tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo sotto l’autorità della Parola di Dio. Non sotto i nostri gusti, le nostre tendenze o preferenze, ma sotto l’unica Parola di Dio che ci plasma, ci converte, ci chiede di essere uniti nell’unica Chiesa di Cristo”.
I cristiani, ha spiegato il Papa, sull’esempio di Gesù sono “esperti nel cercare gli altri”: “E questo non è proselitismo, perché quella che chiama è la Parola di Dio, non la nostra parola”, ha precisato. “Questa è la nostra missione”, ha concluso Francesco: “Diventare cercatori di chi è perduto, di chi è oppresso e sfiduciato, per portare loro non noi stessi, ma la consolazione della Parola, l’annuncio dirompente di Dio che trasforma la vita”.
La vita di San Paolo di Tarso, noto anche come San Paolo Apostolo, è un racconto straordinario di trasformazione e dedizione alla diffusione del cristianesimo. Ecco una panoramica della sua vita e della sua conversione:
Origini e Formazione: Paolo, originariamente chiamato Saulo, nacque a Tarso in Cilicia (l’attuale Turchia) intorno al 5-10 d.C. Era di origine ebraica e cresciuto in una famiglia farisea. Ricevette una formazione religiosa rigorosa e acquisì competenze come fabbricante di tende.
Fase Persecutoria: Inizialmente, Saulo fu noto per la sua opposizione al nascente movimento cristiano. Era un fervente persecutore dei cristiani, partecipando attivamente all’arresto e alla persecuzione dei seguaci di Gesù.
La Conversione sulla Via di Damasco: La svolta nella vita di Saulo avvenne durante un viaggio a Damasco. Mentre si dirigeva verso la città con l’intenzione di perseguitare i cristiani, ebbe un incontro straordinario con Gesù Cristo risorto. Una luce accecante lo avvolse, e Saulo udì la voce di Gesù che gli chiedeva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Dopo questa esperienza, Saulo rimase cieco per tre giorni.
La Rinascita e la Missione Apostolica: Durante quei giorni di cecità, Anania, un seguace di Gesù, lo guarì e lo battezzò. Da quel momento, Saulo sperimentò una conversione radicale e cambiò il suo nome in Paolo. Iniziò a predicare appassionatamente il cristianesimo, diventando uno degli apostoli più influenti e prolifici nella diffusione del Vangelo.
Le Missioni Apostoliche: Paolo intraprese numerose missioni apostoliche, viaggiando per vasti territori dell’Impero Romano. Fondò numerose comunità cristiane e scrisse diverse epistole (lettere) che costituiscono una parte significativa del Nuovo Testamento.
Imprigionamento e Morte: Paolo affrontò diversi arresti durante la sua missione apostolica, e infine fu imprigionato a Roma. Tradizionalmente si ritiene che sia stato martirizzato, essendo stato giustiziato sotto l’imperatore romano Nerone, intorno al 67 d.C.
La conversione di San Paolo è uno degli eventi più notevoli nella storia cristiana, e la sua trasformazione da persecutore a fervente apostolo ha avuto un impatto duraturo sulla diffusione del cristianesimo nel mondo antico. Le sue lettere, presenti nel Nuovo Testamento, sono ancora oggi fonte di insegnamento e ispirazione per i cristiani.
Dopo la sua conversione miracolosa sulla Via di Damasco, Paolo si ritrovò in una condizione di cecità, sia fisica che spirituale. Gli occhi, una volta aperti solo per cercare e perseguitare i seguaci di Gesù, ora erano chiusi, incapaci di vedere il mondo esterno. Ma nel buio della sua cecità fisica, qualcosa di straordinario stava accadendo dentro di lui.
Durante quei tre giorni di oscurità, Paolo fu attraversato da una profonda riflessione e preghiera. Riconsiderò le sue azioni passate, confrontando il suo zelo per la legge con la luce divina che aveva sperimentato sulla strada per Damasco. In quel silenzio oscuro, Paolo fu visitato da Anania, un seguace di Gesù, che gli impose le mani, restituendogli la vista e il senso spirituale.
La trasformazione di Saulo in Paolo fu radicale. L’uomo che una volta era un accanito persecutore dei cristiani divenne un ardente apostolo di Cristo. Non solo cambiò il suo nome, ma cambiò completamente il corso della sua vita. La luce divina che lo aveva accecato fisicamente lo illuminò interiormente, aprendo gli occhi del suo cuore alla verità del Vangelo.
