«HALLOWEEN: COSA RISPONDERE AI BAMBINI CHE CHIEDONO “DOLCETTO O SCHERZETTO”?»
«Come ogni anno in occasione di Halloween sentirò suonare alla mia porta ragazzini festanti con costumi da film dell’orrore Come devo reagire, da cristiano?»
Quest’anno, come ogni anno, la sera del 31 ottobre, in occasione di Halloween, sentirò suonare alla mia porta dei ragazzini festanti – e magari travestiti con costumi da film dell’orrore – che mi diranno “dolcetto o scherzetto?”. Come devo considerare questa ricorrenza alla luce della mia fede?
La tradizione di Halloween ha origine dall’antica festa dei Celti chiamata “Samhain”, che segnava la fine dell’estate con l’ultimo raccolto e l’inizio dell’inverno. Nella notte che precedeva il nuovo anno pensavano che il confine tra il mondo dei vivi e dei morti si confondesse, tanto che i fantasmi potessero aggirarsi nel mondo dei vivi e disturbare le loro attività. Così la notte del 31 ottobre accendevano falò sacri e indossavano costumi grotteschi, tipicamente costituiti da teste e pelli di animali, per spaventarli e allontanarli dai loro campi. Al termine, riaccendevano il focolare domestico, che avevano spento la sera stessa, dal falò sacro per proteggersi durante l’inverno. Per un popolo legato all’instabilità naturale e al ciclo delle stagioni queste pratiche erano un’importante fonte di conforto prima delle oscurità invernali.
Nell’VIII secolo, papa Gregorio III designò il 1° novembre come momento per onorare tutti i santi. La celebrazione era chiamata “All-Hallows” e la notte che la precede, il 31 ottobre, iniziò a essere appellata “All-Hallows’ Eve”, contratto poi in “Halloween”. Nel corso del tempo si è evoluta in una festa mondana, come il “dolcetto o scherzetto”, l’intaglio delle lanterne, i raduni festosi o l’indossare costumi. Occorre avere presenti le diverse posizioni su questa festa tra chi ne intravvede un culto idolatrico o addirittura satanico, come gli esorcisti sulla base della loro esperienza, e chi la vive con la dimensione della festa, da cui adulti e bambini sono attratti, con cibi e maschere, perché i loro amici, non necessariamente credenti, partecipano a questo evento sociale. Ed esercitare quindi, a seconda delle circostanze che ci si trova a vivere, il dovuto discernimento.
Sullo sfondo rimane, comunque, la narrazione di popoli e culture che attraverso i loro miti esprimevano l’universale bisogno di confrontarsi con la tragicità della morte tramite forme sociali esorcizzanti e, per certi versi, “normalizzanti” dell’esistenza. Su tale scia, per lo più oggi soffocata da una versione consumistica, ci possiamo domandare se la morte più che essere celebrata in maniera pagana, nel nostro tempo salutista e di intrattenimento mediatico sia stata semplicemente bandita dall’ordinario e relegata come tabù negli ospedali, nei luoghi di culto o nei circoli per filosofi pessimisti. In ogni caso la “vera salute”, che il Vangelo ci insegna essere nel “di più della fede”, supera (con tutto il rispetto) i miti e le credenze popolari attingendo alla morte e risurrezione di Cristo (mai disgiunte tra loro). È questo quello che viene celebrato nel ricordo dei santi (1° novembre) e dei defunti (2 novembre), sempre in riferimento alla figura del Salvatore, l’unico al quale chiedere la buona morte e la vita eterna, non solo per sé ma per tutti.
In tale senso, anche la prassi della visita ai propri cari al cimitero non è solo ricordare le esperienze passate con il defunto che ora non c’è più, ma diventa espressione di fede e atto di misericordia spirituale. Anzi, intercedere per il “futuro celeste” dei nostri cari – nelle preghiere di suffragio e nel ricordo nella santa Messa – è tanto utile a loro quanto a noi, che nel medesimo tempo ricordiamo le nostre radici terrene per aspirare alla stessa mèta del cielo.
1. «Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12), dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. In realtà, fin dalle prime pagine della Bibbia è presente, in diversi modi, la chiamata alla santità. Così il Signore la proponeva ad Abramo: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1).
2. Non ci si deve aspettare qui un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione. Il mio umile obiettivo è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità. Perché il Signore ha scelto ciascuno di noi «per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4).
3. Nella Lettera agli Ebrei si menzionano diversi testimoni che ci incoraggiano a «[correre] con perseveranza nella corsa che ci sta davanti» (12,1). Lì si parla di Abramo, di Sara, di Mosè, di Gedeone e di altri ancora (cfr 11,1-12,3) e soprattutto siamo invitati a riconoscere che siamo «circondati da una moltitudine di testimoni» (12,1) che ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta. E tra di loro può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine (cfr 2 Tm 1,5). Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore.
4. I santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione. Lo attesta il libro dell’Apocalisse quando parla dei martiri che intercedono: «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia?”»(6,9-10). Possiamo dire che «siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. […] Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta».[1]
5. Nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli.[2] Ricordiamo, ad esempio, la beata Maria Gabriella Sagheddu, che ha offerto la sua vita per l’unità dei cristiani.
6. Non pensiamo solo a quelli già beatificati o canonizzati. Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità».[3] Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo.
7. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”.[4]
8. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri di quel popolo che «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità».[5] Pensiamo, come ci suggerisce santa Teresa Benedetta della Croce, che mediante molti di loro si costruisce la vera storia: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato».[6]
9. La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo».[7] D’altra parte, san Giovanni Paolo II ci ha ricordato che «la testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti».[8] Nella bella commemorazione ecumenica che egli volle celebrare al Colosseo durante il Giubileo del 2000, sostenne che i martiri sono «un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione».[9]
10. Tutto questo è importante. Tuttavia, quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo» (Lv 11,44; 1 Pt 1,16). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste».[10]
11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza.[11] Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo».[12] Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.[13]
12. Tra le diverse forme, voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo. E proprio anche in epoche nelle quali le donne furono maggiormente escluse, lo Spirito Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e importanti riforme nella Chiesa. Possiamo menzionare santa Ildegarda di Bingen, santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d’Avila o Santa Teresa di Lisieux. Ma mi preme ricordare tante donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza.
13. Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5).
14. Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali.[14]
15. Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli» (Is 61,10).
16. Questa santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti.
17. A volte la vita presenta sfide più grandi e attraverso queste il Signore ci invita a nuove conversioni che permettono alla sua grazia di manifestarsi meglio nella nostra esistenza «allo scopo di farci partecipi della sua santità» (Eb 12,10). Altre volte si tratta soltanto di trovare un modo più perfetto di vivere quello che già facciamo: «Ci sono delle ispirazioni che tendono soltanto ad una straordinaria perfezione degli esercizi ordinari della vita cristiana».[15] Quando il Cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuân era in carcere, rinunciò a consumarsi aspettando la liberazione. La sua scelta fu: «vivo il momento presente, colmandolo di amore»; e il modo con il quale si concretizzava questo era: «afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario».[16]
18. Così, sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1 Pt 4,10). Bene hanno insegnato i Vescovi della Nuova Zelanda che è possibile amare con l’amore incondizionato del Signore perché il Risorto condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite: «Il suo amore non ha limiti e una volta donato non si è mai tirato indietro. E’ stato incondizionato ed è rimasto fedele. Amare così non è facile perché molte volte siamo tanto deboli. Però, proprio affinché possiamo amare come Lui ci ha amato, Cristo condivide la sua stessa vita risorta con noi. In questo modo, la nostra vita dimostra la sua potenza in azione, anche in mezzo alla debolezza umana».[17]
19. Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo.
20. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore. La contemplazione di questi misteri, come proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti.[18] Perché «tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero»,[19] «tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre»,[20] «tutta la vita di Cristo è mistero di Redenzione»,[21] «tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione»,[22] e «tutto ciò che Cristo ha vissuto fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che Egli lo viva in noi».[23]
21. Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché «la santità non è altro che la carità pienamente vissuta».[24] Pertanto, «la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua».[25] Così, ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo.
22. Per riconoscere quale sia quella parola che il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui particolari, perché lì possono esserci anche errori e cadute. Non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona.[26]
23. Questo è un forte richiamo per tutti noi. Anche tu hai bisogno di concepire la totalità della tua vita come una missione. Prova a farlo ascoltando Dio nella preghiera e riconoscendo i segni che Egli ti offre. Chiedi sempre allo Spirito che cosa Gesù si attende da te in ogni momento della tua esistenza e in ogni scelta che devi fare, per discernere il posto che ciò occupa nella tua missione. E permettigli di plasmare in te quel mistero personale che possa riflettere Gesù Cristo nel mondo di oggi.
24. Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta. Il Signore la porterà a compimento anche in mezzo ai tuoi errori e ai tuoi momenti negativi, purché tu non abbandoni la via dell’amore e rimanga sempre aperto alla sua azione soprannaturale che purifica e illumina.
25. Poiché non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). La tua identificazione con Cristo e i suoi desideri implica l’impegno a costruire, con Lui, questo Regno di amore, di giustizia e di pace per tutti. Cristo stesso vuole viverlo con te, in tutti gli sforzi e le rinunce necessari, e anche nelle gioie e nella fecondità che ti potrà offrire. Pertanto non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale impegno.
26. Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione.
27. Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? Tuttavia, a volte abbiamo la tentazione di relegare la dedizione pastorale e l’impegno nel mondo a un posto secondario, come se fossero “distrazioni” nel cammino della santificazione e della pace interiore. Si dimentica che «non è che la vita abbia una missione, ma che è missione».[27]
28. Un impegno mosso dall’ansietà, dall’orgoglio, dalla necessità di apparire e di dominare, certamente non sarà santificante. La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo. Da qui il fatto che si parli spesso, ad esempio, di una spiritualità del catechista, di una spiritualità del clero diocesano, di una spiritualità del lavoro. Per la stessa ragione, in Evangelii gaudium ho voluto concludere con una spiritualità della missione, in Laudato si’ con una spiritualità ecologica e in Amoris laetitia, con una spiritualità della vita familiare.
29. Questo non implica disprezzare i momenti di quiete, solitudine e silenzio davanti a Dio. Al contrario. Perché le continue novità degli strumenti tecnologici, l’attrattiva dei viaggi, le innumerevoli offerte di consumo, a volte non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio. Tutto si riempie di parole, di piaceri epidermici e di rumori ad una velocità sempre crescente. Lì non regna la gioia ma l’insoddisfazione di chi non sa per che cosa vive. Come dunque non riconoscere che abbiamo bisogno di fermare questa corsa febbrile per recuperare uno spazio personale, a volte doloroso ma sempre fecondo, in cui si intavola il dialogo sincero con Dio? In qualche momento dovremo guardare in faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore, e non sempre si ottiene questo se uno «non viene a trovarsi sull’orlo dell’abisso, della tentazione più grave, sulla scogliera dell’abbandono, sulla cima solitaria dove si ha l’impressione di rimanere totalmente soli».[28] In questo modo troviamo le grandi motivazioni che ci spingono a vivere fino in fondo i nostri compiti.
30. Gli stessi strumenti di svago che invadono la vita attuale ci portano anche ad assolutizzare il tempo libero, nel quale possiamo utilizzare senza limiti quei dispositivi che ci offrono divertimento e piaceri effimeri.[29] Come conseguenza, è la propria missione che ne risente, è l’impegno che si indebolisce, è il servizio generoso e disponibile che inizia a ridursi. Questo snatura l’esperienza spirituale. Può essere sano un fervore spirituale che conviva con l’accidia nell’azione evangelizzatrice o nel servizio agli altri?
31. Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione.
32. Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai ad essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da Lui ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità. Questa realtà si riflette in santa Giuseppina Bakhita, che fu «resa schiava e venduta come tale alla tenera età di sette anni, soffrì molto nelle mani di padroni crudeli. Tuttavia comprese la verità profonda che Dio, e non l’uomo, è il vero padrone di ogni essere umano, di ogni vita umana. Questa esperienza divenne fonte di grande saggezza per questa umile figlia d’Africa».[30]
33. Ogni cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo. I Vescovi dell’Africa Occidentale ci hanno insegnato: «Siamo chiamati, nello spirito della nuova evangelizzazione, ad essere evangelizzati e a evangelizzare mediante la promozione di tutti i battezzati, affinché assumiate i vostri ruoli come sale della terra e luce del mondo dovunque vi troviate».[31]
34. Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia. In fondo, come diceva León Bloy, nella vita «non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi».[32]
35. In questo quadro, desidero richiamare l’attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica.[33] Vediamo queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo «ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente».[34]
36. Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti».[35]
37. Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono «un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo».[36]
38. In definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità: molto movimento alla superficie della mente, però non si muove né si commuove la profondità del pensiero. Tuttavia, riesce a soggiogare alcuni con un fascino ingannevole, perché l’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto.
39. Facciamo però attenzione. Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana. Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione. Perché è anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti. Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto.[37]
40. Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca. A volte diventa particolarmente ingannevole quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero»,[38] sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri.
41. Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio.
42. Neppure si può pretendere di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana. Questo fa parte del mistero che le mentalità gnostiche finiscono per rifiutare, perché non lo possono controllare.
43. Noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, «aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola». Certo, «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione».[39] Per l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così concreta del Vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e incarnato con una Unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della nostra storia.
44. In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, «non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano».[40]
45. Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli».[41] In realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile».[42]
46. Quando san Francesco d’Assisi vedeva che alcuni dei suoi discepoli insegnavano la dottrina, volle evitare la tentazione dello gnosticismo. Quindi scrisse così a Sant’Antonio di Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché, in tale occupazione, tu non estingua lo spirito di orazione e di devozione».[43] Egli riconosceva la tentazione di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo. San Bonaventura, da parte sua, avvertiva che la vera saggezza cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo: «La più grande saggezza che possa esistere consiste nel dispensare fruttuosamente ciò che si possiede, e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato. […] Per questo, come la misericordia è amica della saggezza, così l’avarizia le è nemica».[44] «Vi sono attività che, unendosi alla contemplazione, non la impediscono, bensì la favoriscono, come le opere di misericordia e di pietà».[45]
47. Lo gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato.
48. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto «dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16) e che Egli «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19).
49. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico».[46] Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto»[47] e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia.[48] In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»;[49] o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi».[50]
50. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita.[51] La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo.[52] Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo.
51. Quando Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7). E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza, potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la retta via (cfr Sal 139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa»(Sal 84,11). In Lui veniamo santificati.
