Ovunque tu sia su questo grande pianeta blu, chiunque tu sia e comunque tu viva la tua vita, una verità è universale: la Terra è casa e appartiene a tutti noi. Amiamo le cose importanti. Per le sfide future: coraggio. Per le lotte interne: la pace. E per ognuno di noi che sogna, desidera e lotta per un futuro più verde, più pacifico e più equo per tutti.
«Siano tranquilli quelli che ti amano! Sia pace nelle tue mura e sicurezza nei tuoi palazzi!»” (Salmo 122:6-7)
“Le tue porte, Gerusalemme, saranno ricostruite con zaffiro e smeraldo, le tue mura saranno fatte di pietre preziose. Le tue torri, Gerusalemme, saranno d’oro e tutti i tuoi bastioni di oro puro. Le vie di Gerusalemme saranno lastricate con pietre preziose. Dalle porte di Gerusalemme si alzeranno inni di gioia, tutte le sue case canteranno: ‘Alleluia! Sia benedetto il Dio d’Israele’. I fedeli benediranno sempre il Signore che è santo.”
Gerusalemme è una città unica al mondo, ricca di storia, cultura e spiritualità. Visitare Gerusalemme significa immergersi in un’atmosfera senza tempo, dove si incontrano le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam.
Provo a descrivervi i luoghi principali di questa città affascinante e suggestiva.
La Città Vecchia
Il cuore di Gerusalemme è la Città Vecchia, circondata da mura antiche e divisa in quattro quartieri: ebraico, musulmano, cristiano ed armeno. Qui si trovano alcuni dei siti più sacri e importanti per le tre fedi, come il Muro del Pianto, la Spianata delle Moschee e la Basilica del Santo Sepolcro. La Città Vecchia si può esplorare a piedi, seguendo le strette vie lastricate di pietra, i vicoli colorati dai bazar e le tracce della storia millenaria di Gerusalemme.
Il Muro del Pianto
Il Muro del Pianto o Muro Occidentale è l’unico reperto rimasto del Secondo Tempio di Gerusalemme (516 aC-70 dC)
Il Muro del Pianto è il luogo più sacro per gli ebrei, poiché rappresenta l’unico resto del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. Il Muro è lungo 488 metri, ma solo una parte è visibile nella piazza che lo fronteggia. Qui gli ebrei si recano per pregare e inserire dei bigliettini con le loro richieste tra le fessure delle pietre. Il venerdì sera si assiste alla cerimonia dello Shabbat, il giorno sacro della settimana.
Il lamento dell’esiliato a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C.
La Spianata delle Moschee
La Spianata delle Moschee è il terzo luogo più sacro per l’islam dopo La Mecca e Medina. Qui sorgeva il Tempio di Salomone ed è qui che il profeta Maometto salì al cielo secondo la tradizione musulmana. La Spianata ospita due splendide moschee: la Cupola della Roccia, con la sua cupola dorata che domina il panorama della città, e la Moschea di Al-Aqsa, con i suoi archi decorati. L’accesso alla Spianata è consentito solo ai musulmani; gli altri visitatori possono ammirarla dal Monte degli Ulivi o dalla Porta dei Magrebini.
La Basilica del Santo Sepolcro
La Basilica del Santo Sepolcro è il luogo più sacro per i cristiani, poiché custodisce il sepolcro di Gesù Cristo e il Golgota (Calvario), il luogo della sua crocifissione. La Basilica è un complesso architettonico che racchiude diverse cappelle gestite da varie confessioni cristiane (ortodossa greca, cattolica romana, armena apostolica ecc.). All’interno si possono ammirare opere d’arte di grande valore storico-artistico come l’Edicola del Santo Sepolcro o l’Altare del Golgota.
Santo Sepolcro
La Città Nuova
Oltre alla Città Vecchia ci sono altre zone interessanti da visitare nella parte moderna di Gerusalemme. Una di queste è il Mercato Mahane Yehuda, un vivace mercato all’aperto dove si possono trovare frutta fresca, verdura, spezie, dolci, prodotti tipici e molto altro ancora. Un altro luogo da non perdere è Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto che documenta la tragedia degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale attraverso testimonianze, foto, video e oggetti personali. Infine, si può salire sul Monte degli Ulivi per godere di una vista panoramica sulla città e visitare alcuni siti religiosi come il Giardino dei Getsemani e la Tomba della Vergine Maria.
Tomba della Vergine Maria.
Giardino del Getsemani
Gerusalemme è una città che suscita emozioni intense e contrastanti in chi la visita. È il luogo sacro per le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam e anche il teatro di conflitti storici e attuali che ne minacciano la pace e la convivenza. Ma è anche una città ricca di bellezza, cultura e spiritualità, che offre al visitatore esperienze uniche e indimenticabili.
Voglio condividere con voi le emozioni che ho provato nel vedere i luoghi più significativi di Gerusalemme, sperando di trasmettervi un po’ dello stupore di questa città anche se è impossibile raccontare tutti i posti che ho visitato, ognuno degno di essere descritto come si deve ma questo è solo un piccolo approccio iniziale…ne citerò alcuni..
La prima tappa è stata la Città Vecchia, circondata da mura imponenti e divisa in quattro quartieri: armeno, cristiano, ebraico e musulmano. Entrando dalla Porta di Giaffa si respira subito l’atmosfera antica e multiculturale della città. Si cammina tra vicoli stretti e affollati, dove si incontrano negozi di souvenir, bancarelle di spezie, chiese, sinagoghe e moschee.
Souvenir, bancarelle di spezie
Uno dei luoghi più emozionanti è il Muro del Pianto (o Kotel), l’unico resto del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. È il luogo più sacro per gli Ebrei, che vi si recano per pregare e inserire dei bigliettini con le loro richieste tra le fessure delle pietre. Ho provato un senso di rispetto e commozione nel vedere tanta devozione e speranza.
Un altro luogo che mi ha colpito è la Basilica del Santo Sepolcro (o Chiesa della Resurrezione), il luogo dove secondo la tradizione cristiana Gesù fu crocifisso, sepolto e risorto. La basilica è un complesso architettonico composto da diverse cappelle gestite da varie confessioni cristiane. Al suo interno si trovano il Golgota (il luogo della crocifissione), l’Edicola (la tomba vuota di Gesù) e la Pietra dell’Unzione (dove fu preparato il corpo di Gesù per la sepoltura). Ho provato una forte emozione nel toccare questi luoghi così carichi di storia e fede.
Infine ho visitato la Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio), il terzo luogo più sacro per i Musulmani dopo La Mecca e Medina. Qui sorgono due splendide moschee: la Cupola della Roccia (dove secondo la tradizione islamica Maometto salì al cielo) e la Moschea al-Aqsa (la prima direzione della preghiera islamica prima della Mecca). Ho provato una sensazione di meraviglia nel vedere i colori brillanti delle cupole dorate e dei mosaici azzurri.
Gerusalemme è una città che mi ha fatto vivere emozioni contrastanti: da una parte ho sentito la gioia di scoprire luoghi ricchi di significato spirituale; dall’altra ho avvertito il dolore di vedere le ferite ancora aperte dei conflitti tra popoli diversi. Spero che un giorno Gerusalemme possa essere davvero una città di pace.
Per concludere voglio condividere con voi alcuni versetti della sacra scrittura che parlano di Gerusalemme, la città santa e amata da Dio. Gerusalemme è il luogo dove si è manifestata la gloria di Dio, dove ha stabilito il suo tempio, dove ha inviato il suo Figlio Gesù Cristo per la salvezza del mondo. Gerusalemme è anche il simbolo della Chiesa e della patria celeste, verso cui siamo pellegrini sulla terra.
