Chi sono i missionari? Sono sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche chiamati a diffondere la fede “fino agli estremi confini della terra” (Atti 1,8).
L’origine teologica del termine “Missione” è la traduzione latina della parola greca “apostolo”. Nel Nuovo Testamento il verbo αποστέλλω (apostello) ricorre 131 volte, 119 delle quali solo nei Vangeli e negli Atti. Esso traduce l’ebraico shằlakh (שלה) stendere, inviare (in latito mittere, il cui participio passato è missio).
L’utilizzo del termine tuttavia prende corpo solo verso la metà del ‘500 con i Gesuiti: è infatti sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, ad aggiungere ai classici tre voti di povertà, castità e obbedienza, quello di obbedienza al Papa “circa missiones”, con il quale i gesuiti si mettono a disposizione del Papa per qualsiasi “missione” egli ritenga necessaria o utile per il bene della Chiesa.
Il Concilio Vaticano II segna un cambio di prospettiva radicale. Il termine «missionario» viene usato per tutti i battezzati, consapevoli che «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario. Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione», testo di Papa Francesco, ripreso dal documento Ad Gentes (EG 120).
I missionari “ad gentes”
Tuttavia c’è una missione specifica: è quella che viene chiamata la missione “ad gentes”, rivolta a chi vive in terre lontane e ancora non conosce la buona notizia del Vangelo, ai popoli di prima evangelizzazione, alle Chiese sorelle giovani che stanno muovendo i primi passi.
Tale vocazione missionaria si manifesta nella totalità dell’impegno per il servizio dell’evangelizzazione: è un impegno che coinvolge tutta la persona e la vita, esigendo da uomini e donne una donazione senza limiti di forze e di tempo. È una consacrazione piena ad vitam.
Oggi il missionario/a è chiamato a dare la sua testimonianza a partire da una vita di fraternità e di comunione, rivolgendosi con particolare attenzione ai poveri, ai deboli, agli emarginati, alle vittime dell’ingiustizia e dell’oppressione, destinatari privilegiati del Regno.
Dobbiamo molto a quanti, uomini e donne, hanno seguito Gesù fino a donare la vita. L’agenzia Fides, organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie, pubblica ogni anno un elenco degli operatori pastorali rimasti uccisi, includendo sacerdoti, religiosi, religiose, volontari e volontarie laici.
Premio Cuore Amico. I Nobel missionari del 2021: ecco chi sono
Il Premio Cuore Amico va a monsignor Christian Carlassare, suor Filomena Alicandro e al missionario laico Riccardo Giavarini. Con il premio si finanziano i progetti in Sud Sudan, Bangladesh e Bolivia
Per la Giornata Missionaria Mondiale Cuore Amico ha assegnato il Premio Cuore Amico 2021 a tre «Nobel missionari» nel mondo; ecco le loro storie. Si tratta di un riconoscimento che non esalta non esalta l’ingegno umano, ma la testimonianza evangelica e l’amore agli ultimi. I premiati sono missionari e testimoni che si fanno carico della fragilità propria e degli altri, promuovendo la fraternità e l’amicizia sociale, e ancora testimoniando che la fede è in grado di dare impulso a iniziative e plasmare comunità.
Christian Carlassare, nato a Schio (VI), missionario comboniano nel Sudan del Sud, premiato Per l’unità e la pace. Ha 43 anni ed è il vescovo italiano missionario più giovane nel mondo. Nominato nei mesi scorsi da papa Francesco vescovo della diocesi di Rumbek in Sud Sudan, è sacerdote dal 2004 e nel Paese dal 2005. Per questo popolo, che ha vissuto un conflitto cominciato negli anni Cinquanta, le cui tensioni non si sono mai placate del tutto.
Il contributo del Premio Cuore Amico verrà utilizzato per sostenere l’opera nella Diocesi di Rumbek: progetti di riconciliazione e pace, sostegno alle famiglie in difficoltà, promozione della donna. Va ricordato inoltre che, in Sud Sudan, poche settimane prima della consacrazione, il 26 aprile 2021 monsignor Carlassare è stato ferito in un attentato proprio a Rumbek. La sua video testimonianza di quanto accaduto in Sud Sudan.
Secondo premio va a suor Filomena Alicandro, la decana delle suore Missionarie dell’Immacolata in Bangladesh. È giunta in questo Paese nel 1966 stabilendosi nella zona di Bonpara. Dopo qualche anno si è trasferita al nord, a Boldipukur dove, con le consorelle, ha vissuto il difficile periodo della guerra di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. Dal 1979 avvia una missione a Muladuli, in una zona carente di ogni cosa, come estrema è la povertà in cui versano le comunità tribali Paharia che la abitano.