52. La Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa. I Padri della Chiesa, anche prima di sant’Agostino, hanno espresso con chiarezza questa convinzione primaria. San Giovanni Crisostomo affermava che Dio versa in noi la fonte stessa di tutti i doni «prima che noi siamo entrati nel combattimento».[53] San Basilio Magno rimarcava che il fedele si gloria solo in Dio, perché «riconosce di essere privo della vera giustizia e giustificato unicamente mediante la fede in Cristo».[54]
53. Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: «Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo».[55] Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento dogmatico: «Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)».[56]
54. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il dono della grazia «supera le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo»,[57] e che «nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata».[58] La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che «quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata».[59] I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi».[60]
55. Questa è una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione. Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa. Non potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di «riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà».[61]
56. Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più.[62] La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la crescita nella vita di grazia, perché «se non avessi la carità, non sarei nulla» (1 Cor 13,2).
57. Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo.[63]
58. Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità, ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati… o corrotti.
59. Senza renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca. San Tommaso d’Aquino ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione «per non rendere gravosa la vita ai fedeli», perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù.[64]
60. Al fine di evitare questo, è bene ricordare spesso che esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo chiamati a curare attentamente la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge […] pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8.10). Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
61. Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!».[65]
62. Che il Signore liberi la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo che la complicano e la fermano nel suo cammino verso la santità! Queste deviazioni si esprimono in forme diverse, secondo il proprio temperamento e le proprie caratteristiche. Per questo esorto ciascuno a domandarsi e a discernere davanti a Dio in che modo si possano rendere manifeste nella sua vita.
63. Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini.[66] In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita.
64. La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine.
65. Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio.
66. Torniamo ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro. Permettiamogli di colpirci con le sue parole, di provocarci, di richiamarci a un reale cambiamento di vita. Altrimenti la santità sarà solo parole. Ricordiamo ora le singole Beatitudini nella versione del vangelo di Matteo (cfr 5,3-12).[67]
67. Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola. Gesù stesso ce l’ha detto nella parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno (cfr Lc 12,16-21).
68. Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità.
69. Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto».[68]
70. Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero» (2 Cor 8,9).
71. È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi al di sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme: «Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9).
72. Egli disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili. Per santa Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze».[69]
73. Paolo menziona la mitezza come un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). Propone che, se qualche volta ci preoccupano le cattive azioni del fratello, ci avviciniamo per correggerle, ma «con spirito di dolcezza» (Gal 6,1), e ricorda: «e tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (ibid.). Anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza (cfr 1 Pt 3,16), e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza (cfr 2 Tm 2,25). Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina.
74. La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11). Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
75. Il mondo ci propone il contrario: il divertimento, il godimento, la distrazione, lo svago, e ci dice che questo è ciò che rende buona la vita. Il mondano ignora, guarda dall’altra parte quando ci sono problemi di malattia o di dolore in famiglia o intorno a lui. Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce.
76. La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore, è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice.[70] Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).
77. «Fame e sete» sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari e sono legate all’istinto di sopravvivenza. Ci sono persone che con tale intensità aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte. Gesù dice che costoro saranno saziati, giacché presto o tardi la giustizia arriva, e noi possiamo collaborare perché sia possibile, anche se non sempre vediamo i risultati di questo impegno.
78. Ma la giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio. E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita. Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di salire sul carro del vincitore. Questo non ha nulla a che vedere con la fame e la sete di giustizia che Gesù elogia.
79. Tale giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i deboli. Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17).
Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità.
80. La misericordia ha due aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche perdonare, comprendere. Matteo riassume questo in una regola d’oro: «Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (7,12). Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare «in ogni caso»,[71] in modo speciale quando qualcuno «talvolta si trova ad affrontare situazioni difficili che rendono incerto il giudizio morale».[72]
81. Dare e perdonare è tentare di riprodurre nella nostra vita un piccolo riflesso della perfezione di Dio, che dona e perdona in modo sovrabbondante. Per questo motivo nel vangelo di Luca non troviamo «siate perfetti» (Mt 5,48), ma «siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati; date e vi sarà dato» (6,36-38). E dopo Luca aggiunge qualcosa che non dovremmo trascurare: «Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (6,38). La misura che usiamo per comprendere e perdonare verrà applicata a noi per perdonarci. La misura che applichiamo per dare, sarà applicata a noi nel cielo per ricompensarci. Non ci conviene dimenticarlo.
82. Gesù non dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno «settanta volte sette» (Mt 18,22). Occorre pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati guardati con compassione divina. Se ci accostiamo sinceramente al Signore e affiniamo l’udito, probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18,33).
Guardare e agire con misericordia, questo è santità.
83. Questa beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia, perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo. Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel cuore (cfr Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge (cfr Ger 31,33). In definitiva, vuole darci un cuore nuovo (cfr Ez 36,26).
84. «Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore» (Pr 4,23). Nulla di macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore. Egli «fugge ogni inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati» (Sap 1,5). Il Padre, che «vede nel segreto» (Mt 6,6), riconosce ciò che non è pulito, vale a dire ciò che non è sincero, ma solo scorza e apparenza, come pure il Figlio sa «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25).
85. È vero che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,3). Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende impuro l’uomo (cfr 15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le false testimonianze, e così via (cfr 15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono.
86. Quando il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso noi vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1 Cor 13,12), ma nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere «faccia a faccia» (ibid.). Gesù promette che quelli che hanno un cuore puro «vedranno Dio».
Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità.
87. Questa beatitudine ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono. Per noi è molto comune essere causa di conflitti o almeno di incomprensioni. Per esempio, quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo. E se riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione. Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace. Questa gente è piuttosto nemica della pace e in nessun modo beata.[73]
88. I pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale. A coloro che si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa: «Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli chiedeva ai discepoli che quando fossero giunti in una casa dicessero: «Pace a questa casa!» (Lc 10,5). La Parola di Dio sollecita ogni credente a cercare la pace insieme agli altri (cfr 2 Tm 2,22), perché «per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18). E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, «cerchiamo ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), perché l’unità è superiore al conflitto.[74]
89. Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di «un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice»[75], né di un progetto «di pochi indirizzato a pochi».[76] Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[77] Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza.
90. Gesù stesso sottolinea che questo cammino va controcorrente fino al punto da farci diventare persone che con la propria vita mettono in discussione la società, persone che danno fastidio. Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché «chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25).
91. Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi. San Giovanni Paolo II diceva che «è alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione [del] dono [di sé] e il costituirsi [della] solidarietà interumana»[78]. In una tale società alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica, economica, culturale e persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo umano e sociale, vivere le Beatitudini diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata.
92. La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione. Ricordiamo che, quando il Nuovo Testamento parla delle sofferenze che bisogna sopportare per il Vangelo, si riferisce precisamente alle persecuzioni (cfr At 5,41; Fil 1,29; Col 1,24; 2 Tm 1,12; 1 Pt 2,20; 4,14-16; Ap 2,10).
93. Parliamo però delle persecuzioni inevitabili, non di quelle che ci potremmo procurare noi stessi con un modo sbagliato di trattare gli altri. Un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti. Non erano così gli Apostoli di Cristo. Il libro degli Atti racconta insistentemente che essi godevano della simpatia «di tutto il popolo» (2,47; cfr 4,21.33; 5,13), mentre alcune autorità li ricercavano e li perseguitavano (cfr4,1-3; 5,17-18).
94. Le persecuzioni non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità. Gesù dice che ci sarà beatitudine quando «mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11). Altre volte si tratta di scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di farci passare per persone ridicole.
Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità.
95. Nel capitolo 25 del vangelo di Matteo (vv. 31-46), Gesù torna a soffermarsi su una di queste beatitudini, quella che dichiara beati i misericordiosi. Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,35-36).
96. Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi».[79] Il testo di Matteo 25,35-36 «non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo».[80] In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi.
97. Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del Vangelo».[81]
98. Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?[82]
99. Questo implica per i cristiani una sana e permanente insoddisfazione. Anche se dare sollievo a una sola persona già giustificherebbe tutti i nostri sforzi, ciò non ci basta. I Vescovi del Canada lo hanno affermato chiaramente mostrando che, negli insegnamenti biblici riguardo al Giubileo, per esempio, non si tratta solo di realizzare alcune buone azioni, bensì di cercare un cambiamento sociale: «Affinché anche le generazioni a venire fossero liberate, evidentemente l’obiettivo doveva essere il ripristino di sistemi sociali ed economici giusti perché non potesse più esserci esclusione».[83]
100. Purtroppo a volte le ideologie ci portano a due errori nocivi. Da una parte, quello dei cristiani che separano queste esigenze del Vangelo dalla propria relazione personale con il Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia. Così si trasforma il cristianesimo in una sorta di ONG, privandolo di quella luminosa spiritualità che così bene hanno vissuto e manifestato san Francesco d’Assisi, san Vincenzo de Paoli, santa Teresa di Calcutta e molti altri. A questi grandi santi né la preghiera, né l’amore di Dio, né la lettura del Vangelo diminuirono la passione e l’efficacia della loro dedizione al prossimo, ma tutto il contrario.
101. Nocivo e ideologico è anche l’errore di quanti vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto.[84] Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente.
102. Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)? San Benedetto lo aveva accettato senza riserve e, anche se ciò avrebbe potuto “complicare” la vita dei monaci, stabilì che tutti gli ospiti che si presentassero al monastero li si accogliesse «come Cristo»,[85] esprimendolo perfino con gesti di adorazione,[86] e che i poveri pellegrini li si trattasse «con la massima cura e sollecitudine».[87]
103. Qualcosa di simile prospetta l’Antico Testamento quando dice: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). Pertanto, non si tratta dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero. Anche noi, nel contesto attuale, siamo chiamati a vivere il cammino di illuminazione spirituale che ci presentava il profeta Isaia quando si domandava che cosa è gradito a Dio: «Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora» (58,7-8).
104. Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.
105. Per la stessa ragione, il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia. Perché «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli».[88] Essa è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa».[89] Desidero sottolineare ancora una volta che, benché la misericordia non escluda la giustizia e la verità, «anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio».[90] Essa «è la chiave del cielo».[91]
106. Non posso tralasciare di ricordare quell’interrogativo che si poneva san Tommaso d’Aquino quando si domandava quali sono le nostre azioni più grandi, quali sono le opere esterne che meglio manifestano il nostro amore per Dio. Egli rispose senza dubitare che sono le opere di misericordia verso il prossimo,[92] più che gli atti di culto: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: Egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo».[93]
107. Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia. È ciò che aveva capito molto bene santa Teresa di Calcutta: «Sì, ho molte debolezze umane, molte miserie umane. […] Ma Lui si abbassa e si serve di noi, di te e di me, per essere suo amore e sua compassione nel mondo, nonostante i nostri peccati, nonostante le nostre miserie e i nostri difetti. Lui dipende da noi per amare il mondo e dimostrargli quanto lo ama. Se ci occupiamo troppo di noi stessi, non ci resterà tempo per gli altri».[94]
108. Il consumismo edonista può giocarci un brutto tiro, perché nell’ossessione di divertirsi finiamo con l’essere eccessivamente concentrati su noi stessi, sui nostri diritti e nell’esasperazione di avere tempo libero per godersi la vita. Sarà difficile che ci impegniamo e dedichiamo energie a dare una mano a chi sta male se non coltiviamo una certa austerità, se non lottiamo contro questa febbre che ci impone la società dei consumi per venderci cose, e che alla fine ci trasforma in poveri insoddisfatti che vogliono avere tutto e provare tutto. Anche il consumo di informazione superficiale e le forme di comunicazione rapida e virtuale possono essere un fattore di stordimento che si porta via tutto il nostro tempo e ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli. In mezzo a questa voragine attuale, il Vangelo risuona nuovamente per offrirci una vita diversa, più sana e più felice.
* * *
109. La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana. Raccomando vivamente di rileggere spesso questi grandi testi biblici, di ricordarli, di pregare con essi e tentare di incarnarli. Ci faranno bene, ci renderanno genuinamente felici.
110. All’interno del grande quadro della santità che ci propongono le Beatitudini e Matteo 25,31-46, vorrei raccogliere alcune caratteristiche o espressioni spirituali che, a mio giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore ci chiama. Non mi fermerò a spiegare i mezzi di santificazione che già conosciamo: i diversi metodi di preghiera, i preziosi sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, l’offerta dei sacrifici, le varie forme di devozione, la direzione spirituale, e tanti altri. Mi riferirò solo ad alcuni aspetti della chiamata alla santità che spero risuonino in maniera speciale.
111. Queste caratteristiche che voglio evidenziare non sono tutte quelle che possono costituire un modello di santità, ma sono cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che considero di particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi. In essa si manifestano: l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale.
112. La prima di queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel bene. E’ la fedeltà dell’amore, perché chi si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pistós), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni immediate.
113. San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza, perché Dio stesso «è lento all’ira, ma grande nella potenza» (Na 1,3). La Parola di Dio ci ammonisce: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31).
114. E’ necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Quando ci sono circostanze che ci opprimono, possiamo sempre ricorrere all’ancora della supplica, che ci conduce a stare nuovamente nelle mani di Dio e vicino alla fonte della pace: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori» (Fil 4,6-7).
115. Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6).
116. La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3).
117. Non ci fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza.[95] San Giovanni della Croce proponeva un’altra cosa: «Sii più inclinato ad essere ammaestrato da tutti che a volere ammaestrare chi è inferiore a tutti».[96] E aggiungeva un consiglio per tenere lontano il demonio: «Rallegrandoti del bene degli altri come se fosse tuo e cercando sinceramente che questi siano preferiti a te in tutte le cose. In tal modo vincerai il male con il bene, caccerai lontano da te il demonio e ne ricaverai gioia di spirito. Cerca di fare ciò specialmente con coloro i quali meno ti sono simpatici. Sappi che se non ti eserciterai in questo campo, non giungerai alla vera carità né farai profitto in essa».[97]
118. L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte ineludibile dell’imitazione di Cristo: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2,21). Egli a sua volta manifesta l’umiltà del Padre, che si umilia per camminare con il suo popolo, che sopporta le sue infedeltà e mormorazioni (cfr Es 34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36). Per questa ragione gli Apostoli, dopo l’umiliazione, erano «lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41).
119. Non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: «Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (1 Pt 2,20). Non è camminare a capo chino, parlare poco o sfuggire dalla società. A volte, proprio perché è libero dall’egocentrismo, qualcuno può avere il coraggio di discutere amabilmente, di reclamare giustizia o di difendere i deboli davanti ai potenti, benché questo gli procuri conseguenze negative per la sua immagine.