Ecco alcuni versetti che ho scelto per voi:
“Ma io ho posto il mio re sul Sion mio santo monte”. (Salmo 2:6)
“Gerusalemme è edificata come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore: è legge per Israele rendere grazie al nome del Signore.” (Salmo 122:3-4)
“Prega per la pace di Gerusalemme: «Siano tranquilli quelli che ti amano! Sia pace nelle tue mura e sicurezza nei tuoi palazzi!»” (Salmo 122:6-7)
“Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio; perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia; come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli. Poiché come la terra fa germogliare i suoi germogli e come un giardino fa spuntare i suoi semi così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le nazioni. Per amore di Sion non tacerò e per amore di Gerusalemme non mi darò pace finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada.” (Isaia 61:10 – 62:1)
Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada(Ap 21, 2)
I pellegrinaggi a Gerusalemme
“Tre volte all’anno celebrerai una festa in mio onore. Osserva lafesta dei Pani non lievitati: nella ricorrenza del mese di Abib, il mese in cui sei uscito dall’Egitto, devi mangiare per sette giorni pane non lievitato, come io ti ho comandato. Nessuno osi presentarsi al mio santuario a mani vuote. Osserva la festa della Mietitura, quando inizi a raccogliere quel che hai seminato nel tuo campo. Osserva la festa del Raccolto, al termine dell’anno quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. In queste tre feste annuali gli uomini si presenteranno a me, il Signore vostro Dio, nel mio santuario”. – Es 23:14-
Tre Feste annuali dovevano essere celebrate, per ordine di Dio, a Gerusalemme. Da tutta Israele, almeno gli uomini dovevano recarsi in pellegrinaggio nella città santa. Queste tre occasioni riguardavano:
Primo pellegrinaggio. Pasqua e Festa dei Pani Azzimi, dal 15 al 21 nissàn.
Secondo pellegrinaggio. Festa di Pentecoste, detta anche Festa delle Settimane e Festa della Mietitura, nel mese di sivàn.
Terzo pellegrinaggio. Festa delle Capanne, detta anche Festa del Raccolto, dal 15 al 21 tishrì.
Queste tre Feste fanno parte delle “solennità del Signore”, da celebrarsi “come sante convocazioni” (Lv 23:2). La parola resa “solennità” è nel testo ebraico מֹועֲדֵי (moadè), stato costrutto di מֹועֲדִים (moadìm), che può essere resa “appuntamenti”: si tratta dei momenti d’incontro con Dio, delle sue sante Festività. In Sl 104:19 è detto che Dio “ha fatto la luna per stabilire i מֹועֲדִים [moadìm]”. La versione PdS traduce “per segnare il tempo”; NR, “per stabilire le stagioni”; TNM, “per i tempi fissati”. La verità è che Dio ha fatto la luna per indicare i מֹועֲדִים (moadìm), le sue sante solennità. Le Feste bibliche vanno quindi osservate secondo il calendario lunare biblico.
Il popolo d’Israele era protetto da Dio stesso mentre la popolazione si recava a Gerusalemme per i tre pellegrinaggi: “Io scaccerò davanti a te delle nazioni e allargherò i tuoi confini; nessuno oserà appropriarsi del tuo paese, quando salirai, tre volte all’anno, per comparire alla presenza del Signore, che è il tuo Dio” – Es 34:24.
Il fatto che siano comandati di compiere questi tre pellegrinaggi in modo specifico gli uomini, non esclude (e, di fatto, non escluse) la partecipazione dell’intera famiglia. Da 1Sam 1:7, ad esempio, sappiamo che Anna madre di Samuele partecipava.
Queste tre Feste erano intimamente legate alla raccolta (Es 23:14-17). La Festa dei Pani Azzimi iniziava il 15 nissàn e coincideva con la raccolta dell’orzo; il giorno dopo il sabato settimanale (nostra domenica) che cadeva durante questa Festa (Lv 23:15), il sommo sacerdote doveva agitare dinanzi a Dio un covone di spighe tratto dalle primizie della raccolta dell’orzo. La Festa delle Settimane o Pentecoste cadeva il 50° giorno, nuovamente domenica (per noi), dopo quella domenica in cui si offriva il covone; era la Festa “delle primizie della mietitura del frumento” (Es 34:22). La Festa delle Capanne o della raccolta iniziava il 15° giorno del mese di etanìm o tishrì e concludeva allegramente l’anno agricolo. Erano quindi occasioni adatte perché le famiglie al completo facessero festa. – Dt 16:14,15.
“Che gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore!’. E ora i nostri passi si fermano alle tue porte, Gerusalemme”. – Sl 122:1,2,
Una di queste occasioni, narrata dal Vangelo, vide Yeshùa dodicenne partecipare al pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, secondo l’uso ebraico (Lc 2:42). Giuseppe Flavio calcolò l’ammontare della folla per la Pasqua a circa tre milioni di persone (Guerra Giudaica, 6,9,3). Proprio perché le famiglie partecipavano con tutta la parentela, quando la carovana con i genitori di Yeshùa ripartì, non ci si rese subito conto che lui mancava. Poteva essere con qualche parente o amico della comitiva (ormai aveva dodici anni). Fu solo alla prima tappa che, non trovandolo, tornano a Gerusalemme, dove lo ritrovarono al Tempio. – Lc 2:48.
Le Festività sacre di Dio davano modo agli israeliti di riservare del tempo per rendere culto a Dio e per meditare sulla sua santa Legge, stando insieme come popolo. Avevano anche occasione di viaggiare e di conoscere la Terra che Dio aveva dato loro. Quei pellegrinaggi erano davvero motivo di contentezza. Dopo che Gerusalemme fu distrutta, il profeta descrive il profondo abbattimento della popolazione richiamando la mancanza delle Feste: “Le strade di Sion sono in lutto perché nessuno va più alle feste, le sue piazze sono deserte”, “[Dio] ha ridotto il suo tempio a un giardino devastato, ha demolito il luogo dove incontrava il suo popolo. Il Signore ha fatto dimenticare in Sion le feste e il sabato” (Lam 1:4;2:6, PdS). Allo stesso modo, le Feste sono prese a immagine della condizione migliore. Il profeta annuncia: “Tu, popolo di Dio, canterai come in una notte di festa. Sarai gioioso come quando, al suono del flauto, sali alla montagna del Signore, la Roccia d’Israele”. – Is 30:29
Essendo la società ebraica agricola, gli israeliti dipendevano dalla benedizione di Dio sulla terra. Le tre grandi Feste che richiedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme, avvenivano all’inizio della primavera (mietitura dell’orzo), nella tarda primavera (mietitura del frumento) e a fine estate (resto del raccolto). Erano occasioni non solo di grande allegria ma anche di profonda gratitudine verso Dio che aveva assicurato la pioggia necessaria perché il paese fosse produttivo. Dio aveva promesso al suo popolo: “Nella terra in cui andate ci sono monti e valli, e il suolo è irrigato dalla pioggia. Il Signore, vostro Dio, si prende cura di questa terra e la rende sempre rigogliosa dall’inizio alla fine dell’anno. Se ubbidirete veramente agli ordini che oggi vi comunico: se amerete il Signore, vostro Dio, e lo servirete con tutto il cuore e con tutta l’anima, egli farà scendere la pioggia sui vostri campi nella stagione giusta, in autunno e in primavera, e voi ne ricaverete frumento, vino e olio. Il Signore farà crescere nei pascoli l’erba per il vostro bestiame. Avrete sempre da mangiare e da saziarvi!”. – Dt 11:11-15.
Riusciamo a immaginare la grande impressione che doveva fare Gerusalemme in piena festa? Mentre si saliva alla città santa, che è a un’altitudine di circa 700 m, la capitale d’Israele era già visibile a distanza. L’emozione cresceva. Più grande impressione doveva fare il Tempio che spiccava meraviglioso e imponente. L’emozione cresceva quando il suono delle trombe segnava l’inizio delle cerimonie sacre.
Spero che questi versetti ci faccianoo riflettere sulla bellezza e l’importanza di Gerusalemme nella storia della salvezza.