Da quel momento in poi, Paolo si dedicò instancabilmente a diffondere la buona notizia di Gesù Cristo. Viaggiò per terre lontane, affrontò persecuzioni, incarcerazioni e sofferenze, ma nulla poteva fermare la fiamma della sua fede. Le città, i villaggi e le comunità incontrate nel corso delle sue missioni furono testimoni della sua passione e dedizione.
Le sue lettere, scritte in momenti di prigionia o durante le sue peregrinazioni, diventarono una testimonianza duratura della sua teologia profonda e della sua saggezza spirituale. Attraverso la sua scrittura appassionata, Paolo continuò a guidare e nutrire le comunità cristiane, esortandole all’amore, alla fede e alla speranza.
Il suo cammino apostolico lo portò infine a Roma, la capitale dell’Impero, dove subì il martirio per la sua fede. Paolo, l’ex persecutore diventato apostolo, affrontò la sua fine con la stessa determinazione e fede che aveva guidato la sua vita.
La conversione di Paolo è un racconto di trasformazione straordinaria, un esempio di come la grazia divina può cambiare radicalmente una vita e trasformare un cuore ostile in uno devoto. La storia di Paolo è intrisa di avventure, prove e, soprattutto, della potenza trasformatrice dell’amore di Dio.
Il viaggio di Paolo, dall’oscurità alla luce, è una narrazione che va al di là delle circostanze terrene. La sua vita diventò una testimonianza vivente della grazia redentrice di Cristo, un racconto di speranza che risuona attraverso i secoli.
Mentre Paolo si trovava in prigione a Roma, le sue lettere continuarono a fluire, portando conforto e insegnamento alle comunità cristiane sparse in tutto l’impero. Nelle sue parole, traspariva la consapevolezza profonda della grazia di Dio, della sua misericordia e dell’amore che travalicava le barriere etniche e culturali.
La sua epistola ai Filippesi, scritta in una situazione di apparente difficoltà, riflette la sua prospettiva straordinaria sulla gioia e sull’importanza di concentrarsi su Cristo. “Rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto, rallegratevi!” sono parole che risuonano con un tono di fiducia radicata in una fede salda.
Paolo, l’apostolo delle nazioni, non solo trasformò la sua vita, ma contribuì in modo significativo allo sviluppo teologico del cristianesimo. Le sue lettere, considerate parte integrante del Nuovo Testamento, trattano questioni fondamentali sulla grazia, la fede, la giustificazione e l’amore di Dio.
La sua eredità vive ancora attraverso le comunità cristiane in tutto il mondo, che attingono ispirazione dalle sue parole e dal suo esempio. La conversione di Paolo è un richiamo potente a tutti coloro che si sentono lontani da Dio o intrappolati nel buio delle proprie scelte sbagliate. Essa ci ricorda che, attraverso la grazia, ogni cuore può essere trasformato, e ogni vita può diventare un testimonio vivente della potenza redentrice di Cristo.
La storia di Paolo di Tarso è una testimonianza di come la grazia divina può raggiungere anche il più duro dei cuori e trasformare un persecutore in un apostolo, un testimone ardente della verità che ha incontrato sulla strada di Damasco. La sua vita ci invita a riflettere sulla nostra risposta alla chiamata di Dio e a credere nella possibilità di una trasformazione radicale attraverso l’amore e la grazia divina.
Cosa ci lascia S Paolo e la sua fede in Cristo
San Paolo, attraverso la sua vita, le esperienze e le lettere, lascia alla fede cristiana un ricco patrimonio teologico e spirituale. Alcuni degli insegnamenti chiave che Paolo offre alla fede includono:
Grazia e Giustificazione: Paolo sottolinea la centralità della grazia divina nella salvezza. In molte delle sue lettere, espone il concetto che la salvezza non è ottenuta attraverso le opere, ma è un dono gratuito di Dio. La giustificazione, secondo Paolo, deriva dalla fede in Gesù Cristo.
Fede e Opera: Nonostante l’importanza attribuita alla grazia, Paolo enfatizza anche l’importanza della fede viva che si manifesta attraverso le opere di amore. La fede, per lui, è dinamica e si esprime nell’impegno pratico verso Dio e il prossimo.