120. Non dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza una simile proposta. E’ una grazia che abbiamo bisogno di supplicare: “Signore, quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te, sulla tua via”.
121. Tale atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza interiore e resistere, perseverare nel bene «anche se vado per una valle oscura» (Sal 23,4) o anche «se contro di me si accampa un esercito» (Sal 27,3). Saldi nel Signore, la Roccia, possiamo cantare: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare» (Sal 4,9). In definitiva, Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14) ed è venuto a «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Egli comunicò a santa Faustina Kowalska che «l’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia».[98] Non cadiamo dunque nella tentazione di cercare la sicurezza interiore nei successi, nei piaceri vuoti, nel possedere, nel dominio sugli altri o nell’immagine sociale: «Vi do la mia pace», ma «non come la dà il mondo» (Gv 14,27).
122. Quanto detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia».[99] Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4).
123. I profeti annunciavano il tempo di Gesù, che noi stiamo vivendo, come una rivelazione della gioia: «Canta ed esulta!» (Is 12,6); «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme» (Is 40,9); «Gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13); «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso» (Zc 9,9). E non dimentichiamo l’esortazione di Neemia: «Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (8,10).
124. Maria, che ha saputo scoprire la novità portata da Gesù, cantava: «Il mio spirito esulta» (Lc 1,47) e Gesù stesso «esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Quando Lui passava, «la folla intera esultava» (Lc 13,17). Dopo la sua risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava «una grande gioia» (At 8,8). A noi Gesù dà una sicurezza: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. […] Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20.22). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
125. Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto».[100] E’ una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani.
126. Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (Qo 11,10). E’ così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio.[101]
127. Il suo amore paterno ci invita: «Figlio, […] trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Ci vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29). In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). E’ quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto.
128. Non sto parlando della gioia consumista e individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia. Mi riferisco piuttosto a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15). «Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti» (2 Cor 13,9). Invece, se «ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia».[102]
129. Nello stesso tempo, la santità è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste parole ci permettono di camminare e servire con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per i fratelli (cfr At 4,29; 9,28; 28,31; 2 Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6; 10,19).
130. Il beato Paolo VI menzionava tra gli ostacoli dell’evangelizzazione proprio la carenza di parresia: «la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro».[103] Quante volte ci sentiamo strattonati per fermarci sulla comoda riva! Ma il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque più profonde (cfr Lc 5,4). Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. Potessimo sentirci spinti dal suo amore (cfr 2 Cor 5,14) e dire con san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16).
131. Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle sue mani e ci lanci in missione. Siamo fragili, ma portatori di un tesoro che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo accolgono. L’audacia e il coraggio apostolico sono costitutivi della missione.
132. La parresia è sigillo dello Spirito, testimonianza dell’autenticità dell’annuncio. E’ felice sicurezza che ci porta a gloriarci del Vangelo che annunciamo, è fiducia irremovibile nella fedeltà del Testimone fedele, che ci dà la certezza che nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39).
133. Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine ha odore di umidità e ci fa ammalare. Quando gli Apostoli provarono la tentazione di lasciarsi paralizzare dai timori e dai pericoli, si misero a pregare insieme chiedendo la parresia: «E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola» (At 4,29). E la risposta fu che «quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31).
134. Come il profeta Giona, sempre portiamo latente in noi la tentazione di fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme. Talvolta facciamo fatica ad uscire da un territorio che ci era conosciuto e a portata di mano. Tuttavia, le difficoltà possono essere come la tempesta, la balena, il verme che fece seccare il ricino di Giona, o il vento e il sole che gli scottarono la testa; e come fu per lui, possono avere la funzione di farci tornare a quel Dio che è tenerezza e che vuole condurci a un’itineranza costante e rinnovatrice.
135. Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (cfr Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì.
136. E’ vero che bisogna aprire la porta a Gesù Cristo, perché Lui bussa e chiama (cfr Ap 3,20). Ma a volte mi domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra autoreferenzialità, Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo uscire. Nel Vangelo vediamo come Gesù «andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio» (Lc 8,1). Anche dopo la risurrezione, quando i discepoli partirono in ogni direzione, «il Signore agiva insieme con loro» (Mc 16,20). Questa è la dinamica che scaturisce dal vero incontro.
137. L’abitudine ci seduce e ci dice che non ha senso cercare di cambiare le cose, che non possiamo far nulla di fronte a questa situazione, che è sempre stato così e che tuttavia siamo andati avanti. Per l’abitudine noi non affrontiamo più il male e permettiamo che le cose “vadano come vanno”, o come alcuni hanno deciso che debbano andare. Ma dunque lasciamo che il Signore venga a risvegliarci, a dare uno scossone al nostro torpore, a liberarci dall’inerzia. Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli occhi e gli orecchi, e soprattutto il cuore, per lasciarci smuovere da ciò che succede intorno a noi e dal grido della Parola viva ed efficace del Risorto.
138. Ci mette in moto l’esempio di tanti sacerdoti, religiose, religiosi e laici che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita e certamente a prezzo della loro comodità. La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante.
139. Chiediamo al Signore la grazia di non esitare quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti; chiediamo il coraggio apostolico di comunicare il Vangelo agli altri e di rinunciare a fare della nostra vita un museo di ricordi. In ogni situazione, lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto. In tal modo la Chiesa, invece di stancarsi, potrà andare avanti accogliendo le sorprese del Signore.
140. E’ molto difficile lottare contro la propria concupiscenza e contro le insidie e tentazioni del demonio e del mondo egoista se siamo isolati. E’ tale il bombardamento che ci seduce che, se siamo troppo soli, facilmente perdiamo il senso della realtà, la chiarezza interiore, e soccombiamo.
141. La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri. Pensiamo, ad esempio, ai sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, alle sette beate religiose del primo monastero della Visitazione di Madrid, a san Paolo Miki e compagni martiri in Giappone, a sant’Andrea Taegon e compagni martiri in Corea, ai santi Rocco Gonzáles e Alfonso Rodríguez e compagni martiri in Sud America. Ricordiamo anche la recente testimonianza dei monaci trappisti di Tibhirine (Algeria), che si sono preparati insieme al martirio. Allo stesso modo ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù».[104]
142. La comunità è chiamata a creare quello «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto».[105] Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria. Questo dà luogo anche ad autentiche esperienze mistiche vissute in comunità, come fu il caso di san Benedetto e santa Scolastica, o di quel sublime incontro spirituale che vissero insieme sant’Agostino e sua madre santa Monica: «All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava […]. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te […]. E mentre parlavamo e anelavamo verso di lei [la Sapienza], la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente [… così che] la vita eterna [somiglierebbe] a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare».[106]
143. Ma queste esperienze non sono la cosa più frequente, né la più importante. La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo capitava nella comunità santa che formarono Gesù, Maria e Giuseppe, dove si è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della comunione trinitaria. Ed è anche ciò che succedeva nella vita comunitaria che Gesù condusse con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo.
144. Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa. Il piccolo particolare che mancava una pecora. Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine. Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda. Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano. Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba.
145. La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore,[107] dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre. A volte, per un dono dell’amore del Signore, in mezzo a questi piccoli particolari ci vengono regalate consolanti esperienze di Dio: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, […] a un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi […]. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano talmente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità».[108]
146. Contro la tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri, il nostro cammino di santificazione non può cessare di identificarci con quel desiderio di Gesù: che «tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te» (Gv 17,21).
147. Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. E’ uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi.
148. San Giovanni della Croce raccomandava di «procurare di stare sempre alla presenza di Dio, sia essa reale o immaginaria o unitiva, per quanto lo comporti l’attività».[109] In fondo è il desiderio di Dio che non può fare a meno di manifestarsi in qualche modo attraverso la nostra vita quotidiana: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore».[110]
149. Ciò nonostante, perché questo sia possibile, sono necessari anche alcuni momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. Per santa Teresa d’Avila la preghiera è «un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d’essere amati».[111] Vorrei insistere sul fatto che questo non è solo per pochi privilegiati, ma per tutti, perché «abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata».[112] La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio.
150. In tale silenzio è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il Signore ci propone. Diversamente, tutte le nostre decisioni potranno essere soltanto “decorazioni” che, invece di esaltare il Vangelo nella nostra vita, lo ricopriranno e lo soffocheranno. Per ogni discepolo è indispensabile stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente.
151. Ricordiamo che «è la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo».[113] mDunque mi permetto di chiederti: ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole? E se davanti al volto di Cristo ancora non riesci a lasciarti guarire e trasformare, allora penetra nelle viscere del Signore, entra nelle sue piaghe, perché lì ha sede la misericordia divina.[114]
152. Prego tuttavia che non intendiamo il silenzio orante come un’evasione che nega il mondo intorno a noi. Il “pellegrino russo”, che camminava in preghiera continua, racconta che quella preghiera non lo separava dalla realtà esterna: «Se mi capitava di incontrare qualcuno, tutte quelle persone senza distinzione mi parevano altrettanto amabili che se fossero state della mia famiglia. […] Non solo sentivo questa luce dentro la mia anima, ma anche il mondo esterno mi appariva bellissimo e incantevole».[115]
153. Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera è intessuta di ricordi. Non solo del ricordo della Parola rivelata, bensì anche della propria vita, della vita degli altri, di ciò che il Signore ha fatto nella sua Chiesa. E’ la memoria grata di cui pure parla sant’Ignazio di Loyola nella sua «Contemplazione per raggiungere l’amore»,[116] quando ci chiede di riportare alla memoria tutti i benefici che abbiamo ricevuto dal Signore. Guarda la tua storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono.
154. La supplica è espressione del cuore che confida in Dio, che sa che non può farcela da solo. Nella vita del popolo fedele di Dio troviamo molte suppliche piene di tenerezza credente e di profonda fiducia. Non togliamo valore alla preghiera di domanda, che tante volte ci rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti lottando con speranza. La supplica di intercessione ha un valore particolare, perché è un atto di fiducia in Dio e insieme un’espressione di amore al prossimo. Alcuni, per pregiudizi spiritualisti, pensano che la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare. Al contrario, la realtà è che la preghiera sarà più gradita a Dio e più santificatrice se in essa, con l’intercessione, cerchiamo di vivere il duplice comandamento che ci ha lasciato Gesù. L’intercessione esprime l’impegno fraterno con gli altri quando in essa siamo capaci di includere la vita degli altri, le loro angosce più sconvolgenti e i loro sogni più belli. Di chi si dedica generosamente a intercedere si può dire con le parole bibliche: «Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo» (2 Mac 15,14).
155. Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione, o di cantare a Lui con lode festosa. Così esprimiamo ciò che viveva il beato Charles de Foucauld quando disse: «Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui».[117] Anche nella vita del popolo pellegrinante ci sono molti gesti semplici di pura adorazione, come ad esempio quando «lo sguardo del pellegrino si posa su un’immagine che simboleggia la tenerezza e la vicinanza di Dio. L’amore si ferma, contempla il mistero, lo gusta in silenzio».[118]
156. La lettura orante della Parola di Dio, più dolce del miele (cfr Sal 119,103) e «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), ci permette di rimanere in ascolto del Maestro affinché sia lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr Sal 119,105). Come ci hanno ben ricordato i Vescovi dell’India, «la devozione alla Parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita».[119]
157. L’incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l’unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante.
158. La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita.
159. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).
160. Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio.[120] Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini.
161. Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea.[121] Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8).
162. La Parola di Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità. Per il combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: «Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?».[122]
163. In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta, perché «chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male».[123]
164. Il cammino della santità è una fonte di pace e di gioia che lo Spirito ci dona, ma nello stesso tempo richiede che stiamo con “le lampade accese” (cfr Lc 12,35) e rimaniamo attenti: «Astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,22); «vegliate» (cfr Mc 13,35; Mt 24,42); non addormentiamoci (cfr 1 Ts 5,6). Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi.
165. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria. In un passo Gesù ci ha avvertito circa questa tentazione insidiosa che ci fa scivolare verso la corruzione: parla di una persona liberata dal demonio che, pensando che la sua vita fosse ormai pulita, finì posseduta da altri sette spiriti maligni (cfr Lc 11,24-26). Un altro testo biblico usa un’immagine forte: «Il cane è tornato al suo vomito» (2 Pt 2,22; cfr Pro 26,11).
166. Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento, che non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un dono che bisogna chiedere. Se lo chiediamo con fiducia allo Spirito Santo, e allo stesso tempo ci sforziamo di coltivarlo con la preghiera, la riflessione, la lettura e il buon consiglio, sicuramente potremo crescere in questa capacità spirituale.
167. Al giorno d’oggi l’attitudine al discernimento è diventata particolarmente necessaria. Infatti la vita attuale offre enormi possibilità di azione e di distrazione e il mondo le presenta come se fossero tutte valide e buone. Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a uno zapping costante. È possibile navigare su due o tre schermi simultaneamente e interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento.
168. Questo risulta particolarmente importante quando compare una novità nella propria vita, e dunque bisogna discernere se sia il vino nuovo che viene da Dio o una novità ingannatrice dello spirito del mondo o dello spirito del diavolo. In altre occasioni succede il contrario, perché le forze del male ci inducono a non cambiare, a lasciare le cose come stanno, a scegliere l’immobilismo e la rigidità, e allora impediamo che agisca il soffio dello Spirito. Siamo liberi, con la libertà di Gesù, ma Egli ci chiama a esaminare quello che c’è dentro di noi – desideri, angustie, timori, attese – e quello che accade fuori di noi – i “segni dei tempi” – per riconoscere le vie della libertà piena: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21).
169. Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane.[124] Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi. Pertanto chiedo a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame di coscienza. Al tempo stesso, il discernimento ci conduce a riconoscere i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore, perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni.
170. È vero che il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche o morali. Però le trascende. E neppure gli bastano le sagge norme della Chiesa. Ricordiamo sempre che il discernimento è una grazia. Anche se include la ragione e la prudenza, le supera, perché si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti. Non è in gioco solo un benessere temporale, né la soddisfazione di fare qualcosa di utile, e nemmeno il desiderio di avere la coscienza tranquilla. È in gioco il senso della mia vita davanti al Padre che mi conosce e mi ama, quello vero, per il quale io possa dare la mia esistenza, e che nessuno conosce meglio di Lui. Il discernimento, insomma, conduce alla fonte stessa della vita che non muore, cioè «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Non richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti, e il Padre si manifesta con piacere agli umili (cfr Mt 11,25).