Tutta la Sacra Scrittura è piena di tesori nascosti nella Parola di Dio!
Canto dei pellegrini. Salmo di Davide. Che gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore!’. E ora i nostri passi si fermano alle tue porte, Gerusalemme. Gerusalemme, città ben costruita, raccolta entro le tue mura! A te salgono le tribù, le tribù del Signore. Qui Israele deve lodare il nome del Signore. Qui, nel palazzo di Davide, siedono i re a rendere giustizia. Pregate per la pace di Gerusalemme. Dite: ‘Sicurezza per chi ti ama, pace entro le tue mura, prosperità nei tuoi palazzi!’. Per amore dei miei parenti e vicini io dico: ‘Pace su di te!’. Per amore della casa del Signore, nostro Dio, voglio chiedere per te ogni bene.
Isaia 2:3
Molti popoli vi accorreranno, e diranno: «Venite, saliamo al monte del SIGNORE, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci insegnerà le sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri». Da Sion, infatti, uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del SIGNORE.
Salmi 122:6
Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
Salmi 128:5
Il SIGNORE ti benedica da Sion! Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita.
Salmi 137:6
resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.
Cantico 2:7
Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro per le gazzelle, per le cerve dei campi, non svegliate, non svegliate l’amore mio, finché lei non lo desideri!
Cantico 8:4
Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro, non svegliate, non svegliate l’amor mio, finché lei non lo desideri!
Isaia 33:20
Contempla Sion, la città delle nostre solennità! I tuoi occhi vedranno Gerusalemme, soggiorno tranquillo, tenda che non sarà mai trasportata, i cui picchetti non saranno mai divelti, il cui cordame non sarà mai strappato.
Salmi 122:6
Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
Cantico 5:8
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio amico, che gli direte? Che sono malata d’amore.
Idea Progettazione di Marilena MarinoVocedivina,it
A dispetto di molti che reputano il Medioevo come uno dei momenti più bui dell’umanità, la nascita del teatro sacro è una prova – invece – della sua vivacità nel creare linguaggi sempre nuovi che hanno segnato la storia. Il teatro sacro nasce nella Chiesa e dalla Chiesa, non solo idealmente ma strutturalmente: le navate e l’altare diventano scenografia; i presbiteri, autori e attori delle storie bibliche messe in scena; e i fedeli, primi spettatori di questi “misteri sacri” che dal Mistero della Fede attingono.
Sviluppato intorno alla metà del XIII secolo, nella sua totale emancipazione dall’influsso ecclesiastico, il teatro sacro trova fondamenti storici in alcuni monasteri francesi, intorno alla metà del X secolo. In questi monasteri si attuava una rielaborazione dei passi più importanti della Sacra Scrittura. Questi brani tratti dalla Bibbia venivano cantati inserendo delle parole nei vocalizzi finali: erano i Traineés de Notes, Sequelae o Jubili, o più generalmente conosciuti come tropi (dal latino tropus che ha il significato di verso).
Il filologo italiano Vincenzo De Bartholomaeis, nella sua indagine Laudi drammatiche e rappresentazioni sacre (Firenze, Le Monnier, 1943), menzionando come stadio preliminare al teatro sacro i passi dialogati del Responsoriale romano (sec. VII-VIII) per il periodo dell’Avvento e della Quaresima, individua i primi abbozzi dei drammi liturgici proprio nei tropi, specialmente in quelli creati nell’abbazia di San Gallo, in Svizzera. Ed è un nome che, primo fra tutti, viene individuato: è quello di Tuotilo di San Gallo, indicato anche come Tutilo o Tutilone (850 circa – 915 circa), monaco e compositore tedesco, che – prendendo spunto dal testo romano dell’ufficio notturno della Pasqua – crea un vero e proprio dramma teatrale: è il famoso Quem quaerintis in sepulcro o Christicolae?, prima forma drammatico-liturgica conosciuta nel rituale cristiano, che narra la visita al Santo Sepolcro delle tre Marie e l’annuncio dato dall’angelo dell’avvenuta Resurrezione. Il dialogo in quattro versi – che di norma veniva recitato dai canonici durante l’introito della messa di Pasqua – veniva interpretato da quattro sacerdoti: tre per i personaggi delle Marie e uno per sostenere il ruolo dell’angelo.
Con il tempo i drammi liturgici divennero sempre più lunghi e complessi e vennero, dunque, separati dalle funzioni religiose perché neanche le chiese più grandi erano più in grado di ospitare la folla che si radunava intorno a questi spettacoli. Fu allora che il dramma si trasferì all’esterno, sui gradini dei sagrati delle chiese, anche se cominciarono ad insorgere dei dubbi da parte delle autorità ecclesiastiche per il forte impatto delle rappresentazioni sulla vita del popolo.
A partire dal XII secolo, accanto ai drammi liturgici, si affiancano – così – nuove strutture drammaturgiche: sono i Misteri, nuova forma teatrale che – assieme alla musica – viene espressa non più nella lingua ufficiale della Chiesa, il latino, bensì in lingua volgare. La testimonianza iconografica più importante, in questo senso, è la raffigurazione della cosiddetta Passione di Valenciennes: in questa rappresentazione convivono la casa della Madonna per l’Annunciazione, il Tempio della Presentazione, il Palazzo di Erode, il Paradiso e l’Inferno. Per realizzare ciò si provvedeva a una lunga sequela di costruzioni chiamate edicole – definite così per la loro forma tondeggiante – aperte in direzione dello sguardo dello spettatore.
Nel corso del Seicento e Settecento si sviluppa un’altra forma teatrale che dai precedenti sviluppi drammaturgici prende spunto: sono gli Oratori che vanno a sostituire progressivamente le monodie medievali e rinascimentali. Anche in questo caso, è la Passione di Cristo ad essere il tema più rappresentato. Di questo nuovo filone teatrale, emergono in particolare due sottocategorie: la prima vedeva l’impiego di testi tratti – con profondo rigore – dai Vangeli, accompagnati da arie o musiche; mentre la seconda sottocategoria attingeva sempre alle Sacre Scritture, ma queste erano solo uno spunto tematico per poi sviluppare la trama in modo originale e indipendente.
All’epoca della Riforma, tra diverse rappresentazioni sacre, possiamo ricordare in particolar modo una Passione messa in scena a Zurigo da Jakob Ruf, scrittore della Germania meridionale, che rimase fedele al testo biblico, rinunciando ad episodi a effetto. Dal 1570 circa, l’ortodossia calvinista criticò duramente lo sfarzo degli accessori scenici e l’esaltazione del Cristo sofferente, condannando la messinscena dei drammi biblici come un’eresia. Il divieto di rappresentazioni teatrali decretato a Ginevra nel 1617 e a Zurigo nel 1624 contribuì alla riduzione dell’attività teatrale nel XVII secolo.
Sul finire dell’Ottocento si assiste ad un vero e proprio recupero del sacro in teatro che, nel Novecento, troverà poi uno sviluppo inatteso. Autori come Strindberg, Claudel, Maeterlinck, Hofmannsthal ed Eliot si cimentano in testi dove la Sacra Scrittura trova nuovamente spazio: testi lontani dalle sacre rappresentazioni medievali, ovviamente, ma che testimoniano quanto il tema della fede sia importante per la letteratura.
Sacre rappresentazioni, drammi liturgici, misteri: una tradizione millenaria che nel nostro oggi sta trovando sempre maggiore rilevanza grazie ai molteplici festival teatrali dedicati al tema del sacro. Ma non solo: a queste rassegne si affiancano non pochi comuni italiani che, proprio durante la Settimana Santa, allestiscono piazze e strade per accogliere storiche rappresentazioni della Passione di Cristo.
di Antonio Tarallo
di Marilena Marino
L’uomo ha sempre avvertito il bisogno di socializzare e riunirsi in gruppi, non solo per motivi di sopravvivenza, ma anche allo scopo di celebrare il rito, il mito e la caccia, che sono stati individuati dagli antropologi teatrali quali luoghi di origine del teatro.