Con il contributo del Premio Cuore Amico ristrutturerà gli ambienti del centro di cucito di Golpalpur e avvierà l’insegnamento del cucito e del ricamo nel villaggio di Dhayerpara, a nord del Paese, per le donne di etnia Mandi.
Va in Bolivia il terzo premio a Riccardo Giavarini, costruttore di speranza, missionario laico a El Alto, una città molto giovane, popolosa ed estremamente povera. Delinquenza, prostituzione, contrabbando di beni, di alcol e droga trovano qui terreno fertile, anche perché la mancanza di lavoro porta spesso a cercare denaro in qualunque modo. Giavarini, missionario laico originario di Telgate (Bergamo), vive nel paese latinoamericano dal 1976.
L’importo del Premio Cuore Amico verrà utilizzato per recuperare le produzioni agricole tradizionali boliviane (frutta, miele, fiori, caffè, piccoli allevamenti di animali, riforestazione) in una azienda agricola in via di ristrutturazione che si trova nella zona di Quilo Quilo. Insieme alle comunità indigene di quest’area, si realizzerà anche un impianto idrico e un serbatoio di raccolta. L’azienda darà lavoro a ragazzi e ragazze che escono dal carcere o che hanno avuto problemi legati allo sfruttamento sessuale.
Nella stessa giornata è stato assegnato il premio voluto dall’Associazione Carlo Marchini Onlus a una religiosa che, da tanti anni, presta la sua opera educativa e di sostegno dell’infanzia in Brasile. Il premio di 10mila euro va alla salesiana suor Jane Maria da Silva per l’impegno a favore di bambini e ragazzi in diverse missioni tra cui il centro di accoglienza Chiara Palazzoli a Nova Contagem, in Brasile, istituito grazie all’Associazione Carlo Marchini, e oggi nell’oratorio Madre Maddalena Morano, a Barbacena, sempre in Brasile.
Cuoreamico.org
Sesta di nove figli, suor Jane Maria da Silva è nativa dello Stato del Minas Gerais, in Brasile. Dopo aver compiuto la professione religiosa nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel 1999 ha svolto la propria azione pastorale in diverse missioni in Brasile. Al centro della sua vita e della sua azione pastorale ci sono i bambini: la loro formazione e la formazione degli educatori che li seguono. Suor Jane si è sempre occupata del pieno sviluppo di ogni bambino e giovane affinché si realizzi grazie alla compresenza della propria famiglia e di una comunità sociale e spirituale accoglienti.
Ancora una volta è il 2 giugno, la tua festa. E tutti ricordiamo quei 12 milioni di voti che appunto quel giorno, nel 1946, fecero da levatrice alla tua nascita. E’ un peccato che sia così difficile trasmettere ai più giovani il senso di euforia di certe ore, la sensazione di un mondo nuovo ormai alle porte. Finito il fascismo, finita la guerra, finita la monarchia. Partita la democrazia, partita la rinascita. Oggi è invece possibile che un ragazzo ci chieda: scusa, ma che avete da festeggiare? E in effetti noi, la generazione dei padri, cioè la seconda generazione di italiani repubblicani, potremmo onestamente ammettere che, almeno in apparenza, c’è poco da festeggiare. Siamo stati, al contrario di quella dei nostri genitori, la generazione dei grandi dissipatori. Certo, il pensiero corre istintivo a quel po’ di benessere che abbiamo bruciato nella corsa al debito, al consumo non più sostenibile, al privilegio senza misura. Ma soprattutto abbiamo dissipato quel senso di appartenenza e di unità nella nazione che ai nostri padri quasi pareva nulla di speciale, tanto era per loro forte e naturale.
Cara Repubblica, quanto male ci fa vederti atomizzata dalle faide di partito, quelle in cui l’interesse di fazione ha sempre e comunque precedenza sul bene collettivo. Seguire le battaglie delle corporazioni, che certo i 12 milioni di votanti che ti scelsero pensavano morte con il fascismo, che dilaniano le tue fragili strutture nella perenne ricerca di un vantaggio anche fuori dalle logiche più sane del mercato. Per non parlare di quei milioni di tuoi figli, cittadini come gli altri ma ormai trasferiti in una “seconda serie” fatta di disoccupazione, precarietà, futuro negato, magari costretti a farsi adottare all’estero, da Stati solo più organizzati e coerenti di quanto noi abbiamo saputo fare con te. Noi meno giovani stentiamo a riconoscerti. Loro, i più giovani, ti osservano e non ti capiscono. Non sanno che non sei sempre stata così e forse nemmeno gli importa. Vorremmo far loro capire che ti abbiamo amata tanto senza saperti amare. E che senza di te rischiamo di non avere un volto che ci accomuna tutti, che ci ricorda chi siamo e perché, giorno dopo giorno, facciamo certe cose che ci tengono insieme. Ma diventa ogni giorno più complicato.