Corpo di Cristo: Paolo usa l’immagine del corpo per descrivere la Chiesa come il Corpo di Cristo. Ogni membro, anche se diverso, contribuisce al bene comune. Questo insegnamento promuove l’unità, la diversità e la responsabilità reciproca all’interno della comunità cristiana.
Amore e Libertà: Nel celebre capitolo sulla carità (1 Corinzi 13), Paolo dipinge un ritratto dell’amore cristiano. L’amore, secondo lui, è la forza motrice di tutte le azioni cristiane. Nel contempo, sottolinea la libertà cristiana, ma avverte contro un uso egoistico della libertà che potrebbe danneggiare gli altri.
Sofferenza e Consolazione: Paolo affronta la realtà della sofferenza, sia fisica che spirituale. Nel suo insegnamento, la sofferenza può essere vista come una partecipazione alla sofferenza di Cristo e può portare a una profonda consolazione. La sua stessa vita, segnata da prove e difficoltà, testimonia la potenza della grazia di Dio nel mezzo delle avversità.
Risurrezione e Vita Eterna: Paolo dedica parte significativa delle sue lettere a trattare della risurrezione. In particolare, nella sua prima lettera ai Corinzi, spiega la centralità della risurrezione di Cristo per la fede cristiana e la speranza nella vita eterna.
Il contributo di San Paolo alla fede cristiana è di una portata eccezionale. Le sue lettere, ispirate dallo Spirito Santo, forniscono una guida profonda e pratica per la vita cristiana. Paolo ci lascia una eredità che ci invita a vivere con fede e amore, a riconoscere la potenza trasformatrice della grazia di Dio e a impegna rci nella costruzione del Regno di Dio sulla terra.
La Lotta Spirituale: Paolo parla della realtà della lotta spirituale e della necessità di indossare l’armatura di Dio (Efesini 6:10-18). Ci insegna a essere pronti ad affrontare le sfide spirituali con fede, preghiera e resistenza, consapevoli della presenza di forze spirituali in conflitto.
La Comunione Eucaristica: Nelle sue lettere, Paolo spiega il significato e la profondità della Cena del Signore. Nel suo insegnamento sulla Cena del Signore (1 Corinzi 11:23-26), sottolinea la comunione con Cristo e con i membri del Corpo di Cristo attraverso questo sacramento.
La Forza nella Debolezza: Paolo condivide la sua esperienza di “spina nella carne” (2 Corinzi 12:7-10), rivelando come Dio usi la debolezza umana per manifestare la sua potenza. Questo ci insegna a trovare la forza in Dio anche nelle nostre limitazioni.
Il Cammino della Fede: Paolo stesso è un esempio di perseveranza nella fede nonostante le avversità. Nei momenti di prigione, persecuzione e sofferenza, mantiene la sua fiducia in Dio e continua a diffondere il Vangelo. Il suo coraggio e la sua dedizione ci ispirano a perseverare nella fede anche di fronte alle sfide.
La Gentilezza e l’Amabilità: Anche nelle sue correzioni e ammonizioni, Paolo esprime la gentilezza e l’amabilità. Nel suo insegnamento sulla correzione fraterna, ci invita a correggerci a vicenda con amore e rispetto, cercando la crescita spirituale degli altri (Galati 6:1).
L’Attesa della Parusia: Paolo parla dell’attesa della seconda venuta di Cristo (Parusia) e dell’importanza di vivere in modo vigilante e preparato per l’incontro con il Signore (1 Tessalonicesi 4:16-18). Questa attesa forma la base della speranza cristiana e ci orienta verso il futuro glorioso che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
Il contributo di Paolo alla fede cristiana va ben oltre le sue parole. La sua vita e il suo ministero incarnano la trasformazione che la grazia di Dio può operare in un individuo. Ciò che ci lascia è un invito a vivere con fede, speranza e amore, a essere testimoni del Vangelo in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
L’Unità nella Diversità: Paolo si sforza di promuovere l’unità all’interno della Chiesa, anche in mezzo alle differenze culturali e etniche. In molte delle sue lettere, enfatizza che tutti sono uno in Cristo Gesù, indipendentemente dalla loro origine o status sociale (Galati 3:28). Questa visione dell’unità nella diversità rimane un insegnamento essenziale per le comunità cristiane.