Dopo la caduta dell’Impero (476) gli spettacoli vengono proibiti dalla Chiesa. Il teatro scompare.
Verso l’anno 1000 si sviluppa il teatro sacro, che si svolge all’interno della Chiesa, durante la Settimana Santa per rappresentare la Passione. la sacra rappresentazione e forme analoghe di teatro si hanno in Francia, Spagna e Inghilterra.
Parallelamente, nelle corti feudali, si sviluppano intrattenimenti laici e forme di teatro popolare.
Il teatro religioso
I primi spettacoli teatrali mettevano in scena episodi tratti dalle Sacre Scritture. Si svolgevano per le strade, sul sagrato della chiesa, nella piazza ed erano finalizzati all’edificazione e all’istruzione dei fedeli. Per coinvolgere gli spettatori, la rappresentazione (jeu) utilizzava un linguaggio semplice e piano, che talvolta accoglieva espressioni popolari. La prima opera drammatica in volgare francese è l’anonimo Jeu d’Adam (circa 1150), tratto alquanto liberamente dall’episodio della Genesi.
Nel Medioevo l’Europa si trovò senza un vero e proprio centro culturale e politico e nessun autore ebbe la rilevanza degli antichi. Mentre il mondo classico si era distinto per i suoi prestigiosi centri di cultura come Atene, Roma e Bisanzio e grandi autori quali Euripide e Menandro, il mondo medioevale si caratterizzò per lo stato-nazione composto da una confederazione di comunità autonome. Gli autori furono spesso anonimi, ma non mancano interessanti figure di letterati, come Rosvita, una monaca tedesca del X secolo, le cui sei opere ci danno una visione unica del teatro di quel periodo.
Tale passaggio comportò una certa discontinuità nel mondo teatrale europeo. Il cristianesimo antico, infatti, mostrò un aperto dissenso nei confronti del teatro e lo condannò perché lo considerava fonte di oscenità e menzogne, come testimoniano i documenti pontifici diffusi durante il Medioevo. I chierici, per esempio, ebbero la proibizione di frequentare istrioni e giocolieri. L’attività teatrale, però, prosperava e non era possibile eliminarla, si doveva limitarla o assimilarla volgendo la situazione a proprio favore. Si decise allora di spostare il dramma dai luoghi deputati all’ippodromo dove gli spettacoli con animali e le competizioni sportive potevano essere completati con le recite dei mimi. Un altro provvedimento fu quello di non elargire più fondi statali a favore del teatro. Il processo di assimilazione ebbe più successo della limitazione e il cristianesimo si impose sul paganesimo: le feste pagane si tramutarono in feste cristiane, i templi diventarono chiese e i santuari pagani furono adibiti a cimiteri. Durante le funzioni religiose fu inserita la musica antifonaria e alcuni passi del Vangelo vennero messi in scena e commentati dal sacerdote.
Una forma particolare di dramma che si diffuse in Europa durante il Medioevo fu la sacra rappresentazione nella quale venivano raffigurate vicende a sfondo religioso, come l’Annunciazione o la Passione, e storie attinte dalla Bibbia. Il teatro medioevale si sviluppò progressivamente dalle chiese e accolse forme drammatiche differenti mescolate fra loro (cristiane e pagane), unite dal rituale proprio delle cerimonie liturgiche, effettuate sia in chiesa che nelle feste stagionali popolari in appropriati momenti del calendario. Le prime recite fatte all’interno delle chiese ben presto ebbero bisogno di uno spazio scenico più ampio per soddisfare l’esigenza di utilizzare scenografie multiple, dove si presentavano contemporaneamente più scene della vita di Cristo.
Si costruirono dei palcoscenici nei sagrati all’esterno delle chiese che diedero l’opportunità di mettere in scena anche rappresentazioni teatrali con tematiche profane e alcune recite furono fatte anche nelle piazze. Per dare maggiore spettacolarità alle rappresentazioni, ai palcoscenici furono aggiunti semplici ma efficaci trucchi scenici, ingranaggi e botole. Dopo il 1300 le confraternite si accollarono l’onere di organizzare gli spettacoli, aiutati dalle corporazioni che si preoccupavano di costruire e arredare le scene. In genere i palchi venivano costruiti con assi di legno, collocate in modo diverso, in circolo o in linea retta, a seconda della rappresentazione. Nonostante la rottura con la drammaturgia classica, la messa in scena dei drammi medioevali mostrò quanto il mondo medioevale fosse ancora legato al mondo romano. I papi romani presero il posto degli imperatori romani ma furono simili a loro in alcuni aspetti rilevanti: uso della lingua latina, controllo del territorio, conflittualità dei diversi gruppi in lotta per la conquista del potere. Accanto ai drammi biblici, nel Medioevo europeo furono rappresentati i drammi sacri sulla vita dei santi che presero il posto degli dei greco-romani: i miracoli o il martirio di un santo, inglese o francese che fosse, divennero popolari quanto i drammi biblici.
L’aspetto più interessante di queste rappresentazioni consisteva nella natura locale e particolare del culto del santo: i fedeli avvertivano la necessità di festeggiare il proprio santo patrono con rappresentazioni teatrali, orazioni e bancarelle di mercato; le chiese si trasformavano in luoghi di pellegrinaggio dove venivano esposte le reliquie dei santi; le associazioni artigiane dedicavano una cappella al proprio santo protettore; anche i re ricorsero ai santi nazionali, come fece Giorgio d’Inghilterra. Lo sviluppo del culto dei santi e delle attività teatrali che vennero messe in scena per farli conoscere e amare, contribuì a costruire l’identità di gruppo. Nel Medioevo le processioni ricoprirono un ruolo importante nella vita della città medioevale, come lo era stato per i cortei nei centri urbani nell’antichità, dove gli attori camminavano per le vie accompagnati da carri su cui venivano messi in scena momenti particolari della vita di Dioniso. Quando Cristo prese il posto di Dioniso, furono mostrate in processione scene attinte dalla Bibbia, che si trasformarono poi in rappresentazioni teatrali. Con il passare del tempo, il teatro si spostò nella città stessa e gli spettacoli furono recitati all’aperto nella stagione estiva, con la partecipazione dell’intera comunità, o al coperto nelle ricche abitazioni in inverno.
giullare a corte
Le rappresentazioni teatrali fecero ancora parte di cerimonie religiose e la chiesa diede la propria disponibilità nei locali al chiuso per ospitare eventi comunitari di tutti i generi. Una figura caratteristica del Medioevo fu quella dei giullari, dei veri e propri performer capaci di trasformare corpo o viso a secondo dell’attività scenica: giocolieri, saltimbanchi, ballerini, acrobati, cantastorie e motteggiatori erano diffusi in tutta la zona neolatina. La loro figura, condannata dalla Chiesa, va ricollegata a quella del mimo o dell’istrione romano. Attori professionisti a tutti gli effetti, si guadagnavano da vivere intrattenendo il popolo nelle piazze o rallegrando gli invitati ad un banchetto o ad un festino. Le ragioni del crollo del teatro medioevale nelle diverse parti d’Europa furono complesse: più che di una mancanza d’interesse si trattò di una repressione crescente nelle nazioni cattoliche causata anche da fattori politici ed economici.
La passione di Cristo è uno dei temi più ricorrenti e affascinanti del teatro religioso e popolare. Si tratta di una forma di espressione artistica che ha origini antiche e che si è diffusa in diverse regioni d’Italia e del mondo, assumendo caratteristiche diverse a seconda dei contesti storici, culturali e geografici.
La passione di Cristo consiste nella rievocazione scenica degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dalla sua entrata trionfale a Gerusalemme fino alla sua crocifissione, morte e resurrezione. Attraverso il linguaggio teatrale, si intende trasmettere il messaggio evangelico e suscitare emozioni e riflessioni nel pubblico.