Perdonaci, Repubblica, se facciamo fatica anche a festeggiare.
Fulvio Scaglione, Vicedirettore di Famiglia Cristiana
Accade da dieci anni in qua. Il 2 giugno, chiamato dalla Rai, commento in diretta tv la rivista organizzata a Roma ai Fori Imperiali. Notizie e riflessioni tecniche, come ci si attende da un militare come me. Non entro nei dettagli nè affronto le polemiche che anche quest’anno sono arrivate puntuali. Rimando all’autorevole presa di posizione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale ha escluso che questo evento possa essere letto come «una prova muscolare». Osservo, come altri hanno già fatto, che quella del 2013 è una parata drasticamente ridotta nei costi e nella formula. Per dire: niente fanfare e niente Frecce tricolori. Un dovere, quello del risparmio, in un’epoca di crisi come quella che ci sta duramente provando. Una tendenza, per altro, già evidente negli ultimi anni: se nel 2011 sfilarono circa 5 mila tra militari e civili e la parata costò 4,4 milioni di euro, nel 2012 le persone impegnate furono soltanto 2.500 e la spesa risultò inferiore ai due milioni di euro.
Mi preme piuttosto ragionare sul senso autentico della rivista. Che è l’omaggio allo Stato, alla casa comune che tutti abitiamo. Il 2 giugno sta all’Italia come il 4 luglio sta agli Stati Uniti (quel giorno, nel 1776, fu firmata la Dichiarazione d’indipendenza) o come il 14 luglio sta alla Francia (anniversario della presa della Bastiglia, nel 1789). Ogni Paese ha il diritto-dovere di ricordare solennemente quando e come è nato. Noi lo facciamo il 2 giugno, appunto. Uscivamo da una dittatura e da una guerra sanguinosa. Quel giorno del 1946 aprì un’epoca nuova, ci accolse tutti in una Patria ritrovata.
Cos’è rimasto di quelle aspettative, di quello spirito, di quell’energia? C’è chi si abbandona allo sconforto e risponde: poco o niente. Non sono di quell’avviso. C’è un’Italia che non arrossisce e non si vergogna perché non ha nulla per cui arrossire o di che vergognarsi. Di quest’Italia fanno parte a buon diritto le Forze armate, 180 mila donne e uomini che non solo proclamano ma vivono quotidianamente valori necessari a cementare una comunità civile degna di questo nome: onestà, rispetto, impegno, abnegazione, solidarietà. Dentro e fuori i confini dello Stato. Non è un caso se sindaci e presidenti di Regione ci chiamano quando capita un terremoto o un’alluvione. Non è un caso se i cittadini invocano la nostra presenza quando l’ordine pubblico è particolarmente a rischio.
E poi le missioni all’estero. Stiamo operando in 27 Paesi all’interno di altrettante operazioni di pace. Siamo partiti con l’avallo del Parlamento, nel quadro di azioni volute dall’Onu, dalla Nato o dall’Europa, in accordo con i nostri alleati. Siamo gente che ha scelto il mestiere della armi partendo da un amore sconfinato per la pace. Assicuriamo una cornice di sicurezza indispensabile per costruire ospedali, scuole, centrali elettriche, acquedotti, ponti e strade. Ovunque nel mondo, le Forze armate sono immagine visibile dell’unità di una Nazione, di ciò che una Nazione è e vuole essere nel mondo. Così anche da noi, in Italia.
La rivista dei Fori imperiali non è l’unico omaggio alla Repubblica, a chi la guida e a chi la rappresenta. Il programma del 2 giugno prevede eventi simili in molte città italiane. C’è qualcosa da festeggiare, ci si chiede? Sì. Al netto di ogni vuota retorica la risposta è sì! C’è un Paese che si sveglia presto la mattina e fa il suo dovere. C’è un Paese che si può guardare allo specchio senza dover abbassare gli occhi. Buon compleanno, Italia.
Massimo Fogari, alpino, Generale di brigata, Capo ufficio pubblica informazione dello Stato Maggiore della Difesa
Rischia, immeritatamente, di finire nel mucchio delle cose dimenticate troppo in fretta. Fra le missioni di pace realizzate dalle nostre Forze armate occupa un posto speciale l’operazione “White Crane”, compiuta dopo il devastante terremoto che colpì Haiti il 12 gennaio 2010. Il Governo italiano decise di mandare sul posto la portaerei Cavour, che allora era stato appena consegnato alla Marina. Preparata e attrezzata in soli quattro giorni, la nave raggiunse Haiti dopo dieci giorni di navigazione, con a bordo 12 mila chili di generi alimentari, 36 mila litri di acqua potabile e 176 tonnellate di medicinali. Nello spazio di quattro mesi l’ospedale di bordo fornì oltre 300 prestazioni mediche. La Cavour rientrò in Italia in aprile.