171. Anche se il Signore ci parla in modi assai diversi durante il nostro lavoro, attraverso gli altri e in ogni momento, non è possibile prescindere dal silenzio della preghiera prolungata per percepire meglio quel linguaggio, per interpretare il significato reale delle ispirazioni che pensiamo di aver ricevuto, per calmare le ansie e ricomporre l’insieme della propria esistenza alla luce di Dio. Così possiamo permettere la nascita di quella nuova sintesi che scaturisce dalla vita illuminata dallo Spirito.
172. Tuttavia potrebbe capitare che nella preghiera stessa evitiamo di disporci al confronto con la libertà dello Spirito, che agisce come vuole. Occorre ricordare che il discernimento orante richiede di partire da una disposizione ad ascoltare: il Signore, gli altri, la realtà stessa che sempre ci interpella in nuovi modi. Solamente chi è disposto ad ascoltare ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che lo porta a una vita migliore, perché non basta che tutto vada bene, che tutto sia tranquillo. Può essere che Dio ci stia offrendo qualcosa di più, e nella nostra pigra distrazione non lo riconosciamo.
173. Tale atteggiamento di ascolto implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza. Non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato, poiché le medesime soluzioni non sono valide in tutte le circostanze e quello che era utile in un contesto può non esserlo in un altro. Il discernimento degli spiriti ci libera dalla rigidità, che non ha spazio davanti al perenne oggi del Risorto. Unicamente lo Spirito sa penetrare nelle pieghe più oscure della realtà e tenere conto di tutte le sue sfumature, perché emerga con altra luce la novità del Vangelo.
174. Una condizione essenziale per il progresso nel discernimento è educarsi alla pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono mai i nostri. Lui non fa “scendere fuoco sopra gli infedeli” (cfr Lc 9,54), né permette agli zelanti di “raccogliere la zizzania” che cresce insieme al grano (cfr Mt 13,29). Inoltre si richiede generosità, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica».[125] Se uno assume questa dinamica, allora non lascia anestetizzare la propria coscienza e si apre generosamente al discernimento.
175. Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli.
* * *
176. Desidero che Maria coroni queste riflessioni, perché lei ha vissuto come nessun altro le Beatitudini di Gesù. Ella è colei che trasaliva di gioia alla presenza di Dio, colei che conservava tutto nel suo cuore e che si è lasciata attraversare dalla spada. È la santa tra i santi, la più benedetta, colei che ci mostra la via della santità e ci accompagna. Lei non accetta che quando cadiamo rimaniamo a terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica. La Madre non ha bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora: «Ave o Maria…».
177. Spero che queste pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità. Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, dell’anno 2018, sesto del mio Pontificato.
[2] In ogni caso suppone che vi sia fama di santità e un esercizio, almeno in grado ordinario, delle virtù cristiane: cfr Lett. ap. in forma di Motu proprio Maiorem hac dilectionem (11 luglio 2017), art. 2c: L’Osservatore Romano, 12 luglio 2017, p. 8.
[26] Cfr Hans U. Von Balthasar, “Teología y santidad”, Communio VI/87, 486-493.
[27] Xavier Zubiri, Naturaleza, historia, Dios, Madrid 19993, 427.
[28] Carlo M. Martini, Le confessioni di Pietro, Cinisello Balsamo 2017, 69.
[29] Bisogna distinguere questo svago superficiale da una sana cultura dell’ozio, che ci apre all’altro e alla realtà con uno spirito disponibile e contemplativo.
[37] Come insegna san Bonaventura, «è necessario che si abbandonino tutte le operazioni dell’intelletto, e che l’apice dell’affetto sia per intero trasportato e trasformato in Dio. […] Siccome ad ottenere questo, nulla può la natura e poco la scienza, bisogna dare poco peso all’indagine e molto all’unzione spirituale; poco alla lingua e moltissimo alla gioia interiore; poco alle parole e ai libri, e tutto al dono di Dio, cioè allo Spirito Santo; poco o niente alla creatura, e tutto all’essenza creatrice, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» (Itinerario della mente in Dio, VII, 4-5).
[47] Cfr S. Bonaventura, Le sei ali dei Serafini, 3, 8: «Non omnes omnia possunt». Va inteso nella linea del Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735.
[48] Cfr S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, 109, 9, ad 1: «Adesso, tuttavia, la grazia è in certo qual modo imperfetta perché – come si è detto – non risana l’uomo totalmente».
[52] Nella comprensione della fede cristiana, la grazia è preveniente, concomitante e susseguente ogni nostro agire (cfr Conc. Ecum. di Trento, Sess. VI, Decr. de iustificatione, cap. 5: DH, 1525).
[53] Omelie sulla Lettera ai Romani, 9, 11: PG 60, 470.
[59] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, 114, 5.
[60] S. Teresa di Gesù Bambino, “Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio” (Preghiere, 6): Opere complete, Roma 1997, 943.
[61] Lucio Gera, “Sobre el misterio del pobre”, in P. Grelot-L. Gera-A. Dumas, El Pobre, Buenos Aires 1962, 103.
[62] Questa è, in definitiva, la dottrina cattolica circa il “merito” successivo alla giustificazione: si tratta della cooperazione del giustificato per la crescita della vita di grazia (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2010). Ma questa cooperazione in nessun modo fa sì che la giustificazione stessa e l’amicizia con Dio diventino oggetto di un merito umano.
[69]Manoscritto C, 12r: Opere complete, Roma 1997, 247.
[70] Dai tempi patristici la Chiesa apprezza il dono delle lacrime, come si riscontra anche nella bella preghiera “Ad petendam compunctionem cordis”: «O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, fa’ sgorgare dalla durezza del nostro cuore lacrime di pentimento, affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per tua misericordia, la loro remissione» (Missale Romanum, ed. typ. 1962, p. [110]).
[73] La diffamazione e la calunnia sono come un atto terroristico: si lancia la bomba, si distrugge, e l’attentatore se ne va felice e tranquillo. Questo è molto diverso dalla nobiltà di chi si avvicina per parlare faccia a faccia, con serena sincerità, pensando al bene dell’altro.
[74] In certe occasioni può essere necessario parlare delle difficoltà di qualche fratello. In questi casi può succedere che si trasmetta un’interpretazione invece di un fatto obiettivo. La passione deforma la realtà concreta del fatto, lo trasforma in interpretazione e alla fine la trasmette carica di soggettività. Così si distrugge la realtà e non si rispetta la verità dell’altro.
[82] Ricordiamo la reazione del buon samaritano davanti all’uomo che i briganti avevano lasciato mezzo morto sul bordo della strada (cfr Lc 10,30-37).
[83] Conferenza Canadese dei Vescovi Cattolici – Commissione per gli Affari Sociali, Lettera aperta ai membri del Parlamento, The Common Good or Exclusion: A Choice for Canadians (1 febbraio 2001), 9.
[84] La V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, secondo il costante magistero della Chiesa, ha insegnato che l’essere umano «è sempre sacro, dal suo concepimento, in tutte le fasi della sua esistenza, fino alla sua morte naturale e dopo la morte», e che la sua vita deve essere protetta «dal concepimento, in tutte le sue fasi, fino alla morte naturale» (Documento di Aparecida, 29 giugno 2007, 388; 464).
[95] Ci sono parecchie forme di bullismo che, pur apparendo eleganti e rispettose e addirittura molto spirituali, provocano tanta sofferenza nell’autostima degli altri.
[101] Raccomando di recitare la preghiera attribuita a san Tommaso Moro: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia».
[103] Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 80: AAS 68 (1976), 73. E’ interessante osservare che in questo testo il beato Paolo VI lega intimamente la gioia alla parresia. Così come lamenta «la mancanza di gioia e di speranza», esalta la «dolce e confortante gioia di evangelizzare» che è unita a uno «slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere», affinché il mondo non riceva il Vangelo «da evangelizzatori tristi e scoraggiati». Durante l’Anno Santo del 1975, lo stesso Paolo VI dedicò alla gioia l’Esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975): AAS 67 (1975), 289-322.
[107] Ricordo in modo speciale le tre parole-chiave “permesso, grazie, scusa”, perché «le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno» (Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 19 marzo 2016, 133: AAS 108 [2016], 363).
[108] S. Teresa di Gesù Bambino, Manoscritto C, 29 v-30r: Opere complete, Roma 1997, 269.
[109] Gradi di perfezione, 2: Opere, Roma 19794, 1079.
[110] Id., Consigli per raggiungere la perfezione, 9: Opere, cit., 1078.
[111]Vita di S. Teresa di Gesù scritta da lei stessa, 8, 5: Opere, Roma 1981, 95.
[112] S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Orientale lumen (2 maggio 1995), 16: AAS 87 (1995), 762.
[121] Cfr B. Paolo VI, Catechesi nell’Udienza generale del 15 novembre 1972: Insegnamenti X [1972], 1168-1170: «Uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio. […] Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni».
[122] S. José Gabriel del Rosario Brochero, Predica delle bandiere, in Conferenza Episcopale Argentina, El Cura Brochero. Cartas y sermones, Buenos Aires 1999, 71.
[124] Sulla tomba di sant’Ignazio di Loyola si trova questo saggio epitaffio: «Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est» (Non aver nulla di più grande che ti limiti, e tuttavia stare dentro ciò che è più piccolo: questo è divino).
“CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 LO STILE DI EMMAUS COME STILE DI DISCERNIMENTO E ACCOMPAGNAMENTO di Rosalba Manes Consacrata dell’ordo virginum e biblista (Pontificia Università Gregoriana) La Bibbia ebraica si conclude con questo invito al viaggio: «Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23). Qual è la meta del salire di ogni membro del popolo di Dio? È detto poco prima nello stesso versetto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda”». Il Signore vuole che Gerusalemme sia la meta di attrazione di tutto il suo popolo. A partire da questa conclusione, si può affermare davvero che «la Bibbia ebraica si pone interamente sotto il segno del pellegrinaggio»1. E siccome la Bibbia ebraica confluisce negli scritti cristiani, anche il Nuovo Testamento è posto sotto questo segno. I cristiani sono pellegrini, senza fissa dimora. Essi, come ricorda la Lettera a Diogneto, «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»2. I cristiani di ogni tempo e di ogni età sono pellegrini muniti di una ricca collezione di parole, la Bibbia, che si offre sempre come casa “portatile”. I giovani e la vita come viaggio Anche la pericope evangelica di Luca relativa al viaggio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) offre lo spunto per pensare la vita umana come un pellegrinaggio3. Le vite dei due discepoli, come di tutti i personaggi che la Bibbia ci consegna, più che essere modelli, sono «vite in evoluzione»4, investite in un pellegrinaggio che può essere percorso in modo spento oppure dinamico, a seconda della compagnia e della meta. E questo ci fa pensare soprattutto alle vite dei giovani che sono così tanto in evoluzione a motivo della crescita, della loro curiosità e del desiderio di mettersi alla prova coinvolgendosi nelle esperienze più disparate. Luca invita i suoi lettori a immedesimarsi con i suoi due pellegrini5, quasi ad offrire una sintesi del suo vangelo6. Si tratta, però, di due pellegrini coinvolti in un viaggio drammatico, che si 1 J.-P. SONNET, Il canto del viaggio, Qiqajon, Magnano (Bi) 2009, 12. 2 A Diogneto, Città nuova, Roma 2008, V,5, 83. 3 «Con ogni probabilità, questo insistente richiamo al tema del cammino ha la sua spiegazione nel fatto che il cammino di cui parla l’evangelista altro non è se non la vita del cristiano recepita a mo’ di pellegrinaggio e che esso ha bisogno della presenza del Risorto per non diventare alienante e triste» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», in M. LACONI E COLLABORATORI, Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, Elle di ci, Leumann (To) 1994, 438). 4 G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio», Esperienza e teologia 30 (2014), 26. 5 «Leggere la Bibbia sino in fondo è diventare pellegrini; diventare pellegrini biblici è accogliere il libro della Scritture come guida delle nostre strade, divine e umane, da percorrere sino alla Gerusalemme di Dio» (J.-P. SONNET, Il canto del viaggio, 12). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 muove, cioè, in direzione opposta a Gerusalemme. Essi, infatti, dopo aver smarrito l’entusiasmo durante i tristi eventi della Passione, decidono di lasciarsi la città santa alle spalle, di dimenticare il cammino fatto fino a quel momento, di tornare indietro, al punto di partenza, quando una parola “altra” li aveva affascinati, interpellati e mossi a salire a Gerusalemme. Vogliono riabbracciare la vita di un tempo, prima che la precarietà della sequela venisse a ritmare il cammino, prima di investirsi in un percorso che ha condotto ad un vicolo cieco. I due partono risoluti verso Emmaus, ma non è mai piacevole ritornare a casa senza premi o trofei e un senso di sconfitta fa capolino interiormente: il cuore è gonfio di tristezza e il passo si fa pesante, lento. Solo alla fine dell’intreccio narrativo, che ha un Sitz im Leben7 squisitamente liturgico, dopo un incontro illuminante attraverso il quale il cuore si riaccende e gli occhi sono in grado di riconoscere il Risorto e di vedere la novità, essi potranno riprendere lieti la marcia, consapevoli di accogliere una chiamata e una missione rinnovate che hanno ancora una volta a che fare con Gerusalemme, luogo dove germoglia la chiesa madre8. Luca ci ricorda così che tutta la vita è un cammino di uscita incontro agli altri, un esodo dalla tirannia dei bisogni, che porta a concentrarsi su di sé, alla ricerca appassionata della libertà da sé per scoprire la forza del desiderio che allarga gli orizzonti, rende cercatori di senso e permette di gustare la piena fioritura dei propri doni personali. La vita è un viaggio verso di sé, a contatto con la propria vocazione più profonda, alla scoperta di un volto che interpella con la sua parola e con la sua presenza, in un graduale apprendistato delle relazioni che porta chi non teme le salite e i sentieri impervi alla scoperta della storia di alleanza e di salvezza di cui fa parte. La vita è un viaggio meraviglioso che contempla, tuttavia, deragliamenti e battute d’arresto, prima di diventare un «cammino di giustizia» (Sal 23,3) o «sentiero della vita» che è «gioia piena» e «dolcezza senza fine» (Sal 16,11) Chiamati a mettere «ali come aquile» L’evangelista Luca offre ai destinatari della sua diḗghēsis («resoconto ordinato»)9 l’occasione di riflettere sulla vita come occasione di incontro con un Dio pellegrino che non aspetta che la creatura umana gli vada incontro, ma che si mette sulle sue tracce, la intercetta, l’accompagna dispiegando la forza del suo eterno Io-con-te (cfr. Es 3,12; Sal 23,4) e si fa suo commensale (cf Gen 18,1-15). 