Tra le rappresentazioni più famose e antiche della passione di Cristo in Italia, possiamo citare quella di Sordevolo (BI), che si svolge ogni cinque anni dal 1815, quella di Cantiano (PU), che risale al secolo di San Francesco, e quella ispirata ai dipinti del Caravaggio, che mette in evidenza la forza e la fragilità del corpo di Cristo.
Queste rappresentazioni coinvolgono centinaia di attori non professionisti, che si preparano con dedizione e impegno per mesi o addirittura anni. Le scenografie sono spesso imponenti e realistiche, ricostruendo i luoghi della Gerusalemme dell’anno 33 d.C., come il palazzo di Erode, il Sinedrio, il Pretorio di Pilato, il Giardino del Getsemani, il Cenacolo e il Monte Calvario.
Le rappresentazioni della passione di Cristo sono spettacoli corali che coinvolgono tutta la comunità locale, sia come attori sia come spettatori. Si tratta di un’esperienza culturale e spirituale che unisce fede e arte, tradizione e innovazione. Ogni edizione è unica e irripetibile, capace di emozionare ed educare le generazioni presenti e future.
Ancora una volta è il 2 giugno, la tua festa. E tutti ricordiamo quei 12 milioni di voti che appunto quel giorno, nel 1946, fecero da levatrice alla tua nascita. E’ un peccato che sia così difficile trasmettere ai più giovani il senso di euforia di certe ore, la sensazione di un mondo nuovo ormai alle porte. Finito il fascismo, finita la guerra, finita la monarchia. Partita la democrazia, partita la rinascita. Oggi è invece possibile che un ragazzo ci chieda: scusa, ma che avete da festeggiare? E in effetti noi, la generazione dei padri, cioè la seconda generazione di italiani repubblicani, potremmo onestamente ammettere che, almeno in apparenza, c’è poco da festeggiare. Siamo stati, al contrario di quella dei nostri genitori, la generazione dei grandi dissipatori. Certo, il pensiero corre istintivo a quel po’ di benessere che abbiamo bruciato nella corsa al debito, al consumo non più sostenibile, al privilegio senza misura. Ma soprattutto abbiamo dissipato quel senso di appartenenza e di unità nella nazione che ai nostri padri quasi pareva nulla di speciale, tanto era per loro forte e naturale.
Cara Repubblica, quanto male ci fa vederti atomizzata dalle faide di partito, quelle in cui l’interesse di fazione ha sempre e comunque precedenza sul bene collettivo. Seguire le battaglie delle corporazioni, che certo i 12 milioni di votanti che ti scelsero pensavano morte con il fascismo, che dilaniano le tue fragili strutture nella perenne ricerca di un vantaggio anche fuori dalle logiche più sane del mercato. Per non parlare di quei milioni di tuoi figli, cittadini come gli altri ma ormai trasferiti in una “seconda serie” fatta di disoccupazione, precarietà, futuro negato, magari costretti a farsi adottare all’estero, da Stati solo più organizzati e coerenti di quanto noi abbiamo saputo fare con te. Noi meno giovani stentiamo a riconoscerti. Loro, i più giovani, ti osservano e non ti capiscono. Non sanno che non sei sempre stata così e forse nemmeno gli importa. Vorremmo far loro capire che ti abbiamo amata tanto senza saperti amare. E che senza di te rischiamo di non avere un volto che ci accomuna tutti, che ci ricorda chi siamo e perché, giorno dopo giorno, facciamo certe cose che ci tengono insieme. Ma diventa ogni giorno più complicato.
Perdonaci, Repubblica, se facciamo fatica anche a festeggiare.
Fulvio Scaglione, Vicedirettore di Famiglia Cristiana
Accade da dieci anni in qua. Il 2 giugno, chiamato dalla Rai, commento in diretta tv la rivista organizzata a Roma ai Fori Imperiali. Notizie e riflessioni tecniche, come ci si attende da un militare come me. Non entro nei dettagli nè affronto le polemiche che anche quest’anno sono arrivate puntuali. Rimando all’autorevole presa di posizione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale ha escluso che questo evento possa essere letto come «una prova muscolare». Osservo, come altri hanno già fatto, che quella del 2013 è una parata drasticamente ridotta nei costi e nella formula. Per dire: niente fanfare e niente Frecce tricolori. Un dovere, quello del risparmio, in un’epoca di crisi come quella che ci sta duramente provando. Una tendenza, per altro, già evidente negli ultimi anni: se nel 2011 sfilarono circa 5 mila tra militari e civili e la parata costò 4,4 milioni di euro, nel 2012 le persone impegnate furono soltanto 2.500 e la spesa risultò inferiore ai due milioni di euro.
Mi preme piuttosto ragionare sul senso autentico della rivista. Che è l’omaggio allo Stato, alla casa comune che tutti abitiamo. Il 2 giugno sta all’Italia come il 4 luglio sta agli Stati Uniti (quel giorno, nel 1776, fu firmata la Dichiarazione d’indipendenza) o come il 14 luglio sta alla Francia (anniversario della presa della Bastiglia, nel 1789). Ogni Paese ha il diritto-dovere di ricordare solennemente quando e come è nato. Noi lo facciamo il 2 giugno, appunto. Uscivamo da una dittatura e da una guerra sanguinosa. Quel giorno del 1946 aprì un’epoca nuova, ci accolse tutti in una Patria ritrovata.
Cos’è rimasto di quelle aspettative, di quello spirito, di quell’energia? C’è chi si abbandona allo sconforto e risponde: poco o niente. Non sono di quell’avviso. C’è un’Italia che non arrossisce e non si vergogna perché non ha nulla per cui arrossire o di che vergognarsi. Di quest’Italia fanno parte a buon diritto le Forze armate, 180 mila donne e uomini che non solo proclamano ma vivono quotidianamente valori necessari a cementare una comunità civile degna di questo nome: onestà, rispetto, impegno, abnegazione, solidarietà. Dentro e fuori i confini dello Stato. Non è un caso se sindaci e presidenti di Regione ci chiamano quando capita un terremoto o un’alluvione. Non è un caso se i cittadini invocano la nostra presenza quando l’ordine pubblico è particolarmente a rischio.
E poi le missioni all’estero. Stiamo operando in 27 Paesi all’interno di altrettante operazioni di pace. Siamo partiti con l’avallo del Parlamento, nel quadro di azioni volute dall’Onu, dalla Nato o dall’Europa, in accordo con i nostri alleati. Siamo gente che ha scelto il mestiere della armi partendo da un amore sconfinato per la pace. Assicuriamo una cornice di sicurezza indispensabile per costruire ospedali, scuole, centrali elettriche, acquedotti, ponti e strade. Ovunque nel mondo, le Forze armate sono immagine visibile dell’unità di una Nazione, di ciò che una Nazione è e vuole essere nel mondo. Così anche da noi, in Italia.
La rivista dei Fori imperiali non è l’unico omaggio alla Repubblica, a chi la guida e a chi la rappresenta. Il programma del 2 giugno prevede eventi simili in molte città italiane. C’è qualcosa da festeggiare, ci si chiede? Sì. Al netto di ogni vuota retorica la risposta è sì! C’è un Paese che si sveglia presto la mattina e fa il suo dovere. C’è un Paese che si può guardare allo specchio senza dover abbassare gli occhi. Buon compleanno, Italia.
Massimo Fogari, alpino, Generale di brigata, Capo ufficio pubblica informazione dello Stato Maggiore della Difesa
Rischia, immeritatamente, di finire nel mucchio delle cose dimenticate troppo in fretta. Fra le missioni di pace realizzate dalle nostre Forze armate occupa un posto speciale l’operazione “White Crane”, compiuta dopo il devastante terremoto che colpì Haiti il 12 gennaio 2010. Il Governo italiano decise di mandare sul posto la portaerei Cavour, che allora era stato appena consegnato alla Marina. Preparata e attrezzata in soli quattro giorni, la nave raggiunse Haiti dopo dieci giorni di navigazione, con a bordo 12 mila chili di generi alimentari, 36 mila litri di acqua potabile e 176 tonnellate di medicinali. Nello spazio di quattro mesi l’ospedale di bordo fornì oltre 300 prestazioni mediche. La Cavour rientrò in Italia in aprile.