Tra i tanti militari impegnati nella missione, c’era anche il capitano di fregata Ilio Guarriera, napoletano. Alla vigilia del 2 giugno, lo abbiamo incontrato a bordo della portaerei e gli abbiamo chiesto di raccontarci alcuni momenti della missione ad Haiti. «Il primo impatto dopo il nostro arrivo ad Haiti fu tremendo. Ci trovammo di fronte alla devastazione del terremoto, ma ci rendemmo subito conto che quel territorio era già martoriato da prima, soprattutto a causa della malasanità e della povertà. Era stridente il contrasto fra le due metà dell’isola: la Repubblica Dominicana un paradiso per le vacanze, Haiti invece tutto un altro mondo di miseria e sofferenza. Una delle richieste più pressanti riguardava l’acqua potabile. Ce la chiedevano soprattutto i bambini. la nave portaerei Cavour è attrezzata per ricavare acqua potabile dall’acqua marina e così ne abbiamo trasportati ettolitri a terra, grazie agli elicotteri».
«La popolazione locale in un primo tempo ci guardava con un po’ di diffidenza», prosegue Ilio Guarriera. «Vedere gente in divisa faceva un po’ paura. Ma una volta rotto il ghiaccio il rapporto con le persone è stato magnifico e la loro felicità è stata commovente. Come sempre, in questi casi, abbiamo cercato di dare un mano alla popolazione locale andando anche al di là dei nostri compiti specifici. Così, ad esempio, abbiamo ricostruito un muretto distrutto e ripulito le aule di una scuola. In un magazzino abbiamo trovato abbandonate diverse macchine da cucire. I nostri tecnici di bordo ne hanno riparate alcune e poi hanno insegnato agli haitiani a ripararle da soli. Hanno imparato bene, perché gli haitiani erano davvero avidi di conoscenza. Così ho visto applicato nella pratica il celebre detto, secondo il quale, dopo aver dato un pesce a un affamato, è sempre meglio insegnargli a pescare».
Roberto Zichittella
Non è solo una questione di soldi. La Festa della Repubblica è troppo bella e importante per essere trascinata nel tritacarne della spending review. E’ vero che in tempo di crisi mal si sopportano gli sprechi. Ma questa Festa non può essere trattata come altre feste della Casta. La Festa della Repubblica è la festa di un popolo e di un Paese che, dopo il fascismo, hanno scelto la democrazia e i valori che la sostengono.
Ricordare ogni anno quel giorno (2 giugno 1946) e quella scelta non è solo un esercizio di memoria storica (Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno) ma un modo concreto per riscoprirne il valore e rinnovarne lo spirito. Se oggi guardiamo a questa Festa con grande distacco e scetticismo è perché parole come “Repubblica” e “democrazia” non suscitano più in noi alcuna emozione. E sembrano aver perso ogni significato concreto. Anche per questo abbiamo bisogno di ripensare questa Festa.
Per molti anni il 2 giugno è stato celebrato con una parata militare. E da qualche tempo a questa parte, vista la crisi che tira, si preferisce una “parata low cost”. Ma la Festa della Repubblica non è la festa delle Forze Armate. Al nostro strumento militare, all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica e ai Carabinieri è dedicato il 4 novembre. Qual è, dunque, oggi il modo più giusto per celebrare la Festa della Repubblica? Provo ad avanzare tre proposte.
Prima proposta. La Festa della Repubblica è e deve essere la festa di tutti gli italiani. Va celebrata insieme, senza deleghe e primi della classe. Anzi, deve essere un’occasione per fare spazio anche agli ultimi, quelli che continuano a essere tenuti ai margini della vita delle nostre comunità. Penso anche a tutti quelli che oggi ancor più di ieri sono travolti dalla crisi, dalla perdita del lavoro e della dignità. Una Repubblica che si concentra su di loro e che s’impegna a valorizzare anche l’ultimo dei suoi cittadini è una Repubblica sana, viva, coesa.
Seconda proposta. Il 2 giugno deve essere celebrato all’insegna della Costituzione che ha generato e della riscoperta del significato autentico dei valori che vi sono iscritti. Quel giorno, i sindaci di tutti i Comuni d’Italia, cuore pulsante e bistrattato del paese reale, dovrebbero consegnare personalmente la Costituzione a tutti i giovani diciottenni e a tutti i nuovi italiani a cui riconosciamo finalmente i diritti di cittadinanza. La consegnano e la discutono, per fare in modo che i valori non siamo solo belle parole ma diventino obiettivi concreti della politica e della comunità. Insomma, il 2 giugno deve essere la Festa dei diritti e delle responsabilità di tutti gli italiani.