6 «Lc 24 contiene… la storia biblica: leggendo questo capitolo, si attraversano tutte le promesse, tutte le Scritture. Capitolo enciclopedico, gravido di tutto il passato: di Gesù e della storia che lo precedeva. […] Inizio e fine del vangelo si corrispondono… In Lc 1, il narratore e l’angelo avevano invitato a rileggere la storia dei patriarchi e dei profeti. In Lc 24, l’invito è lo stesso, esplicito stavolta; d’altronde non si tratta più di allusioni sparse qua e là, ma di una rassegna completa: “E incominciando da Mosè e tutti i profeti, interpretò loro in tutte le Scritture ciò che lo riguardava” (v. 27; cfr. anche v. 44)» (J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991, 153). 7 Espressione tedesca che indica il «contesto vitale», cioè la situazione storica, sociale e culturale della comunità primitiva. 8 I due discepoli di Emmaus «“descrivono” un cammino plausibile con cui confrontarsi, aprendo una possibilità di incontro con il Risorto, che resta a disposizione di chi si lascia intrigare dal racconto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio», 27). 9 Si tratta del termine con cui l’evangelista in Lc 1,1, all’inizio del prologo, designa il suo vangelo. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 Dalla carenza di energia sperimentata da chi cammina con le sue sole forze il Dio pellegrino dà a chi cammina in sua compagnia la possibilità di acquisire misteriosamente «ali come aquile», com’è descritto all’inizio del Libro della Consolazione di Isaia10. Questa forza supplementare, queste «ali di aquile» (Es 19,4), la Sacra Scrittura desidera offrirle ai suoi lettori e in modo speciale ai giovani perché diventino atleti dello Spirito del Risorto, pieni dell’energia che viene dalla Parola, dall’Eucaristia e dalla comunione con gli altri. Per questo il Sinodo dei giovani ha privilegiato l’icona biblica dei discepoli di Emmaus e l’ha letta alla luce del cammino di accompagnamento dei giovani11. Il racconto evangelico che ne parla non è tanto un racconto di apparizione ma piuttosto il «racconto della trasformazione di due discepoli a partire dal riconoscimento del Risorto»12. Non il vedere qualcosa è al cuore del racconto di Luca, ma il riconoscere qualcuno. Non sono, infatti, le cose che trasformano il cuore di un giovane che si apre alla vita, ma un incontro con una Persona che si incide per sempre nella memoria del cuore, creando un prima e un dopo. Si tratta di un’esperienza simile all’innamoramento che aiuta a distinguere la vita da tutto ciò che è una sua copia sbiadita13 e mette le ali ai piedi… La delusione del vivere: i giovani in cerca di senso Lc 24,13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme. Il racconto di Luca parte da due discepoli increduli e delusi che si stanno separando da Gerusalemme e dalla comunità. Si potrebbe parlare di un cammino di «de-vocazione»14. Gli eventi della Pasqua hanno scandalizzato i seguaci di Gesù, al punto che alcuni di loro decidono di mettere una pietra sopra alla loro esperienza di discepolato per ritornare alla vita di un tempo. È il sopravvento dello scoramento che prende quanti si sentono feriti da un’esperienza sulla quale avevano proiettato tante attese, ma che poi ha lasciato l’amaro in bocca. L’evangelista Luca ci parla, in particolare, di due discepoli che lasciano Gerusalemme per riprendere la strada di casa, compiendo il viaggio inverso a quello che domina l’intero Vangelo di Luca. Sono diretti ad Emmaus, città non molto lontana (forse 7 km), ancora oggi di difficile identificazione15. Attratti dalla parola di Gesù ed estratti dal loro ambiente, avevano intrapreso il cammino della sequela, riponendo nel maestro di Nazareth le loro attese e soprattutto le loro 10 «Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,29-31). 11 FRANCESCO, Christus vivit, Esortazione Apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV, Città del Vaticano 2019, nn. 156; 236; 292; 296. 12 L. MANICARDI, Raccontami una storia. Narrazione come luogo narrativo, Messaggero, Padova 2012, 189. 13 «Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza» (C. YANNARÁS, Variazioni sul Cantico dei cantici, Servitium, Milano 1997, 25). 14 Così viene chiamato il cammino dei due discepoli di Emmaus in L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192. 15 Questo cammino da Gerusalemme a Emmaus appare anche simbolico: Emmaus è la cittadina dove Giuda Maccabeo nel 167 a.C. aveva sconfitto Gorgia, generale di Antioco IV Epifane (cfr. 1Mac 3,40.57; 4,3), quindi luogo della vittoria contro un nemico di Israele. Dalla città della Pasqua i due discepoli scelgono di dirigersi alla città della vittoria e della prospettiva messianica. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 speranze messianiche. Dopo gli eventi della Pasqua, però, non restano in loro che delusione e tristezza per un’operazione non andata a buon fine, per un piano naufragato nel peggiore dei modi. Non resta che dimenticare, rimuovere il dolore per il fallimento e tornare alle sicurezze di un tempo, quando il senso del vivere era dettato dal bisogno di procurarsi i mezzi di sussistenza e prepararsi un futuro di benessere. Vi è un regresso che porta il cuore all’oblio dell’esperienza fallimentare per cercare sostegno nel “mondo conosciuto”. La delusione, infatti, è nemica della memoria e quando la memoria sbiadisce si perde il senso della propria chiamata, si azzera anche tutto il bene che si è potuto sperimentare e ci si sente attratti a vivere «soltanto di pane» (Dt 8,3; cfr. Lc 4,4). Questo è lo sconforto che porta molti giovani a passare frettolosamente da un’esperienza all’altra, senza il coraggio e la pazienza di rileggere ogni evento per «distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile» (Ger 15,19). La grazia del condividere: superare il mutismo dei giovani Lc 24,14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Inizia il viaggio di ritorno. I due se ne vanno da Gerusalemme, quella città che avrebbe dovuto profumare di pace – come dice il suo nome, che contiene la parola shalom – e che invece è satura di odio. Imboccano la strada del ritorno, ma il silenzio fa paura e iniziano a conversare, accendono il dialogo che libera la forza della compagnia che sola tiene a bada le angosce del cuore umano. È la vittoria della relazione sul silenzio della solitudine, il trionfo della parola che sfida la morte, che vuole aggrapparsi alla vita, nonostante la tristezza abbia preso il sopravvento nel cuore. Parlano i due discepoli e parlano di tutto ciò che è accaduto nella città santa. Hanno voglia di parlare, forse perché il silenzio li mette in un contatto troppo ravvicinato con la propria interiorità o forse perché, pur volendosi sganciare al più presto dall’esperienza che li ha delusi, si sentono ancora intimamente connessi ad essa. La situazione iniziale del brano si caratterizza per un viaggio di ritorno scandito dalle parole di una conversazione tra amici. Il parlare dei due discepoli presenta dei tratti particolari: Luca usa il verbo omiléo, «discorrere», che proviene dal contesto liturgico (cfr. At 20,11), e il verbo syzetéo, «cercare insieme», che evidenzia un conversare orientato a trovare una soluzione comune (cfr. At 15,7). Questo conversare manifesta la grazia di condividere, tenendo i cuori connessi l’uno all’altro. Parlano i due amici, praticano l’arte salutare e salvifica del racconto16 e testimoniano che c’è ancora un soffio di vita nel loro cuore indolenzito per via della grande delusione. 16 «la magia fondamentale della narrazione sta nella sua capacità di dare senso. Non è la cronaca dei fatti o la mera registrazione di ciò che accade, ma solo la loro narrazione che produce senso e quindi rende vivibile e sopportabile il mondo. Nel racconto i fatti divengono umani, cioè una trama di eventi significativi. Il racconto umanizza il tempo. […] Così la vita si fa somigliante a un testo, a un tessuto, a un tappeto, per esempio, che è costituito da una trama infinita di segni ciascuno dei quali, preso in se stesso, è privo di senso, ma che insieme agli altri forma un disegno misterioso e affascinante. Il racconto crea ordine nel caos, crea unità fra le dimensioni del passato, del presente e del futuro […] strappa l’uomo alla tirannia del presente…» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 25-26.27). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 Anche qui si coglie il bisogno impellente che i giovani hanno di raccontarsi esperienze, problemi, paure, ignari a volte di non disporre tra coetanei di tutti i mezzi utili ad avanzare. Parlano i due pellegrini che lasciano la città santa e gli altri amici, ma non come chi parla al vento. Questa parola è suono che qualcuno riesce ad ascoltare… La grazia del camminare insieme: vincere la solitudine e lo smarrimento dei giovani Lc 24,15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Il racconto lucano presenta una complicazione per via dell’apparizione di un terzo personaggio, Gesù, che innesca la tensione drammatica del processo di riconoscimento. Mentre il lettore ne conosce l’identità, i due discepoli la ignorano. Il Risorto, che è lo straniero per eccellenza, il pellegrino che si lascia trovare mentre è vicino (cfr. Is 55,6) ed itinera lungo i nostri sentieri, in cerca della pecora (cfr. Lc 15,4-7), della dracma (cfr. Lc 15,8-10) e dei figli (cfr. Lc 15,11-32) smarriti, si fa loro compagno di viaggio, anche se “in borghese”. I loro occhi, però, non vedono o meglio non sanno riconoscere e senza riconoscenza, si smarrisce anche la conoscenza del Maestro e non è possibile il suo riconoscimento. Gli occhi dei discepoli sono chiusi alla fede, «incapaci di leggere la storia alla luce della fede»17. La pedagogia del Risorto sarà allora proprio quella di aiutarli a riconoscerlo, riaccendendo gradualmente la memoria del cuore. Egli si accosta invitandoli a raccontarsi perché possano tirare fuori il loro dolore e consegnarlo. Li stimola ulteriormente all’arte del racconto che permette di dire, di dirsi e di dare senso. La narrazione, infatti, implica, per ogni persona e soprattutto per i giovani, il coinvolgimento di tutte le facoltà personali alla ricerca dell’unità, della forma e del senso, che spesso si nascondono nei dettagli della storia o nello sguardo di chi accoglie il racconto, offrendo il suo tempo, donando se stesso. Essere attesi dallo sguardo di un altro è proprio per ogni giovane la base per approdare a una comprensione nuova del proprio esistere e della propria chiamata nella storia. La grazia di raccontare e raccontarsi: intercettare gioie e dolori dei giovani Lc24,17Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano 17 L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Il pellegrino viene scambiato per uno straniero18 ignaro dei fatti. Egli allora sta al gioco e chiede delucidazioni. Finge non per mentire, ma per guarire. Non vuole giocare con loro, ma aiutarli ad esternare l’amarezza e riaccendere la memoria. Allora per liberarli dal senso di delusione, libera la domanda: «Che cosa è successo?» e i due si fermano e mostrano la loro tristezza19 che incontra finalmente un “luogo” dove poter essere depositata, consegnata: l’orecchio, il cuore, il tempo di quel pellegrino. La Christus vivit sottolinea la qualità dell’ascolto del Risorto e offre questo esempio come prototipo a chiunque si accosti ai giovani per accompagnarli: La prima sensibilità o attenzione è alla persona. Si tratta di ascoltare l’altro che ci sta dando sé stesso nelle sue parole. Il segno di questo ascolto è il tempo che dedico all’altro. Non è una questione di quantità, ma che l’altro senta che il mio tempo è suo: il tempo di cui ha bisogno per esprimermi ciò che vuole. Deve sentire che lo ascolto incondizionatamente, senza offendermi, senza scandalizzarmi, senza irritarmi, senza stancarmi. Questo ascolto è quello che il Signore esercita quando si mette a camminare accanto ai discepoli di Emmaus e li accompagna per un bel pezzo lungo una strada che andava in direzione opposta a quella giusta (cfr Lc 24,13-35)20. Alla domanda del pellegrino uno dei due, l’unico di cui si conosca il nome, Cleopa, imbastisce un racconto sintetico del ministero di Gesù e della loro sequela, segnata dal ritmo della speranza, una speranza che però la crocifissione ha spento del tutto e che i racconti della tomba vuota non sono riusciti ad alimentare. Parla di Gesù di Nazaret, senza sapere che egli è suo compagno di viaggio. Riprende le grandi tappe della sua vita: nome, luogo di origine, ministero, passione, identità dei suoi avversari, tipo di morte. Identifica Gesù a «un profeta potente», solidarizza con i sommi sacerdoti che chiama «nostri», parla di una pasqua priva di risurrezione cui fa cenno solo rimandando a delle ipotesi (che i due non hanno voluto verificare) e termina con una speranza naufragata nell’assenza di colui che era stato riconosciuto come un potenziale liberatore. Cleopa allude a una storia ben precisa, senza però collegarla alla storia sacra. Richiama alla mente, ma non risveglia la memoria. Sa parlare di Gesù, ma senza evangelizzare. Narra un vangelo senza gioia e coinvolgimento emotivo, un resoconto cronachistico che lascia indifferenti21. Cleopa somiglia a molti giovani di oggi che conoscono Cristo solo “per sentito dire”, che lo nominano solo perché parte di una narrazione familiare trasmessa per via di «carne e sangue» e non «per la potenza dello Spirito», che lo sentono morto o troppo lontano dalla loro esistenza così 18 Il verbo che Luca mette sulle labbra di Cleopa è paroikéō che indica la situazione di provvisorietà e di estraneità del suo interlocutore, il fatto di dimorare in una terra straniera, come Abramo che «soggiornò (cioè si stabilì come straniero) nella terra promessa come in una regione straniera» (Eb 11,9). 19 «Lo stato della loro “salute spirituale” traspare dai riflessi somatici: “scuri in volto”, “occhi impediti”. Sono simbolicamente in una situazione di morte. Il loro stesso racconto riguardante Gesù appare come un necrologio, una triste cronaca» (L. MANICARDI, Raccontami una storia, 192-193). 20 FRANCESCO, Christus vivit n. 292. 21 Dopo il primo momento in cui si mostra alquanto evasivo, Cleopa si lancia nel racconto e «dà il via alla sua esposizione, che non è un semplice resoconto dei fatti, ma un’evidente presa di posizione circa Gesù, il suo operato e la sua sorte: riferisce di un passato ormai finito (vv. 19-20), denuncia un futuro disatteso (v. 21), approda su un presente segnato dallo sconcerto e dal dubbio (vv. 22-24). Quello che manca non è la ricchezza del vissuto, ma un criterio che gli dia senso, come dimostra il brusco intervento del Risorto» (G. BONIFACIO, «Emmaus e il secondo annuncio, 34). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 lontana dal gergo con cui comunemente si narra la fede, un gergo che rigettano perché moralistico, volto più a castigare che ad animare e a vivificare. La grazia della comprensione della Pasqua: appassionare i giovani alle Scritture Lc 24,25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Solo dopo che i due di Emmaus hanno fatto l’autodiagnosi della loro perdita di speranza il forestiero interviene e prende la parola. Dopo aver ascoltato e aver permesso loro di estrarre tutta l’amarezza e il non senso, rimprovera i due di mancare di intelligenza e di sentimenti per aver creduto alla parola dei profeti. I profeti avevano parlato della prova come costante della vita umana e del Dio che salva non dalle prove, ma all’interno delle prove e inizia a leggere le Scritture profetiche, mostrando l’intima connessione tra queste e la sua vita. Lo sconosciuto denuncia la loro fatica di cogliere il filo rosso della storia della salvezza e inaugura un’esposizione cristologica delle Scritture: il Messia annunciato dai profeti ama gli asini e non i cavalli, elimina i carri e l’arco di guerra (cfr. Zc 9,9), è compassionevole verso il dolore e la sofferenza umana (cfr. Is 53,4). Formando i discepoli alla sequela, il Maestro aveva parlato della sua passione come via per accedere alla gloria. Perciò il forestiero li scuote perché dall’essere ripiegati sulla fine di una storia si aprano al germogliare di una creazione nuova. È una narrazione ossigenata la sua che va oltre la lettera per coglierne lo Spirito e che illumina gli occhi del cuore. La Pasqua si può comprendere solo alla luce delle Scritture d’Israele che contengono una pedagogia dell’umano che si realizza pienamente in Cristo: «la parola del comando orienta, la parola profetica interviene per cambiare, la parola sapienziale legge la storia. Gesù non è nella tomba, dietro una pietra che chiude il passato, ma nelle Scritture gravide di speranza e portatrici di futuro che egli solo è venuto a compiere (cfr. Lc 4,21)»22. Gesù conferma le parole della Scrittura, mettendone in luce il loro sensus plenior23: l’eventoCristo, cioè tutti gli eventi connessi alla sua persona, conferma l’agire salvifico del Dio di Israele nel passato, segno che la sua morte di Croce è la consegna piena di Dio all’uomo e combacia con l’intenzionalità originaria di Dio di donare all’uomo tutto se stesso in un amore che va fino alla fine. Il Risorto insegna ad ogni educatore ed educatrice, ad ogni padre e madre spirituale, l’arte di comunicare con larghezza la Parola che nutre il cuore e di aiutare la persona a loro affidata «a decifrare il linguaggio che Dio usa verso di lei e a scoprire negli eventi della vita la parola di Dio per lei»24. I giovani in tal modo si sentono adottati da qualcuno che li ama e sa donare loro il suo tempo, che sa consegnare loro parole di senso, che li fa volgere verso un Altro, il Padre, e li aiuta a vedersi nell’unità e non più nella dispersione, a vedersi con gli occhi di Dio e a tessere la propria storia con il tessuto della Chiesa, per non rimanere individui ma un organismo vivo, comunitario. 22 R. MANES, «Il cielo si aprì». Il Dio misericordioso e tenero di Luca, Cittadella, Assisi 2015, 149. 23 «è importante rilevare la costante connessione fra la comprensione delle Scritture e la croce… La Croce non è predetta dalla Scritture ma è “conforme” ad esse. V’è una circolarità ermeneutica: le Scritture rinviano a Cristo e Cristo rinvia alle Scritture. Nel prisma della Pasqua i discepoli comprendono Gesù alla luce delle Scritture, ma anche le Scritture alla luce di Gesù» (M. CRIMELLA, Luca. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2015, 371). 24 M.I. RUPNIK, Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla vita spirituale, Lipa, Roma 1996, 62012, 97. “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 La grazia di riconoscere il Vivente: insegnare ai giovani l’arte del discernimento Lc 24,28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. L’ermeneutica di Gesù esercita un tale fascino sui due discepoli di Emmaus che, pur essendo giunti a destinazione, non possono più staccarsi dallo straniero. Egli fa come per andarsene e i due reagiscono e lo invitano a restare: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Lo invitano così a restare e a condividere il pasto con loro, momento sacro per la cultura orientale per rifare le forze e consolidare il vincolo di amicizia. La Christus vivit ricorda la potenza della convivialità o ospitalità che il Nuovo Testamento chiama filoxenía (cfr. Rm 12,13; Eb 13,2): «Quando Gesù fa come se dovesse proseguire perché quei due sono arrivati a casa, allora capiscono che aveva donato loro il suo tempo, e a quel punto gli regalano il proprio, offrendogli ospitalità. Questo ascolto attento e disinteressato indica il valore che l’altra persona ha per noi, al di là delle sue idee e delle sue scelte di vita»25. Dopo aver ricevuto in dono il tempo di quello straniero, i due discepoli desiderano donare il proprio: resta con noi è, al tempo stesso, una richiesta e un’offerta. È chiedere aiuto e, contemporaneamente, dimenticarsi di sé per mettere al centro l’altro. È incominciare a sentire il sapore del dono e il senso del proprio stare al mondo. Il pellegrino accetta e la sua presenza, le sue parole e i suoi gesti provocano un forte impatto. Gli occhi si aprono e lo riconoscono: «dinanzi a loro non vi è più un ospite sconosciuto, ma quel crocifisso che la tomba non è riuscita a trattenere e che per restare con i suoi si è fatto parola e pane»26. La fractio panis libera tutta la fragranza del dono di Cristo che scompare ma accende nei due il fuoco della fede, con il quale possono scaldare il gelo della vita ed infiammare il mondo. Alla luce della Parola di Dio letta in chiave cristologica27 inizia l’arte del discernimento, la capacità di fiutare la presenza del Risorto nella storia e nella propria vicenda esistenziale e di sperimentarla, in comunione con i fratelli, all’interno della celebrazione liturgica che permette di accedere sin d’ora alla vita del Regno, alla gloria destinata ai figli. La grazia del cuore ardente: formare i giovani all’annuncio gioioso Lc 24,31Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi i 25 FRANCESCO, Christus vivit, n. 292. 26 R. MANES, «Il cielo si aprì», 150. 27 Nelle Scritture spiegate da Cristo che ne è la chiave si trova «il modo di trarre le fila delle diversissime esperienze umane, nel campo del bene e della verità, per riunificarle in un quadro coerente in cui l’annuncio della Risurrezione appaia come il sigillo di Dio su un disegno di salvezza e non come un evento strano e inaspettato» (C.M. MARTINI, L’evangelizzatore in san Luca, Ancora, Milano 2000, 153). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Prima ancora che si aprissero gli occhi, il cuore aveva già iniziato a scaldarsi e a risvegliarsi, alimentando quel fuoco che il Cristo è venuto a gettare sulla terra (cfr. Lc 12,49) e la cui fiamma si propagherà a partire dall’evento dell’effusione dello Spirito a Pentecoste (cfr. At 2,3) come potenza di Dio che divampa nella predicazione della Parola. Il fuoco ha sempre nelle Scritture una coloritura teofanica, è cioè un elemento che nel racconto biblico dice l’irruzione di Dio (cfr. Es 3,2) e la natura del suo amore (cfr. Ct 8,6). Il Risorto appicca un fuoco nel cuore dei suoi, ma lui non è più visibile, perché egli non è quel viandante: è il Risorto che vive e si fa sperimentare vivo nella vita stessa di chi crede in lui. Egli è assente perché «non è più legato all’orizzonte terreno, non è più palpabile, visibile in maniera fisica; eppure è ancora realmente presente e sperimentabile»28. Inoltre c’è un’importante pedagogia che il Risorto dispiega come afferma la Christus vivit che ci ricorda che chi accompagna i giovani deve «scomparire come scompare il Signore dalla vista dei suoi discepoli, lasciandoli soli con l’ardore del cuore, che si trasforma in impulso irresistibile a mettersi in cammino»29. È il segno sacramentale che permette di riconoscere il Signore non come uno di fuori che si può vedere, ma come uno che abita dentro e scalda il cuore. Il riconoscimento del Risorto trascende l’empiria superficiale: è un’esperienza di fede! Luca gioca sul contrasto tra gli occhi “impediti” (v. 16) e gli occhi “spalancati” (v. 31). Tra le due situazioni irrompe la fede: «la presenza del Signore è accessibile tramite la Parola ascoltata, tramite il pane spezzato e, più in generale, per mezzo della fede»30. Ed è proprio a partire dalla fede che si compie la trasformazione interiore dei discepoli che non sono più prigionieri di segni miracolosi. Il gesto del pane spezzato, infatti, «allontana definitivamente l’attesa idolatrica dei segni e permette ai discepoli di dire l’essenziale – la loro trasformazione interiore all’ascolto della sua parola sulle Scritture – senza rattristarsi per la sua scomparsa»31. Il binomio Parola-Pane eucaristico trasfigura il senso della sequela vissuta e permette di riprendere la strada per tornare dai compagni e annunciare loro che il Maestro è vivo e a farsi pane per loro32. I discepoli passano così dall’abbattimento allo slancio, dal bisogno di vedere i segni al desiderio di ascoltare e annunciare la parola, dall’attesa di un messia foriero di rivoluzione politica o sociale e capace di spazzare via da Israele ogni presenza ostile all’accoglienza del dono d’amore di Cristo che spinge a tornare a Gerusalemme, in mezzo agli altri, alla nuova famiglia dei credenti in Cristo, nel clima fecondo e gioioso della lode e della comunione. La Scrittura rimane sigillata senza la luce che promana dall’evento della morte e risurrezione di Cristo e senza narratori, testimoni capaci cioè di attraversare la storia “sacramentalmente”, 28 G. RAVASI, I Vangeli, EDB, Bologna 2016, 431. 29 FRANCESCO, Christus vivit, n. 296. 30 M. CRIMELLA, Luca, 367. 31 J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo, 162. 32 «Perché il Risorto sia veramente presente, non basta la partecipazione al rito. Questo diventa portatore di vita se riesce a trasformare anche i commensali in pane che si spezza per i fratelli» (V. PASQUETTO, «L’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)», 439). “CUORI ARDENTI, PIEDI IN CAMMINO” SPUNTI DI RIFLESSIONE PER L’ANNO PASTORALE 2023/2024 aprendola a Dio e vivificandola attraverso il loro pellegrinaggio pieno di zelo e dedizione e la loro parola incisiva e gravida di Spirito Santo. Il Maestro è vivo e chiede ai giovani, che sono “la promessa del Padre”, di seguirlo lungo le vie del mondo, non come individui che rifuggono nelle proprie sicurezze o nel benessere personale, ma come comunione di fratelli e sorelle che sanno nutrire la memoria dell’incontro con Cristo e ravvivarla mediante la preghiera, la testimonianza, la forza dei sacramenti e degli affetti e che sanno accogliere «ali come aquile» per collaborare alla corsa di una Parola (cfr. 2Ts 3,1) che non subisce mai battute d’arresto perché eterna. Lc 24,13-35, capolavoro catechetico e didattico, invita noi formatori e accompagnatori a lasciarci lavorare dallo Spirito per generare i giovani alla vita filiale di Cristo che si compie nel dono di sé. Invita inoltre i giovani a scoprire la bella esperienza di affrontare il pellegrinaggio della vita sapendosi sempre accompagnati33 in una pastorale feconda perché intesa come un processo rispettoso, paziente, fiducioso e compassionevole34 e a sentirsi destinatari di una grande attenzione e di un ascolto profondo35 che li renda capaci di udire il battito del Padre che, nel cuore del Figlio, palpita per loro di amore eterno. SOMMARIO L’articolo propone una lettura narrativa del racconto di Emmaus (Lc 24,13-35) che privilegia il tema del «viaggio» come metafora della vita e offre una serie di indicazioni preziose per ripensare la necessità e l’urgenza di avviare i giovani all’arte del discernimento. Attraverso la prossimità tipica di un accompagnamento che si realizza come un processo graduale e che contempla la possibilità di una reale esperienza di generazione spirituale, il contatto con la Parola contenuta nelle Scritture e rivelatrice di senso e l’esperienza sacramentale all’interno di un contesto ecclesiale che testimoni un’alta qualità dei rapporti e di comunione, è offerta ai giovani l’opportunità di coltivare sogni e desideri grandi e di aprirsi serenamente al futuro, sentendosi depositari di una chiamata al dono di sé, a cui dare carne giorno per giorno.
Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno ho scelto un tema che prende spunto dal racconto dei discepoli di Emmaus, nel Vangelo di Luca (cfr 24,13-35): «Cuori ardenti, piedi in cammino». Quei due discepoli erano confusi e delusi, ma l’incontro con Cristo nella Parola e nel Pane spezzato accese in loro l’entusiasmo per rimettersi in cammino verso Gerusalemme e annunciare che il Signore era veramente risorto. Nel racconto evangelico, cogliamo la trasformazione dei discepoli da alcune immagini suggestive: cuori ardenti per le Scritture spiegate da Gesù, occhi aperti nel riconoscerlo e, come culmine, piedi in cammino. Meditando su questi tre aspetti, che delineano l’itinerario dei discepoli missionari, possiamo rinnovare il nostro zelo per l’evangelizzazione nel mondo odierno.
1. Cuori ardenti «quando ci spiegava le Scritture». La Parola di Dio illumina e trasforma il cuore nella missione.
Sulla via da Gerusalemme a Emmaus, i cuori dei due discepoli erano tristi – come traspariva dai loro volti – a causa della morte di Gesù, nel quale avevano creduto (cfr v. 17). Di fronte al fallimento del Maestro crocifisso, la loro speranza che fosse Lui il Messia è crollata (cfr v. 21).
Ed ecco, «mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro» (v. 15). Come all’inizio della vocazione dei discepoli, anche ora nel momento del loro smarrimento, il Signore prende l’iniziativa di avvicinarsi ai suoi e camminare al loro fianco. Nella sua grande misericordia, Egli non si stanca mai di stare con noi, malgrado i nostri difetti, i dubbi, le debolezze, nonostante la tristezza e il pessimismo ci inducano a diventare «stolti e lenti di cuore» (v. 25), gente di poca fede.
Oggi come allora, il Signore risorto è vicino ai suoi discepoli missionari e cammina accanto a loro, specialmente quando si sentono smarriti, scoraggiati, impauriti di fronte al mistero dell’iniquità che li circonda e li vuole soffocare. Perciò, «non lasciamoci rubare la speranza!» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 86). Il Signore è più grande dei nostri problemi, soprattutto quando li incontriamo nell’annunciare il Vangelo al mondo, perché questa missione, in fin dei conti, è sua e noi siamo semplicemente i suoi umili collaboratori, “servi inutili” (cfr Lc 17,10).