Tra i tanti militari impegnati nella missione, c’era anche il capitano di fregata Ilio Guarriera, napoletano. Alla vigilia del 2 giugno, lo abbiamo incontrato a bordo della portaerei e gli abbiamo chiesto di raccontarci alcuni momenti della missione ad Haiti. «Il primo impatto dopo il nostro arrivo ad Haiti fu tremendo. Ci trovammo di fronte alla devastazione del terremoto, ma ci rendemmo subito conto che quel territorio era già martoriato da prima, soprattutto a causa della malasanità e della povertà. Era stridente il contrasto fra le due metà dell’isola: la Repubblica Dominicana un paradiso per le vacanze, Haiti invece tutto un altro mondo di miseria e sofferenza. Una delle richieste più pressanti riguardava l’acqua potabile. Ce la chiedevano soprattutto i bambini. la nave portaerei Cavour è attrezzata per ricavare acqua potabile dall’acqua marina e così ne abbiamo trasportati ettolitri a terra, grazie agli elicotteri».
«La popolazione locale in un primo tempo ci guardava con un po’ di diffidenza», prosegue Ilio Guarriera. «Vedere gente in divisa faceva un po’ paura. Ma una volta rotto il ghiaccio il rapporto con le persone è stato magnifico e la loro felicità è stata commovente. Come sempre, in questi casi, abbiamo cercato di dare un mano alla popolazione locale andando anche al di là dei nostri compiti specifici. Così, ad esempio, abbiamo ricostruito un muretto distrutto e ripulito le aule di una scuola. In un magazzino abbiamo trovato abbandonate diverse macchine da cucire. I nostri tecnici di bordo ne hanno riparate alcune e poi hanno insegnato agli haitiani a ripararle da soli. Hanno imparato bene, perché gli haitiani erano davvero avidi di conoscenza. Così ho visto applicato nella pratica il celebre detto, secondo il quale, dopo aver dato un pesce a un affamato, è sempre meglio insegnargli a pescare».
Roberto Zichittella
Non è solo una questione di soldi. La Festa della Repubblica è troppo bella e importante per essere trascinata nel tritacarne della spending review. E’ vero che in tempo di crisi mal si sopportano gli sprechi. Ma questa Festa non può essere trattata come altre feste della Casta. La Festa della Repubblica è la festa di un popolo e di un Paese che, dopo il fascismo, hanno scelto la democrazia e i valori che la sostengono.
Ricordare ogni anno quel giorno (2 giugno 1946) e quella scelta non è solo un esercizio di memoria storica (Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno) ma un modo concreto per riscoprirne il valore e rinnovarne lo spirito. Se oggi guardiamo a questa Festa con grande distacco e scetticismo è perché parole come “Repubblica” e “democrazia” non suscitano più in noi alcuna emozione. E sembrano aver perso ogni significato concreto. Anche per questo abbiamo bisogno di ripensare questa Festa.
Per molti anni il 2 giugno è stato celebrato con una parata militare. E da qualche tempo a questa parte, vista la crisi che tira, si preferisce una “parata low cost”. Ma la Festa della Repubblica non è la festa delle Forze Armate. Al nostro strumento militare, all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica e ai Carabinieri è dedicato il 4 novembre. Qual è, dunque, oggi il modo più giusto per celebrare la Festa della Repubblica? Provo ad avanzare tre proposte.
Prima proposta. La Festa della Repubblica è e deve essere la festa di tutti gli italiani. Va celebrata insieme, senza deleghe e primi della classe. Anzi, deve essere un’occasione per fare spazio anche agli ultimi, quelli che continuano a essere tenuti ai margini della vita delle nostre comunità. Penso anche a tutti quelli che oggi ancor più di ieri sono travolti dalla crisi, dalla perdita del lavoro e della dignità. Una Repubblica che si concentra su di loro e che s’impegna a valorizzare anche l’ultimo dei suoi cittadini è una Repubblica sana, viva, coesa.
Seconda proposta. Il 2 giugno deve essere celebrato all’insegna della Costituzione che ha generato e della riscoperta del significato autentico dei valori che vi sono iscritti. Quel giorno, i sindaci di tutti i Comuni d’Italia, cuore pulsante e bistrattato del paese reale, dovrebbero consegnare personalmente la Costituzione a tutti i giovani diciottenni e a tutti i nuovi italiani a cui riconosciamo finalmente i diritti di cittadinanza. La consegnano e la discutono, per fare in modo che i valori non siamo solo belle parole ma diventino obiettivi concreti della politica e della comunità. Insomma, il 2 giugno deve essere la Festa dei diritti e delle responsabilità di tutti gli italiani.
Terza proposta. La Festa della Repubblica deve essere aperta all’Europa e al mondo. Cominciamo con i nostri vicini, quelli con cui condividiamo la nuova cittadinanza europea e quelli con cui condividiamo il futuro nel Mediterraneo. Chiamiamoli a festeggiare con noi la bellezza del nostro Paese e della nostra Costituzione ma anche la nostra volontà di fronteggiare insieme le grandi sfide del nostro tempo. Senza bisogno di parate militari e di esibizioni muscolari. Con l’umiltà, la dignità e il coraggio di chi sa affrontare anche le sfide più grandi.
PS. Lascio agli amanti delle parate militari e al Fan club degli F-35 il compito di spiegare agli italiani che devono continuare a fare sacrifici mentre loro continueranno a spendere decine di milioni di euro per comprare, mantenere e sbandierare i gioielli delle nostre armate. La Repubblica merita un’altra Festa.
Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace
«Il 2 giugno dovrebbe essere la festa delle forze vive della Repubblica, non quella delle Forze armate. Abbiamo bisogno di recuperare appartenenza, valori, ideali della Repubblica».
A parlare e don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi. «Più che mai», continua, «abbiamo bisogno di sentirci parte di questo Paese e di questa democrazia, le cui istituzioni rischiano di essere sempre più lontane dalla gente. Perciò domenica ci ritroveremo a Roma per una festa alternativa, nella quale verrano premiati cittadini che siano espressione della costruzione quotidiana della società».
Pax Christi sottolinea quello che c’è «da non festeggiare»: «La nostra Difesa acquista nuove fregate fa guerra, e 90 cacciabombardieri F35. Questo non lo possiamo accettare», dice ancora don Sacco. «Sosteniamo invece quel gruppo di parlamentari che pochi giorni fa ha presentato una mozione in Parlamento contro l’acquisto dei caccia. Noi lo stiamo dicendo da anni. Mentre altrove si farà la parata militare, noi ricordiamo Papa Giovanni XXIII che morì il 3 giugno e la sua enciclica Pacem in terris, contro la guerra e contro ogni guerra. Ricorderemo i combattimenti in Siria, dimenticati da tutti, e quelli dell’Iraq, che nel solo mese di maggio hanno provocato 800 vittime. Insomma, il 2 giugno dobbiamo celebrare la vita, non la morte».
Don Renato Sacco sottolinea che le Forze Armate hanno la loro ragion d’essere nel fare la guerra: «Occorre evitare confusioni di termini e di ruoli. L’esercito è fatto per combattere, non per costruire la pace. Ora ci vengono a dire che i nostri soldati nelle missioni distribuiscono biscotti. Non è così. Vanno a sparare. I biscotti li possono e li debbono distribuire le organizzazioni umanitarie. Si cerca di far passare il conflitto come qualcosa di normale, o addirittura di positivo, e ci fanno vedere i bambini che salgono sui carri armati, quasi che la guerra fosse una cosa per famiglie e bambini: le armi degli altri fanno solo disastri, le nostre sono belle. Non è così. Come uomini, come cittadini e come credenti diciamo di no a tutto questo».