Il Ministero della Consolazione: Paolo, il “Dio della consolazione” (2 Corinzi 1:3), incoraggia la Chiesa a condividere consolazione con gli altri. Egli stesso, attraverso le sue prove, imparò a consolare gli altri con la consolazione che aveva ricevuto da Dio.
Il Ruolo delle Donne nella Chiesa: Mentre alcuni passaggi delle sue lettere sono stati interpretati in modi diversi, Paolo riconosce il contributo significativo delle donne nella Chiesa. Nella sua lettera ai Romani, menziona Febe come diacono e Prisca (o Priscilla) come sua collaboratrice nella diffusione del Vangelo.
La Generosità e la Colletta per i Poveri: Paolo è coinvolto nell’organizzazione di raccolte di fondi per i poveri tra le comunità cristiane (2 Corinzi 8-9). Questa pratica riflette la sua preoccupazione per la giustizia sociale e l’attenzione ai bisogni materiali dei membri della Chiesa.
La Disciplina nella Chiesa: Paolo affronta anche la questione della disciplina nella Chiesa. Nel suo insegnamento, sottolinea la necessità di correggere il comportamento errato all’interno della comunità, mantenendo un bilanciamento tra amore e disciplina per il bene comune.
Il Combattimento del Buon Combattimento della Fede: Nelle sue ultime lettere, Paolo usa immagini guerresche per descrivere la sua corsa nella fede. Parla di aver combattuto il buon combattimento, completato la corsa e conservato la fede (2 Timoteo 4:7). Questa immagine esorta i credenti a perseverare nella fede nonostante le sfide.
San Paolo, attraverso la sua vita e le sue lettere, ci offre un ampio spettro di insegnamenti che abbracciano aspetti teologici, etici e pratici della vita cristiana. Il suo lascito è un richiamo costante a vivere secondo i principi del Vangelo, a crescere nella fede, nella speranza e nell’amore, e a perseguire la santità in ogni aspetto della vita. La sua eredità continua a guidare e ispirare milioni di credenti nel loro cammino di fede.
La Priorità della Preghiera: Paolo sottolinea l’importanza della preghiera in diverse occasioni. Invita i credenti a pregare senza cessare (1 Tessalonicesi 5:17) e a presentare le loro richieste a Dio con gratitudine (Filippesi 4:6). La preghiera, per Paolo, è un mezzo vitale di comunicazione con Dio e un’opportunità per trovare consolazione e forza.
La Parola di Dio come Spada dello Spirito: Nell’armatura spirituale descritta in Efesini 6, Paolo colloca l’importanza della Parola di Dio come la “spada dello Spirito”. Questo sottolinea la potenza della Scrittura nel combattere le tentazioni spirituali e nel rivelare la volontà di Dio.
La Comunione Fraterna: Paolo promuove la comunione fraterna e l’attenzione agli altri. In 1 Corinzi 12, utilizza l’immagine del corpo per spiegare l’importanza di ciascun membro nella Chiesa. Questo insegna la responsabilità reciproca e la condivisione delle gioie e delle sofferenze all’interno della comunità cristiana.
La Fiducia nella Provvidenza Divina: Anche di fronte alle difficoltà e alle avversità, Paolo insegna la fiducia nella provvidenza divina. La sua affermazione “Tutto posso in colui che mi dà forza” (Filippesi 4:13) riflette la sua convinzione che la forza di affrontare le sfide proviene da Cristo.
La Predicazione del Vangelo: Paolo considera la predicazione del Vangelo come una missione centrale nella vita del cristiano. Nella sua lettera ai Romani, chiede: “Come invocheranno colui in cui non hanno creduto? E come crederanno in colui di cui non hanno udito parlare? E come ne udranno parlare se non vi sarà chi predichi?” (Romani 10:14). Questo sottolinea l’importanza di condividere attivamente la buona notizia con gli altri.
L’Umiltà e l’Esaltazione di Cristo: Paolo esorta i credenti a coltivare l’umiltà, seguendo l’esempio di Cristo (Filippesi 2:5-11). Questo insegnamento ci ricorda di servire gli altri con umiltà e di riconoscere la grandezza di Dio nella nostra vita.
La Speranza Resa Sicura in Cristo: Paolo insegna che la speranza cristiana non delude perché è fondata sulla fede in Gesù Cristo. Scrivendo ai Romani, afferma che la speranza non delude “perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Romani 5:5). La speranza cristiana è radicata nell’amore di Dio e nella presenza dello Spirito Santo nelle nostre vite.