Terza proposta. La Festa della Repubblica deve essere aperta all’Europa e al mondo. Cominciamo con i nostri vicini, quelli con cui condividiamo la nuova cittadinanza europea e quelli con cui condividiamo il futuro nel Mediterraneo. Chiamiamoli a festeggiare con noi la bellezza del nostro Paese e della nostra Costituzione ma anche la nostra volontà di fronteggiare insieme le grandi sfide del nostro tempo. Senza bisogno di parate militari e di esibizioni muscolari. Con l’umiltà, la dignità e il coraggio di chi sa affrontare anche le sfide più grandi.
PS. Lascio agli amanti delle parate militari e al Fan club degli F-35 il compito di spiegare agli italiani che devono continuare a fare sacrifici mentre loro continueranno a spendere decine di milioni di euro per comprare, mantenere e sbandierare i gioielli delle nostre armate. La Repubblica merita un’altra Festa.
Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace
«Il 2 giugno dovrebbe essere la festa delle forze vive della Repubblica, non quella delle Forze armate. Abbiamo bisogno di recuperare appartenenza, valori, ideali della Repubblica».
A parlare e don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi. «Più che mai», continua, «abbiamo bisogno di sentirci parte di questo Paese e di questa democrazia, le cui istituzioni rischiano di essere sempre più lontane dalla gente. Perciò domenica ci ritroveremo a Roma per una festa alternativa, nella quale verrano premiati cittadini che siano espressione della costruzione quotidiana della società».
Pax Christi sottolinea quello che c’è «da non festeggiare»: «La nostra Difesa acquista nuove fregate fa guerra, e 90 cacciabombardieri F35. Questo non lo possiamo accettare», dice ancora don Sacco. «Sosteniamo invece quel gruppo di parlamentari che pochi giorni fa ha presentato una mozione in Parlamento contro l’acquisto dei caccia. Noi lo stiamo dicendo da anni. Mentre altrove si farà la parata militare, noi ricordiamo Papa Giovanni XXIII che morì il 3 giugno e la sua enciclica Pacem in terris, contro la guerra e contro ogni guerra. Ricorderemo i combattimenti in Siria, dimenticati da tutti, e quelli dell’Iraq, che nel solo mese di maggio hanno provocato 800 vittime. Insomma, il 2 giugno dobbiamo celebrare la vita, non la morte».
Don Renato Sacco sottolinea che le Forze Armate hanno la loro ragion d’essere nel fare la guerra: «Occorre evitare confusioni di termini e di ruoli. L’esercito è fatto per combattere, non per costruire la pace. Ora ci vengono a dire che i nostri soldati nelle missioni distribuiscono biscotti. Non è così. Vanno a sparare. I biscotti li possono e li debbono distribuire le organizzazioni umanitarie. Si cerca di far passare il conflitto come qualcosa di normale, o addirittura di positivo, e ci fanno vedere i bambini che salgono sui carri armati, quasi che la guerra fosse una cosa per famiglie e bambini: le armi degli altri fanno solo disastri, le nostre sono belle. Non è così. Come uomini, come cittadini e come credenti diciamo di no a tutto questo».
Anche Massimo Paolicelli, presidente dell’associazione obiettori non violenti, è dello stesso avviso: «Da molti anni chiediamo che la festa della Repubblica non si festeggi con una parata militare, perché non corrisponde né alla lettera né allo spirito della nostra Costituzione. Le Forze armate hanno la loro festa nel 4 novembre».
Le associazioni non violente puntano il dito anche contro i costi della parata: «Nella difficile situazione del nostro Paese – con la disoccupazione al 12,8% e quella giovanile al 41,9% – non si capisce perché spendere 1 milione e mezzo di di euro», aggiunge Paolicelli. «Con quella cifra si manterrebbero 288 giovani in servizio civile per un anno, oppure si potrebbe garantire l’attività di 20 centri antiviolenza».
«Non ci spaventa la parata in quanto tale», aggiunge il presidente dell’associazione obiettori, «ma le ingenti risorse che l’Italia continua a investire nelle armi: 24 miliardi di euro, 5,6 dei quali per i sistemi d’arma come i 90 F35 che in tutto ci costeranno oltre 12 miliardi di euro. Secondo i dati della Nato, il nostro Paese spende l’1,4% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre per il servizio civile siamo passati da 296 milioni di euro del 2007 ai 76 di quest’anno, per cui i giovani che hanno potuto fare il servizio civile sono passati da 57 mila, nel 2006, a 20 mila nel 2011. L’anno scorso nemmeno uno».
“Come affermato in occasione della Giornata Internazionale delle donne l’8 marzo 2019, le donne fanno il mondo più bello, lo proteggono e lo tengono vivo. Portano la grazia del rinnovamento, l’abbraccio dell’inclusione e il coraggio di donare se stesse”.