Esprimo la mia vicinanza in Cristo a tutti i missionari e le missionarie nel mondo, in particolare a coloro che attraversano un momento difficile: il Signore risorto, carissimi, è sempre con voi e vede la vostra generosità e i vostri sacrifici per la missione di evangelizzazione in luoghi lontani. Non tutti i giorni della vita sono pieni di sole, ma ricordiamoci sempre delle parole del Signore Gesù ai suoi amici prima della passione: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).
Dopo aver ascoltato i due discepoli sulla strada per Emmaus, Gesù risorto «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). E i cuori dei discepoli si riscaldarono, come alla fine si confideranno l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (v. 32). Gesù infatti è la Parola vivente, che sola può far ardere, illuminare e trasformare il cuore.
Così comprendiamo meglio l’affermazione di San Girolamo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (In Is., Prologo). «Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo» (Lett. ap. M.P. Aperuit illis, 1). Perciò, la conoscenza della Scrittura è importante per la vita del cristiano, e ancora di più per l’annuncio di Cristo e del suo Vangelo. Altrimenti, che cosa si trasmette agli altri se non le proprie idee e i propri progetti? E un cuore freddo, potrà mai far ardere quello degli altri?
Lasciamoci dunque sempre accompagnare dal Signore risorto che ci spiega il senso delle Scritture. Lasciamo che Egli faccia ardere il nostro cuore, ci illumini e ci trasformi, affinché possiamo annunciare al mondo il suo mistero di salvezza con la potenza e la sapienza che vengono dal suo Spirito.
2. Occhi che «si aprirono e lo riconobbero» nello spezzare il pane. Gesù nell’Eucaristia è culmine e fonte della missione.
I cuori ardenti per la Parola di Dio spinsero i discepoli di Emmaus a chiedere al misterioso Viandante di restare con loro sul far della sera. E, intorno alla mensa, i loro occhi si aprirono e lo riconobbero quando Lui spezzò il pane. L’elemento decisivo che apre gli occhi dei discepoli è la sequenza delle azioni compiute da Gesù: prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e darlo a loro. Sono gesti ordinari di un capofamiglia ebreo, ma, compiuti da Gesù Cristo con la grazia dello Spirito Santo, rinnovano per i due commensali il segno della moltiplicazione dei pani e soprattutto quello dell’Eucaristia, sacramento del Sacrificio della croce. Ma proprio nel momento in cui riconoscono Gesù in Colui-che-spezza-il-pane, «egli sparì dalla loro vista» (Lc 24,31). Questo fatto fa capire una realtà essenziale della nostra fede: Cristo che spezza il pane diventa ora il Pane spezzato, condiviso con i discepoli e quindi consumato da loro. È diventato invisibile, perché è entrato ora dentro i cuori dei discepoli per farli ardere ancora di più, spingendoli a riprendere il cammino senza indugio per comunicare a tutti l’esperienza unica dell’incontro con il Risorto! Così Cristo risorto è Colui-che-spezza-il-pane e al contempo è il Pane-spezzato-per-noi. E dunque ogni discepolo missionario è chiamato a diventare, come Gesù e in Lui, grazie all’azione dello Spirito Santo, colui-che-spezza-il-pane e colui-che-è-pane-spezzato per il mondo.
A questo proposito, occorre ricordare che un semplice spezzare il pane materiale con gli affamati nel nome di Cristo è già un atto cristiano missionario. Tanto più lo spezzare il Pane eucaristico che è Cristo stesso è l’azione missionaria per eccellenza, perché l’Eucaristia è fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa.
Lo ha ricordato il Papa Benedetto XVI: «Non possiamo tenere per noi l’amore che celebriamo nel Sacramento [dell’Eucaristia]. Esso chiede per sua natura di essere comunicato a tutti. Ciò di cui il mondo ha bisogno è l’amore di Dio, è incontrare Cristo e credere in Lui. Per questo l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della vita della Chiesa; lo è anche della sua missione: “Una Chiesa autenticamente eucaristica è una Chiesa missionaria”» (Esort. ap. Sacramentum caritatis, 84).
Per portare frutto dobbiamo restare uniti a Lui (cfr Gv 15,4-9). E questa unione si realizza attraverso la preghiera quotidiana, in particolare nell’adorazione, nel rimanere in silenzio alla presenza del Signore, che rimane con noi nell’Eucaristia. Coltivando con amore questa comunione con Cristo, il discepolo missionario può diventare un mistico in azione. Che il nostro cuore brami sempre la compagnia di Gesù, sospirando l’ardente richiesta dei due di Emmaus, soprattutto quando si fa sera: “Resta con noi, Signore!” (cfr Lc 24,29).
3. Piedi in cammino, con la gioia di raccontare il Cristo Risorto. L’eterna giovinezza di una Chiesa sempre in uscita.
Dopo aver aperto gli occhi, riconoscendo Gesù nello «spezzare il pane», i discepoli «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (cfr Lc 24,33). Questo andare in fretta, per condividere con gli altri la gioia dell’incontro con il Signore, manifesta che «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 1). Non si può incontrare davvero Gesù risorto senza essere infiammati dal desiderio di dirlo a tutti. Perciò, la prima e principale risorsa della missione sono coloro che hanno riconosciuto Cristo risorto, nelle Scritture e nell’Eucaristia, e che portano nel cuore il suo fuoco e nello sguardo la sua luce. Costoro possono testimoniare la vita che non muore mai, anche nelle situazioni più difficili e nei momenti più bui.
L’immagine dei “piedi in cammino” ci ricorda ancora una volta la perenne validità della missio ad gentes, la missione data alla Chiesa dal Signore risorto di evangelizzare ogni persona e ogni popolo sino ai confini della terra. Oggi più che mai l’umanità, ferita da tante ingiustizie, divisioni e guerre, ha bisogno della Buona Notizia della pace e della salvezza in Cristo. Colgo pertanto questa occasione per ribadire che «tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14). La conversione missionaria rimane l’obiettivo principale che dobbiamo proporci come singoli e come comunità, perché «l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa» (ibid., 15).
Come afferma l’apostolo Paolo, l’amore di Cristo ci avvince e ci spinge (cfr 2 Cor 5,14). Si tratta qui del duplice amore: quello di Cristo per noi che richiama, ispira e suscita il nostro amore per Lui. Ed è questo amore che rende sempre giovane la Chiesa in uscita, con tutti i suoi membri in missione per annunciare il Vangelo di Cristo, convinti che «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (v. 15). A questo movimento missionario tutti possono contribuire: con la preghiera e l’azione, con offerte di denaro e di sofferenze, con la propria testimonianza. Le Pontificie Opere Missionarie sono lo strumento privilegiato per favorire questa cooperazione missionaria a livello spirituale e materiale. Per questo la raccolta di offerte della Giornata Missionaria Mondiale è dedicata alla Pontificia Opera della Propagazione della Fede.
L’urgenza dell’azione missionaria della Chiesa comporta naturalmente una cooperazione missionaria sempre più stretta di tutti i suoi membri ad ogni livello. Questo è un obiettivo essenziale del percorso sinodale che la Chiesa sta compiendo con le parole-chiave comunione, partecipazione, missione. Tale percorso non è sicuramente un piegarsi della Chiesa su sé stessa; non è un processo di sondaggio popolare per decidere, come in un parlamento, che cosa bisogna credere e praticare o no secondo le preferenze umane. È piuttosto un mettersi in cammino come i discepoli di Emmaus, ascoltando il Signore Risorto che sempre viene in mezzo a noi per spiegarci il senso delle Scritture e spezzare il Pane per noi, affinché possiamo portare avanti con la forza dello Spirito Santo la sua missione nel mondo.
Come quei due discepoli narrarono agli altri ciò che era accaduto lungo la via (cfr Lc 24,35), così anche il nostro annuncio sarà un raccontare gioioso il Cristo Signore, la sua vita, la sua passione, morte e risurrezione, le meraviglie che il suo amore ha compiuto nella nostra vita.
Ripartiamo dunque anche noi, illuminati dall’incontro con il Risorto e animati dal suo Spirito. Ripartiamo con cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino, per far ardere altri cuori con la Parola di Dio, aprire altri occhi a Gesù Eucaristia, e invitare tutti a camminare insieme sulla via della pace e della salvezza che Dio in Cristo ha donato all’umanità.
Santa Maria del cammino, Madre dei discepoli missionari di Cristo e Regina delle missioni, prega per noi!
Roma, San Giovanni in Laterano, 6 gennaio 2023, Solennità dell’Epifania del Signore.
L’estate è finita, il sole a mezzogiorno è ancora caldo ma l’aria si fa già frizzante. Ottobre segna l’arrivo dell’autunno, sebbene alcune zone abbiano temperature ancora miti, le piogge e il freddo sono ormai arrivati.
Questo è il momento per ripulire per bene l’orto da tutte le coltivazioni estive ormai finite. Estirpare le piante, vangare il terreno, concimarlo con un buon compost e procedere con la semina delle nuove piantine.
Siamo in tempo di semina: bisogna preparare la vigna, dissodare la terra, stare attenti alla manutenzione del vigneto e prepararlo all’anno successivo. Ottobre infatti sarà il mese giusto per pianificare lo spazio per le semine d’autunno.
Insomma, è un bell’impegno! C’è da ripulire per bene da tutte le coltivazioni estive ormai finite, estirpare le piante, vangare il terreno, concimare.
C’è tanto da fare in questo mese di Ottobre! Anche nella vigna del Signore bisogna preparare, concimare, dissodare il terreno per preparare il cuore a d accogliere questo seme della Parola di Dio che viene a fare nuove tutte le cose!
Per questo anche il campo di Dio è pronto per ricevere il seme della speranza che potrà germogliare a suo tempo, dando frutti abbondanti!
Nella vigna del Signore ci sono tutti questi preparativi da fare: prepararsi all’Annuncio della Buona Notizia per tutti!
Ottobre è il mese missionario per eccellenza, per questo si è pensato di seminare in abbondanza la Parola di Dio, attraverso un ciclo di catechesi che inizieranno il 16 Ottobre 2023 presso la Parrocchia d Santa Maria degli Angeli in Assisi.
Si parla di ” un ristoro” in questo passo del Vangelo di Matteo 11,28 che sembra proprio come un vero e proprio seme concimato nelle zolle di un cuore: pare tacere ma poi, piano piano, timidamente, è già pronto per venire alla luce.
Progressivamente, spunta fuori.
Occorre preparare, però, bene la terra, predisporsi, affinchè questo semino, che è l’Annuncio della Parola di Dio si depositi nelle persone. Crescendo, piano piano, questi germoglia, fino a dare “ristoro”, sollievo, speranza..”
Venite a me”, dice il Signore, venite, cioè, ad ascoltare questo Annuncio, prepara il tuo cuore, estirpa quelle piante che ti impediscono di dissodare la tua anima, per accogliere questo piccolo, grande, seme di speranza, questa Parola di Dio, attraverso dei testimoni che ti annuncino come e dove puoi, nella vita, trovare questo ” ristoro” che tanto cerchi nella vita ma che forse ancora non hai ancora trovato!
Lo Stile Evangelico
Non si tratta di un annunzio generico a grande diffusione, ma è tremendamente incarnato: ci si espone personalmente, si incontrano delle persone, si porta una parola di pace, perché “il Regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo” (Rm 14,17). E chi annuncia non vanta meriti, non avanza pretese ma gioisce nel vedere all’opera la grazia di Dio.
“Il Regno di Dio si è avvicinato a voi”: questo si compie in Gesù, il Veniente ora e sempre. Il Dio che salva, il Dio che porta vita, speranza dove non c’è più futuro.
Questo annuncio non è neutrale, non lascia tutto come prima. Accoglierlo vuol dire porsi su una via di vita!
Dal 16 Ottobre 2023 Catechesi per giovani e adulti
Ogni Lunedì e Giovedì A Santa Maria degli Angeli in Assisi alla ore 20.45
Centro Pastorale Parrocchiale, via Capitolo delle stuoie
“Se in uno stadio, in una notte buia, una persona accende una luce, si intravvede appena, ma se gli oltre settantamila spettatori accendono ciascuno la propria luce, lo stadio si illumina. Facciamo che la nostra vita sia una luce di Cristo; insieme porteremo la luce del Vangelo all’intera realtà.”
Dal libro: EVANGELII GAUDIUM. ESORTAZIONE APOSTOLICA
Citazioni per incoraggiare all’annuncio evangelico
“Un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale!” PAPA FRANCESCO
Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. (Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 27/03/2013 PAPA FRANCESCO)
“Lo Spirito Santo ci insegna, ci ricorda, e ci fa parlare, con Dio e con gli uomini. Non ci sono cristiani muti, muti di anima.” (Omelia del Santo Padre nella Cappella Papale nella Solennità di Pentecoste, 08/06/2014) PAPA FRANCESCO
“Quando una persona conosce veramente GesùCristo e crede in Lui, sperimenta la sua presenza nella vita e la forza della sua Risurrezione, e non può fare a meno di comunicare questa esperienza. E se questa persona incontra incomprensioni o avversità, si comporta come Gesù nella sua Passione: risponde con l’amore e con la forza della verità.”
(Discorso pronunciato prima della recita del Regina Caeli, 14/04/2013) PAPA FRANCESCO
“Se in uno stadio, in una notte buia, una persona accende una luce, si intravvede appena, ma se gli oltre settantamila spettatori accendono ciascuno la propria luce, lo stadio si illumina. Facciamo che la nostra vita sia una luce di Cristo; insieme porteremo la luce del Vangelo all’intera realtà.”
(Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 12/06/2013)PAPA FRANCESCO
Uscite nelle strade a evangelizzare, annunciando il Vangelo. Ricordate che la Chiesa è nata “in uscita”, quella mattina di Pentecoste. Avvicinatevi ai poveri e toccate nella loro carne la carne ferita di Gesù. Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo, con libertà.
Incontro con i partecipanti al Raduno promosso dal Rinnovamento nello Spirito Santo allo Stadio Olimpico di Roma, 01/06/2014PAPA FRANCESCO
“Camminare è aprire frontiere, uscire, aprire porte e cercare strade. Camminare… Non stare seduti; non installarsi, nel cattivo senso della parola. E’ vero, c’è bisogno di organizzare cose, ci sono lavori che esigono di stare tranquilli, però con l’anima, con il cuore e la testa camminare e cercare.”