Anche Massimo Paolicelli, presidente dell’associazione obiettori non violenti, è dello stesso avviso: «Da molti anni chiediamo che la festa della Repubblica non si festeggi con una parata militare, perché non corrisponde né alla lettera né allo spirito della nostra Costituzione. Le Forze armate hanno la loro festa nel 4 novembre».
Le associazioni non violente puntano il dito anche contro i costi della parata: «Nella difficile situazione del nostro Paese – con la disoccupazione al 12,8% e quella giovanile al 41,9% – non si capisce perché spendere 1 milione e mezzo di di euro», aggiunge Paolicelli. «Con quella cifra si manterrebbero 288 giovani in servizio civile per un anno, oppure si potrebbe garantire l’attività di 20 centri antiviolenza».
«Non ci spaventa la parata in quanto tale», aggiunge il presidente dell’associazione obiettori, «ma le ingenti risorse che l’Italia continua a investire nelle armi: 24 miliardi di euro, 5,6 dei quali per i sistemi d’arma come i 90 F35 che in tutto ci costeranno oltre 12 miliardi di euro. Secondo i dati della Nato, il nostro Paese spende l’1,4% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre per il servizio civile siamo passati da 296 milioni di euro del 2007 ai 76 di quest’anno, per cui i giovani che hanno potuto fare il servizio civile sono passati da 57 mila, nel 2006, a 20 mila nel 2011. L’anno scorso nemmeno uno».
La pace richiede quattro condizioni essenziali: verità, giustizia, amore e libertà (Papa Giovanni Paolo II)
Solo l’Azione Cattolica contò 1.279 soci e 202 assistenti ecclesiastici uccisi. Gino Pistoni, Aldo Gastaldi, Luigi Pierobon, Giuseppe Perotti e tanti altri: giovani ispirati dal Vangelo diedero la vita per un’Italia libera e democratica. Tra essi anche tanti sacerdoti. E tante donne.
Il partigiano è sempre “rosso”, “comunista”, “di sinistra”. Eppure in prima fila a combattere per la libertà e poi dopo, a lavorare per la ricostruzione dell’Italia e la nascita della Repubblica, c’era anche una Resistenza “bianca”. Cattolici e cattoliche che hanno dato un contributo non secondario alla lotta contro il nazi-fascismo e per lo sviluppo della vita democratica nel nostro Paese. Enrico Mattei, capo partigiano e poi presidente dell’Eni, al primo congresso della Democrazia cristiana nell’aprile del 1946 indicò in 65mila – poi giunti a 80mila nella fase finale della Resistenza –, impiegati in 180 brigate, i cattolici che parteciparono attivamente alla lotta partigiana. «Brigate del Popolo», «Fiamme Verdi», «Volontari della Libertà», «Squadre Bianche»: sono alcuni dei nomi sotto i quali, in tutto il Centro-nord, cercarono di distinguersi le formazioni “autonome” o “indipendenti” che spesso facevano riferimento in gran parte o del tutto al Vangelo. Senza contare che in molte zone, per esempio in Liguria e Romagna, anche nelle comuniste Brigate Garibaldi spiccava cospicua una presenza cattolica. Ma non fu solo questione di cifre. Nel panorama settentrionale, dove spiccano i nomi di Gino Pistoni, Tina Anselmi (staffetta partigiana e prima donna ministro della storia del nostro Paese), dello stesso Mattei, di Benigno Zaccagnini, Paolo Emilio Taviani, Giuseppe Dossetti, Sergio Cotta, Mariano Rumor, Ermanno Gorrieri, Giovanni Marcora, Teresio Olivelli, c’è tutta una serie di cattolici “feriali” che diventano punto di riferimento per la liberazione. Di preti che educano negli oratori e stanno accanto ai giovani. Che combattono. Alla soglia dei novant’anni padre Giulio Cittadini, sacerdote dell’istituto San Filippo Neri, mostra ancora il suo berretto da partigiano. Arruolato nella Brigata Garibaldi, fu tra i primi a entrare ad Ivrea liberata. Grande educatore e grande protagonista della Resistenza, come l’insegnante Emiliano Rinaldini, vicecomandante della Brigata Perlasca in Valsabbia, trucidato dai fascisti nei pressi della chiesetta di San Bernardo, il 10 febbraio 1945. Anche lui cresciuto nell’oratorio della Pace dove si è formata molta della resistenza bresciana e lombarda sulle orme di padre Manziana, detenuto a Dachau e poi vescovo di Cremona, del cardinale Giulio Bevilacqua, grande anticipatore del Concilio, di don Giacomo Vender, di padre Luigi Rinaldini che riceve dal suo vescovo il mandato ad accompagnare i giovani e gli studenti come cappellano delle Fiamme verdi. Sono educatori, maestri, sacerdoti che percepiscono come coerente e consequenziale al loro impegno di fede quello di affiancare i partigiani sulle montagne. «Ribelli per amore», secondo la felice immagine di Teresio Olivelli, capaci di opporsi al nazifascismo e alla sua ideologia con una ribellione che è innanzitutto morale e spirituale, ma che, nondimeno, costa a molti di loro il sacrificio della vita.
di Annachiara Valle https://www.famigliacristiana.it/articolo/il-ruolo-dei-cattolici-idee-lotta-e-tributo-di-sangue.aspx
LA RESISTENZA È PATRIMONIO COMUNE DELLA REPUBBLICA. «Io credo che in tempo di crisi sociale ed economica, in cui c’è bisogno di soluzioni credibili, sia legittimo arrivare al 25 aprile chiedendosi se il Paese abbia ancora un “idem sentire”, un punto di riferimento comune cui ispirarsi. La domanda è certo drammatica ma la risposta c’è: è la Costituzione, un patrimonio comune scritto in un periodo difficile a partire da visioni del mondo vivacemente contrapposte eppure capaci di arrivare a una sintesi» https://www.famigliacristiana.it/articolo/giovanni-bianchi-la-resistenza-e-patrimonio-comune-della-repubblica.
Comprendi il significato spirituale di “Domenica in Albis”
Esplora la storia di “Domenica in Albis”
Come le comunità cristiane celebrano “Domenica in Albis”
Come le persone possono praticare la tradizione di “Domenica in Albis” nella vita di tutti i giorni
Domenica in Albis è una ricorrenza cristiana che si celebra ogni anno, immediatamente dopo la Pasqua. Deriva dal termine latino “in albis depositis”, che significa “con le vesti bianche”. La Chiesa Cattolica ritiene che questa domenica sia un giorno di particolare importanza, poiché è una celebrazione della risurrezione di Cristo. La Domenica in Albis è una ricorrenza cristiana in cui la Chiesa commemora l’Ascensione di Gesù al cielo. I fedeli ricordano che Gesù è salito al cielo con le vesti bianche dopo essere stato crocifisso, sceso nei tre giorni seguenti, e risorto. La Chiesa incoraggia i credenti a partecipare a servizi di adorazione, ringraziamento e preghiera, celebrando la risurrezione di Cristo. La Domenica in Albis è un momento di riflessione e spiritualità, in cui i fedeli ricordano l’amore di Dio e la Sua bontà. La Chiesa incoraggia i cristiani a riflettere su come la loro vita è stata trasformata dalla risurrezione di Cristo. Anche se la celebrazione è principalmente cristiana, molti non cristiani partecipano a questa giornata, condividendo il messaggio di speranza che deriva dalla risurrezione di Cristo.