Questi insegnamenti di San Paolo formano un ricco tesoro per la fede cristiana, offrendo orientamenti pratici, etici e teologici. Paolo ci sfida a vivere in modo coerente con la nostra fede, ad abbracciare la grazia di Dio e a essere testimoni del Vangelo in ogni aspetto della nostra vita. La sua eredità continua a illuminare il cammino di coloro che cercano di seguire Cristo oggi.
La Virtù della Pazienza: Paolo, affrontando le difficoltà e le avversità nella sua vita e nel suo ministero, esemplifica la virtù della pazienza. Incoraggia i credenti a perseverare nelle tribolazioni, sapendo che la pazienza produce carattere e speranza (Romani 5:3-4).
La Responsabilità Individuale e Collettiva: Paolo insegna sia la responsabilità individuale che quella collettiva nella vita cristiana. Mentre sottolinea l’importanza della fede personale e della relazione individuale con Cristo, riconosce anche la responsabilità dei credenti di sostenersi a vicenda e di costruire insieme il corpo di Cristo.
Il Combattimento Contro le Tenebre Spirituali: Paolo riconosce la presenza delle tenebre spirituali e invita i credenti a combattere il buon combattimento della fede. Nel suo insegnamento sulla guerra spirituale, ci esorta a indossare l’armatura di Dio per resistere alle insidie del nemico (Efesini 6:10-18).
L’Ammonimento Fraterno: Paolo, nella sua lettera ai Galati, incoraggia il confronto fraterno e l’ammonimento quando un credente si allontana dalla verità. Questo insegnamento riafferma l’importanza della cura e dell’accountability all’interno della comunità cristiana.
Il Culto della Vita Consacrata: Paolo dedica una parte significativa delle sue lettere a spiegare il significato e la pratica del culto cristiano. Nell’insegnamento sulla consacrazione del nostro corpo come un “sacrificio vivente” (Romani 12:1), sottolinea l’importanza di vivere ogni aspetto della nostra vita in adorazione a Dio.
La Lotta Contro la Tentazione: Paolo riconosce la realtà delle tentazioni e invita i credenti a resistere con fermezza. Nel suo insegnamento sulla tentazione, sottolinea che Dio fornirà una via d’uscita e che possiamo affrontare le sfide con la forza che ci viene da Cristo (1 Corinzi 10:13).
Il Ruolo dello Spirito Santo nella Vita del Credente: Paolo insegna l’importanza dello Spirito Santo nella vita del credente. Nei suoi scritti, evidenzia il ruolo dello Spirito Santo nell’illuminare, consolare, guidare e santificare i credenti, rendendoli capaci di vivere una vita in conformità con la volontà di Dio.
La Promessa della Vita Eterna: Paolo offre la sicurezza della vita eterna a coloro che confidano in Cristo. Nel suo insegnamento sulla risurrezione dei morti (1 Corinzi 15), proclama la vittoria su morte e peccato attraverso Cristo, offrendo la speranza della vita eterna con Dio.
La ricchezza degli insegnamenti di Paolo continua a offrire guida e ispirazione alla comunità cristiana. La sua eredità si riflette nella profondità teologica, nella praticità etica e nella saggezza spirituale che permea le sue lettere. Paolo ci incoraggia a vivere con fede, a lottare per la verità e a crescere nell’amore di Dio, invitandoci a una vita di consacrazione e speranza nella promessa della vita eterna.
Il 24 gennaio del 2023 si è celebrata la Domenica della Parola, voluta da papa Francesco per sottolineare l’importanza delle Scritture nella vita della Chiesa. «Tra chi, già prima del Concilio, mise al centro la Bibbia fu il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina che in quest’anno ha celebra uno speciale Anno Biblico», dice suor Piera Moretti
Suor Piera Moretti, 59 anni
Siamo tutti come i discepoli di Emmaus, impauriti e smarriti. È apparendo loro, dopo la Risurrezione, che Gesù, come racconta il Vangelo di Luca, «aprì la mente all’intelligenza delle Scritture». La Parola come antidoto alla paura. E quindi «sorgente di vita e cammino di approfondimento dell’identità cristiana, della nostra appartenenza a Cristo», dice suor Piera Moretti, Pia Discepola del Divin Maestro (una Congregazione religiosa della Famiglia Paolina fondata dal Beato Giacomo Alberione il 10 Febbraio 1924) nonché liturgista.