Discorso del Santo Padre in occasione dell’Udienza ai partecipanti al Capitolo Generale dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria (Clarettiani), 11/09/2015 PAPA FRANCESCO
“E’ lo Spirito che ci fa fare la strada della memoria vivente della Chiesa. E questo chiede da noi una risposta: più la nostra risposta è generosa, più le parole di Gesù diventano in noi vita, diventano atteggiamenti, scelte, gesti, testimonianza. In sostanza lo Spirito ci ricorda il comandamento dell’amore, e ci chiama a viverlo.”
Omelia del Santo Padre nella Cappella Papale nella Solennità di Pentecoste, 08/06/2014PAPA FRANCESCO.
“Seminiamo e diamo testimonianza. La testimonianza è l’inizio di un’evangelizzazione che tocca il cuore e lo trasforma. “Le parole senza testimonianza non vanno, non servono! La testimonianza è quella che porta e dà validità alla parola”.
“Discorso del Santo Padre durante l’Udienza ai partecipanti all’Incontro internazionale “Il progetto pastorale di Evangelii gaudium”, 19/09/2014PAPA FRANCESCO
“La missione evangelizzatrice della Chiesa è essenzialmente annuncio dell’amore, della misericordia e del perdono di Dio, rivelati agli uomini mediante la vita, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa di ringraziamento per la canonizzazione equipollente dei santi canadesi Francesco de Laval e Maria dell’Incarnazione Guyart Martin, 12/10/2014 PAPA FRANCESCO
“Il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano.” PAPA FRANCESCO
“La missione di sempre: portare GesùCristo all’uomo e condurre l’uomo all’incontro con GesùCristoVia, Verità e Vita, realmente presente nella Chiesa e contemporaneo in ogni uomo.
”Discorso del Santo Padre durante l’Udienza al Collegio Cardinalizio, 15/03/2013 PAPA FRANCESCO
“La fede nasce dall’ascolto, e si rafforza nell’annuncio.”
Omelia del Santo Padre nella Santa Messa celebrata nella Basilica Papale di San Paolo fuori le Mura, 14/04/2013 PAPA FRANCESCO
“Noi tutti siamo semplici, ma importanti strumenti [di evangelizzazione]; abbiamo ricevuto il dono della fede non per tenerla nascosta, ma per diffonderla, perché possa illuminare il cammino di tanti fratelli.”
Discorso del Santo Padre durante l’Udienza ai partecipanti all’Assemblea Generale delle Pontificie Opere Missionarie, 17/05/2013 PAPA FRANCESCO
“Evangelizzare, annunciare Gesù, ci dà gioia; invece, l’egoismo ci dà amarezza, tristezza, ci porta giù; evangelizzare ci porta su.”
Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 22/05/2013 PAPA FRANCESCO
“Siate uomini di frontiera, con quella capacità che viene da Dio. Ma non cadete nella tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle.”
Discorso del Santo Padre durante l’Udienza alla Comunità degli Scrittori de “La Civiltà Cattolica”, 14/06/2013 PAPA FRANCESCO.
“Una Chiesa che si chiude in se stessa e nel passato, una Chiesa che guarda soltanto le piccole regole di abitudini, di atteggiamenti, è una Chiesa che tradisce la propria identità. […] La Chiesa è apostolica perché preghiamo e perché annunciamo il Vangelo con la nostra vita e con le nostre parole.”
Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 16/10/2013 PAPA FRANCESCO
“L’evangelizzazione, nel nostro tempo, sarà possibile soltanto per contagio di gioia.”
Messaggio del Santo Padre per la XXIX Giornata Mondiale della Gioventù del 13 Aprile 2014, 06/02/2014 PAPA FRANCESCO
“La Chiesa ha bisogno del vostro coraggio, per annunciare il Vangelo in ogni occasione opportuna e non opportuna, e per dare testimonianza alla verità. ”
Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 19 nuovi Cardinali, 22/02/2014 PAPA FRANCESCO
“Non lesinate sforzi per aprire nuove vie al Vangelo, che raggiungano il cuore di tutti, affinché le persone scoprano quello che già alberga nel loro intimo: Cristo come amico e fratello.”
Discorso del Santo Padre in occasione della visita “Ad Limina Apostolorum” dei Presuli della Conferenza Episcopale di Spagna, 03/03/2014 PAPA FRANCESCO
“Non fermarsi: andare! Andare per le strade delle vostre città e dei vostri Paesi, e annunciare che Dio è Padre e che Gesù Cristo ve lo ha fatto conoscere, e per questo la vostra vita è cambiata: si può vivere da fratelli, portando dentro una speranza che non delude.”
Discorso del Santo Padre in occasione dell’Udienza all’Azione Cattolica Italiana, 03/05/2014 PAPA FRANCESCO
“Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto o zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze.
”Discorso del Santo Padre in occasione dell’Udienza ai Partecipanti all’Incontro promosso dalla Conferenza Italiana degli Istituti Secolari, 10/05/2014 PAPA FRANCESCO.
“Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione! Vi invito ad immergervi nella gioia del Vangelo, ed alimentare un amore in grado di illuminare la vostra vocazione e missione. Vi esorto a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del “primo amore” con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il cuore di ciascuno”
“Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti. Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.”
Discorso pronunciato dal Papa durante l’Angelus in Piazza San Pietro, 16/11/2014 PAPA FRANCESCO
“La missione di annunciare Cristo risorto non è un compito individuale: è da vivere in modo comunitario, con il collegio apostolico e con la comunità.
”Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa per la Canonizzazione di 4 Beate, 17/05/2015 PAPA FRANCESCO
La testimonianza più efficace e più autentica è quella di non contraddire, con il comportamento e con la vita, quanto si predica con la parola e quanto si insegna agli altri! Cari fratelli, insegnate la preghiera pregando; annunciate la fede credendo; date testimonianza vivendo!”
Omelia del Santo Padre in occasione della Celebrazione Eucaristica nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29/06/2015 PAPA FRANCESCO
Dal libro: APRITE LA MENTE AL VOSTRO CUORE“Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare e insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella Santa Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa resurrezione” PAPA FRANCESCO
“Portare il Vangelo è portare la forza di Dio per sradicare e demolire il male e la violenza; per distruggere e abbattere le barriere dell’egoismo, dell’intolleranza e dell’odio; per edificare un mondo nuovo.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa per la chiusura della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, 28/07/2013 PAPA FRANCESCO
“A chi è cristiano compete sempre questa testimonianza evangelica: proteggere la vita con coraggio e amore in tutte le sue fasi. Vi incoraggio a farlo sempre con lo stile della vicinanza, della prossimità: che ogni donna si senta considerata come persona, ascoltata, accolta, accompagnata.”
Discorso del Santo Padre in occasione dell’Udienza al Movimento per la Vita italiano, 11/04/2014 PAPA FRANCESCO
“Non abbiate paura della gioia! Quella gioia che ci dà il Signore quando lo lasciamo entrare nella nostra vita, lasciamo che Lui entri nella nostra vita e ci inviti ad andare fuori noi alle periferie della vita e annunciare il Vangelo. Non abbiate paura della gioia. Gioia e coraggio!”
Discorso pronunciato dal Papa durante l’Angelus in Piazza San Pietro, 07/07/2013 PAPA FRANCESCO
“Essere Chiesa non significa gestire, ma uscire, essere missionari, portare agli uomini la luce della fede e la gioia del Vangelo.”
Discorso del Santo Padre in occasione della visita “Ad Limina Apostolorum” dei Presuli della Conferenza Episcopale dell’Austria, 30/01/2014 PAPA FRANCESCO.
“Uscire, partire, non vuol dire dimenticare. La Chiesa in uscita custodisce la memoria di ciò che nel Cenacolo è accaduto; lo Spirito Paraclito le ricorda ogni parola, ogni gesto, e ne rivela il senso.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa con gli Ordinari di Terra Santa al Cenacolo (Terra Santa), 26/05/2014 PAPA FRANCESCO
“Segno evidente della cattolicità della Chiesa è che essa parla tutte le lingue. E questo non è altro che l’effetto della Pentecoste: è lo Spirito Santo, infatti, che ha messo in grado gli Apostoli e la Chiesa intera di far risuonare a tutti, fino ai confini della terra, la Bella Notizia della salvezza e dell’amore di Dio.”
Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 17/09/2014PAPA FRANCESCO
“Tutti noi battezzati, figli della Chiesa, siamo chiamati ad accogliere sempre nuovamente la presenza di Dio in mezzo a noi e ad aiutare gli altri a scoprirla, o a riscoprirla qualora l’avessero dimenticata. Si tratta di una missione bellissima, simile a quella di Giovanni Battista: orientare la gente a Cristo – non a noi stessi”!
Discorso pronunciato dal Papa durante l’Angelus in Piazza San Pietro, 14/12/2014 PAPA FRANCESCO.
“Attraverso il nostro Battesimo, siamo chiamati ad essere evangelizzatori e a testimoniare la buona novella di Gesù ovunque ci troviamo. Ma siamo chiamati anche ad andare oltre, ad essere una comunità evangelizzatrice, anche se questo può voler semplicemente dire aprire le porte delle nostre case e far entrare i nostri vicini.”Discorso del Santo Padre in occasione della Visita “ad Limina Apostolorum” dei Presuli della Conferenza Episcopale del Giappone, 20/03/2015 PAPA FRANCESCO.
“La pace sia con voi”. Sono le parole con le quali Gesù risorto salutò i suoi discepoli quando apparve in mezzo a loro nel Cenacolo, la sera di Pasqua. È Lui, il Signore, nostra forza e nostra speranza, che ci dona la sua pace, perché la accogliamo nel nostro cuore e la diffondiamo con gioia e con amore.
Video-messaggio di Papa Francesco alla vigilia del Viaggio Apostolico a Sarajevo (Bosnia ed Erzegovina), 02/06/2015 PAPA FRANCESCO
“Quando siamo stanchi o ci diventa pesante il compito di evangelizzare, è bene ricordare che la vita che Gesù ci offre risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per l’amicizia con Gesù e per l’amore fraterno.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa a Ñu Guazú di Asunción – Viaggio Apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay, 12/07/2015 PAPA FRANCESCO
Dal libro: EVANGELII GAUDIUM. ESORTAZIONE APOSTOLICA “Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio.” PAPA FRANCESCO
“Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra”
Discorso del Santo Padre durante l’Udienza al Collegio Cardinalizio, 15/03/2013 PAPA FRANCESCO
“Si può pensare che l’evangelizzazione dobbiamo programmarla a tavolino, pensando alle strategie, facendo dei piani. Ma questi sono strumenti, piccoli strumenti. L’importante è Gesù e lasciarsi guidare da Lui. Poi possiamo fare le strategie, ma questo è secondario.”
Risposta alle domande poste dai fedeli in occasione della veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18/05/2013 PAPA FRANCESCO
“A volte sembra che si ripeta oggi quello che è accaduto a Babele: divisioni, incapacità di comprendersi, rivalità, invidie, egoismo. […] Portare il Vangelo è annunciare e vivere noi per primi la riconciliazione, il perdono, la pace, l’unità e l’amore che lo SpiritoSanto ci dona. ”
Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 22/05/2013PAPA FRANCESCO
“La diffusione del Vangelo non è assicurata né dal numero delle persone, né dal prestigio dell’istituzione, né dalla quantità di risorse disponibili. Quello che conta è essere permeati dall’amore di Cristo, lasciarsi condurre dallo SpiritoSanto, e innestare la propria vita nell’albero della vita, che è la Croce del Signore.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa per la “Giornata dei Seminaristi, Novizi, Novizie e di quanti sono in Cammino Vocazionale”, 07/07/2013 PAPA FRANCESCO
“La fecondità pastorale, la fecondità dell’annuncio del Vangelo non è data né dal successo, né dall’insuccesso secondo criteri di valutazione umana, ma dal conformarsi alla logica della Croce di Gesù, che è la logica dell’uscire da se stessi e donarsi, la logica dell’amore.”
Omelia del Santo Padre durante la Santa Messa per la “Giornata dei Seminaristi, Novizi, Novizie e di quanti sono in Cammino Vocazionale”, 07/07/2013 PAPA FRANCESCO
“E’ dalla contemplazione, da un forte rapporto di amicizia con il Signore che nasce in noi la capacità di vivere e di portare l’amore di Dio, la sua misericordia, la sua tenerezza verso gli altri. E anche il nostro lavoro con il fratello bisognoso, il nostro lavoro di carità nelle opere di misericordia, ci porta al Signore”
Discorso pronunciato dal Papa durante l’Angelus in Piazza San Pietro, 21/07/2013 PAPA FRANCESCO
“La Chiesa ha le sue radici nell’insegnamento degli Apostoli, testimoni autentici di Cristo, ma guarda al futuro, ha la ferma coscienza di essere inviata – inviata da Gesù – , di essere missionaria, portando il nome di Gesù con la preghiera, l’annuncio e la testimonianza.”
Catechesi del Santo Padre in occasione dell’Udienza Generale, 16/10/2013 PAPA FRANCESCO
“Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la comunione e per la vita eterna.
”Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2014, 26/12/2013 PAPA FRANCESCO
“Siamo chiamati a diventare nel mondo un Vangelo vivente: con una vita santa daremo “sapore” ai diversi ambienti e li difenderemo dalla corruzione, come fa il sale.
Discorso pronunciato dal Papa durante l’Angelus in Piazza San Pietro, 09/02/2014 PAPA FRANCESCO
“Bisogna impegnarsi sulla preparazione del terreno, sulla larghezza della semina. Agire come fiduciosi seminatori, evitando la paura di chi si illude che il raccolto dipenda solo da sé, o l’atteggiamento disperato degli scolari che, avendo tralasciato di fare i compiti, gridano che ormai non c’è più nulla da fare.”
Discorso del Santo Padre alla Riunione della Congregazione per i Vescovi, 27/02/2014 PAPA FRANCESCO
“Una famiglia evangelizzata è un prezioso agente di evangelizzazione, soprattutto perché irradia le meraviglie che Dio ha operato in essa.
”Discorso del Santo Padre in occasione della visita “Ad Limina Apostolorum” dei Presuli della Conferenza Episcopale di Spagna, 03/03/2014 PAPA FRANCESCO
“La Parola di Cristo in noi cresce quando noi la proclamiamo, quando noi la diamo agli altri! E questa è la vita cristiana. E’ una missione per tutta la Chiesa, per tutti i battezzati, per tutti noi.”
Parole di Papa Francesco durante la recita dell’Angelus, 14/03/2014 PAPA FRANCESCO