Il Papa: il mondo sarà migliore se tra uomini e donne ci sarà parità nella diversità
Pubblichiamo la prefazione di Francesco al volume “Più leadership femminile per un mondo migliore: il prendersi cura come motore per la nostra casa comune”, a cura di Anna Maria Tarantola, edito da “Vita e Pensiero”. Il testo è il risultato di una ricerca promossa congiuntamente da Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice e Strategic Alliance of Catholic Research Universities (Sacru). La ricerca è stata presentata il 10 marzo alle 14.30 presso l’Istituto Maria Santissima Bambina a Roma
Papa Francesco
Questo libro parla di donne, dei loro talenti, delle loro capacità e competenze e delle disuguaglianze, violenze e pregiudizi che ancora caratterizzano il mondo femminile. Le questioni legate al mondo femminile mi stanno particolarmente a cuore. In molti miei interventi ho fatto riferimento a esse sottolineando quanto ancora resta da fare per la piena valorizzazione delle donne. Ho avuto modo, tra l’altro, di affermare che “Uomo e donna non sono uguali e non sono uno superiore all’altro, no. Soltanto che l’uomo non porta l’armonia, è lei, lei porta quell’armonia che ci insegna ad accarezzare, ad amare con tenerezza e che fa del mondo una cosa bella” (Omelia a Santa Marta, 9 febbraio 2017). Abbiamo tanto bisogno di armonia per combattere le ingiustizie, l’avidità cieca che danneggia le persone e l’ambiente, la guerra ingiusta e inaccettabile.
Questo libro raccoglie i risultati della ricerca comune, promossa da Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice e Strategic Alliance of Catholic Research Universities, cui hanno partecipato 15 accademici di diverse discipline appartenenti a 10 università residenti in 8 Paesi. Mi piace che il tema sia affrontato nell’ottica della multidisciplinarietà, approcci e analisi diverse consentono una visione ampia dei problemi e la ricerca di migliori soluzioni. La ricerca evidenzia le difficoltà che le donne ancora incontrano a raggiungere ruoli apicali nel mondo del lavoro e, al contempo, i vantaggi connessi a una loro maggiore presenza e piena valorizzazione negli ambiti dell’economia, della politica e della società stessa. Anche la Chiesa può avvantaggiarsi dalla valorizzazione delle donne: come ho detto nel mio intervento a conclusione del sinodo dei Vescovi della Regione Panamazzonica nell’ottobre 2019: “Non ci siamo resi conto di cosa significa la donna nella Chiesa e ci limitiamo solo alla parte funzionale […]. Ma il ruolo della donna nella Chiesa va molto al di là della funzionalità. È su questo che bisogna continuare a lavorare. Molto al di là”.
Non si può perseguire un mondo migliore, più giusto, inclusivo e integralmente sostenibile senza l’apporto delle donne. Ecco allora che dobbiamo lavorare, tutti insieme, per aprire opportunità uguali per uomini e donne, in ogni contesto per perseguire una stabile e duratura situazione di parità nella diversità perché la strada dell’affermazione femminile è recente, travagliata e, purtroppo non definitiva. Si può facilmente tornare indietro. Il pensiero delle donne è diverso da quello degli uomini, sono più attente alla tutela dell’ambiente, il loro sguardo non è volto al passato ma al futuro. Le donne sanno di partorire nel dolore per raggiungere una grande gioia: donare la vita e aprire vasti, nuovi orizzonti. Per questo le donne vogliono la pace, sempre. Le donne sanno esprimere insieme forza e tenerezza, sono brave, competenti, preparate, sanno ispirare le nuove generazioni (non solo i figli).
È giusto che possano esprimere queste loro capacità in ogni ambito, non solo in quello familiare, ed essere remunerate in modo uguale agli uomini a parità di ruolo, impegno e responsabilità. I divari che ancora sussistono sono una grave ingiustizia. Questi divari, insieme con i pregiudizi verso le donne sono alla base della violenza sulle donne. Ho in molte occasioni condannato questo fenomeno; il 22 settembre 2021 ho detto che la violenza sulle donne è una piaga aperta frutto di una cultura di sopraffazione patriarcale e maschilista. Dobbiamo trovare la cura per sanare questa piaga, non lasciare sole le donne. La ricerca qui presentata e le conclusioni raggiunte cercano di sanare la piaga della disuguaglianza e, per questa via, della violenza. Mi piace pensare che se le donne potessero godere della piena uguaglianza di opportunità, potrebbero contribuire sostanzialmente al necessario cambiamento verso un mondo di pace, inclusione, solidarietà e sostenibilità integrale. Come ho affermato in occasione della Giornata Internazionale delle donne l’8 marzo 2019, le donne fanno il mondo più bello, lo proteggono e lo tengono vivo. Portano la grazia del rinnovamento, l’abbraccio dell’inclusione e il coraggio di donare se stesse.