Il tema scelto per la Domenica della Parola del 2023 fu una frase tratta dalla Lettera che Paolo, in prigione, scrive ai Filippesi: «Tenendo alta la Parola di vita» (Fil 2,16). Più di un invito, un programma di vita: «Tenendo alta la parola di vita», scrive mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, «i discepoli di Cristo “brillano come astri nell’universo”. È una bella immagine quella che l’apostolo offre oggi anche a tutti noi. Viviamo un momento drammatico. L’umanità pensava di avere raggiunto le più solide certezze della scienza e le soluzioni di un’economia per garantire sicurezza di vita. Oggi è costretta a verificare che nessuna delle due le garantisce il futuro. Emerge in maniera forte il disorientamento e la sfiducia a causa dell’incertezza sopraggiunta in maniera inaspettata. I discepoli di Cristo hanno la responsabilità anche in questo frangente di pronunciare una parola di speranza. Lo possono realizzare nella misura in cui rimangono saldamente ancorati alla Parola di Dio che genera vita e si presenta come carica di senso per l’esistenza personale».
La sensibilità del popolo di Dio verso la Parola ha attraversato diverse fasi storiche ma è indubbio che l’impulso maggiore arriva dal Concilio Vaticano II con la Costituzione dogmatica Dei Verbum per arrivare fino a Benedetto XVI che nel 2008 convoca un Sinodo ad hoc sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” e poi scrive l’Esortazione Apostolica Verbum Domini. Fino a papa Francesco che nel 2019 con la Lettera apostolica Aperuit illis stabilisce che «la III Domenica del Tempo ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio».
In questo cammino l’apporto della Famiglia Paolina, che quest’anno celebra uno speciale Anno Biblico, è stato decisivo e, con il beato Giacomo Alberione, del quale quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte, persino profetico: «Don Alberione», ricorda suor Moretti, «ha celebrato l’Anno Biblico più volte nel corso della sua vita e anche prima del Concilio. In questo è stato un precursore. Ha indicato la strada, invitando a mettere al centro la Parola senza la quale non possiamo vivere. Per questo dobbiamo interpretare la nostra storia alla luce della Parola e solo così troveremo risposta e significato anche in quelle situazioni di male, dolore e sofferenza che in un primo momento e a uno sguardo superficiale sembrano non abbiano risposta».
Perché papa Bergoglio ha voluto collocare la Domenica della Parola nella terza domenica del tempo ordinario? «Perché», risponde suor Moretti, «è quella successiva alla Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani che si svolge dal 18 al 25 gennaio. La Parola, che è Cristo stesso, deve condurci alla comunione. Francesco ha sottolineato più volte che questa Giornata ha una valenza fortemente ecumenica, volta ad approfondire l’identità di ogni battezzato che se non attinge alla Parola di Dio perde la sua identità cristiana, ed è un richiamo a conoscere la Scrittura».
C’è chi afferma che questa venerazione del Libro sia qualcosa che appartiene più alla tradizione protestante che al cattolicesimo: «Ci stiamo avvicinando ai protestanti? Per me è un segno positivo», risponde la religiosa, «loro ci hanno insegnato tanto e noi dobbiamo imparare di più, è un avvicinamento reciproco, un cammino che facciamo insieme nella conoscenza del Signore. Tenere alta la parola di vita significa offrire una testimonianza autentica della Parola: la Torah è qualcosa ma di vivo, è lo Spirito esce dalla bocca di Dio e noi dobbiamo renderne testimonianza».
La Domenica della Parola, in comunione con tutta la Chiesa, è solo la prima tappa dell’Anno Biblico Paolino: «Ci saranno altri eventi», spiega suor Moretti, «approfondimenti, incontri, come il webinar del 12 gennaio scorso. A novembre, a cinquant’anni esatti dalla morte del beato Alberione, la chiusura solenne. San Paolo e il suo impegno instancabile ad annunciare la Parola non sono solo “patrimonio” della Famiglia Paolina. Noi abbiamo il compito di far brillare e risplendere la sua missione che seppe oltrepassare i confini della Palestina coinvolgendo migliaia di persone e interi popoli. Oggi c’è tanto bisogno di persone che tengano alta la Parola e che non siano altisonanti nel proclamarla ma gareggino nel darle testimonianza».