Scopri il significato della tradizione di “Domenica in Albis”
“Domenica in Albis” è una tradizione antica che sta ancora oggi celebrando la Resurrezione di Gesù. È una tradizione che ci ricorda di vivere con speranza e comprensione. Ci ricorda che la vita è un regalo prezioso che dobbiamo apprezzare e vivere al meglio; che la fede è una forza incredibile che ci sostiene, anche nei momenti più bui. Ci insegna a guardare al futuro con speranza, a non arrenderci mai e a non lasciarci abbattere dalle avversità che incontriamo nel cammino. Celebrare “Domenica in Albis” è un modo per ricordare che la vita non è mai definitiva e che tutto cambia, e possiamo imparare dagli errori e sperare in un futuro migliore. Che siamo tutti connessi e dobbiamo aiutarci a vicenda. “Domenica in Albis” ci ricorda che la speranza è un dono prezioso che dobbiamo proteggere e coltivare. Perché è grazie alla speranza che possiamo sognare, credere e raggiungere grandi cose.
Comprendi il significato spirituale di “Domenica in Albis”
La Domenica in Albis è un giorno di grande significato spirituale. In questo giorno, la nostra fede ci ispira a guardare oltre le sfide della vita e le difficoltà che ci incontriamo lungo il nostro viaggio spirituale. La Domenica in Albis ci ricorda che anche nelle circostanze più difficili della vita, possiamo trovare conforto e forza nelle parole della sacra scrittura. Ci ricorda che Dio è con noi e ci guida verso la luce. Quando la nostra fede è forte, siamo in grado di superare le prove ed emergere rinnovati. In questo giorno, riconosciamo il potere di Dio che ci aiuta a elevarci spiritualmente. Siamo grati per la sua misericordia e per la sua guida costante. Possiamo anche chiedere la sua benedizione e la sua saggezza come sostegno per la nostra vita spirituale. La Domenica in Albis è un giorno di speranza e di rinnovamento. Ci ricorda che la fede e l’amore di Dio non hanno limiti e ci incoraggia a vivere con passione e a raggiungere la nostra piena realizzazione. Anche nei giorni più bui della nostra vita, possiamo trovare conforto e forza nella luce divina.
Esplora la storia di “Domenica in Albis”
Domenica in Albis, una festa millenaria, è una celebrazione di vittoria, di risurrezione e di speranza. Si tratta di un giorno che non dimenticheremo mai. Una volta all’anno, durante la settimana santa, le persone si riuniscono per ricordare la morte e la resurrezione di Cristo. La gente si riunisce in chiesa per pregare e cantare inni di lode e di grazia. La gente si veste di bianco e porta fiori e regali come segno di rinascita. Domenica in Albis è un giorno di fede, speranza e amore. Un giorno in cui tutti possono riunirsi e ricordare che la vita non finisce con la morte. È un giorno che ci ricorda che siamo tutti ugualmente amati e che c’è una forza più grande che ci sostiene. Domenica in Albis ci ricorda che la vita va oltre la morte. Ci ricorda che la morte non è la fine, ma un nuovo inizio. Ci ricorda che la speranza non muore mai e che possiamo sempre trovare la forza per ricominciare.
Come le comunità cristiane celebrano “Domenica in Albis”
Le comunità cristiane in tutto il mondo celebrano “Domenica in Albis” come una giornata di ringraziamento e di speranza. È la giornata in cui si commemora l’uscita di Gesù dal sepolcro e la sua risurrezione. È il momento in cui celebriamo la vittoria di Gesù sulla morte e la sua promessa di una vita eterna. Le comunità cristiane celebrano “Domenica in Albis” partecipando a servizi di adorazione e rendendo grazie a Dio per la sua grazia e il suo amore. Pregano per la pace e la gioia nella loro comunità, e per le persone in tutto il mondo che hanno bisogno della benedizione della salvezza. Le celebrazioni possono includere la lettura della Parola di Dio, la condivisione di messaggi di speranza e l’adorazione attraverso canti e preghiere. I credenti possono usare questa giornata per riflettere sulla portata del loro amore per Dio e per il prossimo, e per riflettere sul dono della redenzione che Gesù ha offerto al mondo. Domenica in Albis è un giorno di rinascita e di nuova vita. È una promessa che ci ricorda che nulla è impossibile con Dio. Lasciate che la speranza di Cristo riempia i vostri cuori e celebriamo la sua resurrezione.
Come le persone possono praticare la tradizione di “Domenica in Albis” nella vita di tutti i giorni
Ogni domenica può essere una giornata di “Domenica in Albis”. La tradizione di “Domenica in Albis” invita le persone a riflettere sui cambiamenti nella propria vita, a celebrare i risultati raggiunti e a guardare avanti con speranza e fiducia. Inizia la tua giornata di “Domenica in Albis” prendendoti del tempo per ringraziare Dio per le tue benedizioni, riconosci le cose che hai realizzato nella tua vita: quali obiettivi hai raggiunto? Quali sfide hai superato? Prenditi il tempo per festeggiare le tue vittorie. Infine, guarda avanti con fiducia e speranza. Immagina la tua vita nei prossimi mesi e anni, e considera quali obiettivi vuoi raggiungere. Pensa a come puoi costruire un futuro migliore per te stesso e per gli altri. Concediti di praticare “Domenica in Albis” ogni settimana, e sentirai la gioia della gratitudine, della celebrazione e della speranza in Cristo Gesù risorto e signore della nostra vita!
L’importanza della preghiera durante una “Domenica in Albis”
La preghiera è una parte indispensabile di qualsiasi domenica in albis. La preghiera ci aiuta a riconnetterci al nostro Dio e ai nostri cari, a riconoscere le benedizioni che abbiamo nella nostra vita e a ringraziare per i doni che ci vengono donati. La preghiera ci ricorda che la domenica è un giorno speciale, un giorno in cui possiamo prendere un po’ di tempo per riconnetterci con il nostro Creatore. Durante una domenica in albis, pregare ci aiuta a sostenere e a preparare la nostra anima per il giorno successivo. La preghiera ci aiuta a mantenere la nostra mente e il nostro cuore focalizzati su ciò che è più importante nella nostra vita, e ci ricorda che Dio è sempre al nostro fianco. Inoltre, pregare ci aiuta a riconoscere la grazia di Dio e la Sua grande misericordia. Inoltre, la preghiera ci aiuta ad entrare in contatto con la nostra interiorità, ci aiuta a prenderci un momento per riflettere su ciò che stiamo facendo e ci aiuta a trovare la forza e la saggezza per affrontare le sfide della vita. La preghiera può essere un modo per esprimere le nostre preoccupazioni, le nostre paure e le nostre speranze, e può essere un mezzo per trovare conforto in momenti difficili. Pregare durante una domenica in albis può essere una grande benedizione non solo per noi ma anche per coloro che amiamo. La preghiera ci aiuta a ricordare a noi stessi e a coloro che ci sono vicini, che è importante prendersi del tempo per pregare e ringraziare Dio per tutte le Sue benedizioni. La preghiera ci consente di sentirci più connessi a Dio e al mondo che ci circonda. In conclusione, la preghiera è un’importante parte della nostra domenica e ci aiuta a riconnetterci con Dio, a riconoscere le benedizioni che abbiamo nella nostra vita e a trovare conforto e forza nei momenti difficili, unitamente a tuti i sacramenti che ci nutrono ogni volta che andiamo alle celebrazioni liturgiche.
I santi più venerati durante una “Domenica in Albis”
Oggi è una domenica in albis speciale, un giorno per rendere omaggio ai santi più venerati. San Francesco d’Assisi è al primo posto, con le sue preghiere e i suoi miracoli che ci ricordano che Dio ci ama. E poi c’è Santa Teresa di Calcutta, la donna che ha dedicato la sua vita a servire gli altri. E, naturalmente, San Giuseppe, il padre custode che è sempre stato un punto di riferimento per tutti noi. Infine, non possiamo dimenticare San Filippo Neri, il santo della gioia, che ci ricorda di godere delle piccole cose nella vita. Questi sono i quattro santi più venerati durante una domenica in albis.