La pace, allora, nasce dalle donne, sorge e si riaccende dalla tenerezza delle madri. Così il sogno della pace diventa realtà quando si guarda alle donne. È mio pensiero che, come emerge dalla ricerca, la parità vada raggiunta nella diversità. Non parità perché le donne assumono i comportamenti maschili ma parità perché le porte del campo di gioco sono aperte a tutti i giocatori, senza differenze di sesso (e anche di colore, di religione, di cultura…). È quello che gli economisti chiamano diversità efficiente. È bello pensare a un mondo in cui tutti vivono in armonia e tutti possono vedere riconosciuti i propri talenti e contribuire alla realizzazione di un mondo migliore. La capacità di cura, per esempio, è senz’altro una caratteristica femminile che si deve poter esprimere non solo nell’ambito della famiglia, ma in egual misura e con ottimi risultati anche in politica, in economia, nell’accademia e sul lavoro.
La capacità di cura dobbiamo esprimerla tutti, uomini e donne. Gli uomini possono coltivare questa capacità anche nell’attività genitoriale: che bella la famiglia dove entrambi i genitori, mamme e papà insieme, si prendono cura dei loro bambini, li aiutano a crescere sani e li educano al rispetto delle persone e delle cose, alla gentilezza, alla misericordia, alla tutela del creato. Mi piace anche il cenno all’importanza dell’educazione. L’educazione è la strada maestra da un lato per fornire alle donne le competenze e le conoscenze necessarie per affrontare le nuove sfide del mondo del lavoro, e dall’altro per facilitare il cambiamento della cultura patriarcale, ancora prevalente. Purtroppo, ancora oggi, circa 130 milioni di ragazze nel mondo non vanno a scuola. Non c’è libertà, giustizia, sviluppo integrale, democrazia e pace senza l’educazione.
Il Papa: preghiamo perché ogni parrocchia abbia le porte sempre aperte per tutti
Guarda alle comunità parrocchiali l’intenzione di preghiera di Francesco affidata a tutta la Chiesa per il mese di febbraio. Era il 2023, appena un anno fa ma, nel video diffuso dalla Rete mondiale di preghiera del Papa c’era l’invito sempre attuale a ripensare con coraggio lo stile delle parrocchie per farle diventare veri luoghi di comunione tra le persone e di accoglienza, senza esclusioni
Adriana Masotti – Città del Vaticano
La parrocchia non è un “club” riservato a pochi, ma un luogo dove per entrare non sono richiesti particolari requisiti e alla cui porta d’entrata si dovrebbe leggere: “ingresso libero”. E’ per questa intenzione che Francesco invita a pregare la Chiesa nel Video diffuso dalla Rete mondiale di preghiera del Papa per il mese di febbraio. Un modo per chiedere che le parrocchie siano davvero comunità, centri di ascolto e di accoglienza “con le porte sempre aperte”.
Il messaggio del Papa
“A volte penso che dovremmo affiggere nelle parrocchie, alla porta, un cartello che dica: ‘Ingresso libero’ – afferma Papa Francesco nel Video del Papa -. Le parrocchie devono essere comunità vicine, senza burocrazia, centrate sulle persone e in cui trovare il dono dei sacramenti. Devono tornare ad essere scuole di servizio e generosità, con le porte sempre aperte agli esclusi. E agli inclusi. A tutti”. Il messaggio di Francesco è che “le parrocchie non sono un club per pochi, che garantisce una certa appartenenza sociale”. E prosegue con l’esortazione: “Per favore, siamo audaci! Ripensiamo tutti allo stile delle nostre comunità parrocchiali”. L’intenzione di preghiera del Papa per febbraio è dunque “perché le parrocchie, mettendo la comunione – la comunione delle persone, la comunione ecclesiale – al centro, siano sempre più comunità di fede, di fraternità e di accoglienza verso i più bisognosi”.
La ricchezza della Chiesa sono le persone
L’esterno di una parrocchia bellissima, ma vuota. Poi la stessa parrocchia, piena di persone, che diventa dunque ancora più bella. Il Video del Papa di questo mese si apre così – si legge nel comunicato stampa che lo accompagna – ricordando che la ricchezza della Chiesa non sono gli edifici, ma le persone che li abitano. Le immagini, provenienti da parrocchie di tutto il mondo, descrivono incontri conviviali, conferenze, distribuzione di aiuti ai più bisognosi, visite agli anziani e ai malati, spettacoli. È un video, dunque, pieno di vita, quella vita che scorre nelle parrocchie e le rende ancora punti di riferimento per molti, dove si impara l’arte dell’incontro.
Locandina intenzione di preghiera del Papa per il mese di febbraio
La parrocchia è presenza della Chiesa tra le case
Il comunicato ricorda che già nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco aveva evidenziato la centralità della parrocchia: “sebbene non sia l’unica istituzione evangelizzatrice”, aveva scritto citando un’espressione di Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, la parrocchia ha la particolare caratteristica di essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Per questo deve stare “in contatto con le famiglie e con la vita del popolo” e non diventare “una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi”. Ma questo “appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie”, aggiungeva, “non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente”. Il Pontefice, dunque, insiste sull’idea che le parrocchie debbano portare avanti questo cammino di trasformazione per essere sempre aperte e a disposizione di tutti senza esclusioni, per questo parla di audacia e di ripensamento dello stile attuale delle comunità.
Le persone al centro della vita parrocchiale
Commentando l’intenzione di preghiera di febbraio, padre Frédéric Fornos S.J., direttore Internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa, ha ricordato che “qualche anno fa, Francesco ha detto alla diocesi di Isernia-Venafro: ‘Ogni comunità parrocchiale è chiamata ad essere luogo privilegiato dell’ascolto e dell’annuncio del Vangelo; casa di preghiera raccolta intorno all’Eucaristia; vera scuola della comunione’. Ascolto, preghiera e comunione – prosegue padre Fornos – sono indicazioni sinodali essenziali per la vita delle parrocchie. Per far questo, però, devono essere davvero comunità, con le persone al centro, perché siamo realmente comunità quando conosciamo l’altro, conosciamo il suo nome, le sue necessità, la sua voce”.
L’intenzione di preghiera del Papa
Ripensare allo stile delle nostre comunità
Si tratta di una sfida molto grande, dice ancora il direttore della Rete, infatti “quante volte accade che la parrocchia si trasformi in un raggruppamento di persone più o meno sconosciute che si ritrova per la Messa della domenica ma senza vita comunitaria?” “Essere una comunità cristiana – sottolinea – è una grazia, nasce dalla fede condivisa, dalla fraternità vissuta e dall’accoglienza ai più bisognosi; nasce da un’esperienza spirituale comune, dall’incontro con Cristo Risorto. Come dice Francesco nel Video del Papa – conclude padre Fornos -, dobbiamo essere ‘audaci’ nell’ascolto dello Spirito Santo e ripensare tutti ‘allo stile delle nostre comunità parrocchiali’”.
Se Michelangelo fosse vissuto ai nostri giorni, forse La pietà l’avrebbe raffigurata così: con i volti straziati dalla disperazione delle madri che piangono i loro figli. Figli migranti, saliti a bordo di barche di fortuna in cerca di un futuro migliore lontano da casa e finiti, invece, inghiottiti dalle acque del mare, a causa di tragici naufragi.
Le madri ritratte in questa fotografia vivono nella città settentrionale siriana di Manbij, al confine con la Turchia. Le lacrime che rigano i loro volti sono quelle per nove migranti curdi, i loro figli che non torneranno mai più indietro, perché annegati, ad ottobre, al largo delle coste dell’Algeria.
Ma il pianto di queste donne siriane non è diverso da quello della madre del piccolo Hudaifa, di soli due anni, partito a settembre su un “barcone della speranza” da Antalya, in Turchia, e morto di sete in mare aperto, a circa 71 miglia dalla Libia. È stata la mamma ad accorgersi che il piccolo non respirava più. Ed è stata lei a lavarlo e a rivestirlo con abiti puliti, custoditi accuratamente in una busta e pensati per l’arrivo sulla terra ferma. Ed è stata sempre lei ad affidarlo alle acque del mare, che lo hanno travolto per sempre.
Lo stesso dolore e le stesse lacrime le immaginiamo sul volto e nel cuore della giovane mamma di 19 anni che, pochi giorni fa, è stata soccorsa al largo di Lampedusa insieme ad altri migranti e che ha visto morire suo figlio, un neonato di soli venti giorni. E a nulla serve dire che il piccolo soffriva di problemi respiratori, perché ciò non allevia lo strazio della madre.
Quel medesimo strazio accompagna da tempo le donne che partecipano al “Movimiento Migrante Mesoamericano”, organizzazione che, dal 2004, attraversa il Messico con una carovana. A comporla sono le madri di migranti scomparsi durante il loro viaggio dall’America Latina verso la frontiera settentrionale con gli Stati Uniti. Le statistiche diffuse dal Registro nacional de personas desaparecidas y no localizadas (Rnpdno) rivelano che le persone migranti delle quali non si ha più traccia sono quasi 3.000, a cui si aggiungono oltre 20.000 di nazionalità non identificata, per un totale di quasi 100.000 desaparecidos in tutto il Messico. Erano partiti in cerca di fortuna, ma hanno incontrato la morte. Pietà per loro, pietà per le loro madri.