IL 2 Novembre di ogni anno

IL 2 Novembre di ogni anno


Come gli italiani festeggiano Ognissanti e i Defunti

Conosciuta come La Festa di Ognissanti – non è solo una solennità cattolica (un giorno di festa di altissimo rango) è anche un giorno festivo pubblico per il quale le scuole, gli uffici governativi e le imprese chiudono. 

Oggi, 2 novembre, la Chiesa celebra la Commemorazione dei defunti, un giorno dopo la celebrazione della sua festa gemella, quella di Ognissanti. 

L’origine di Ognissanti risale al VII e VIII secolo d.C. come modo per onorare tutti i santi, conosciuti e sconosciuti, che sono in paradiso. Anche la Festa dei Defunti, celebrata il giorno successivo, è una festa antica. È stata istituita per favorire l’offerta di preghiere e messe per le anime dei fedeli defunti del Purgatorio.

Come tende ad accadere nei paesi cattolici, le feste e le usanze secolari tendono ad accompagnare, e in alcuni casi a sostituire, la festa religiosa. Mentre i fedeli cattolici assistono alla Messa nel giorno di precetto, altri usano il tempo per diversivi più secolari.

Rispecchiando la diversità culturale di un paese che si è unito fino alla fine del XIX secolo, diverse regioni d’Italia celebrano Ognissanti in modo diverso. Come tanti altri eventi in Italia, le festività coinvolgono invariabilmente il cibo.

In Puglia, si ricorda una tradizione locale in cui i vicini lasciavano del cibo sul tavolo della cucina durante la notte tra l’1 e il 2 novembre per l’anima dei loro cari. Conosciuta come Tavola dei Morti , su ogni tavola veniva posto un cartoncino con l’immagine del defunto e una preghiera sul retro. 

La Fiera dei Morti . Risalente a 750 anni fa, la fiera di Perugia era una delle fiere più importanti d’Europa. Nell’Alto Medioevo durava fino a un mese e offriva a persone di diversa estrazione l’opportunità di incontrarsi per commerciare oltre a mescolarsi culturalmente e socialmente. In questi giorni si svolge durante la festa di Ognissanti ed è un’occasione per assaggiare piatti a base di cibi appena raccolti o raccolti come castagne, tartufo bianco, olive e olio d’oliva, funghi e uva.

Nelle Marche, la gente del posto prepara un tipo di biscotti noto come Fave dei Morti . Fatto di mandorle e nocciole, con il legume ha a che fare solo con la sua forma. Altri sostengono che risalga all’epoca romana quando le fave simboleggiavano le anime dei defunti.

Una tradizione affascinante è quella con cui gli italiani mandano gli auguri alle persone nel loro giorno onomastico , o omonimo. Ad esempio, il 4 ottobre, chiunque si chiami Francesco può aspettarsi di ricevere telefonate e messaggi con gli auguri . Le donne di nome Francesca, la forma femminile di Francis, possono aspettarsi lo stesso. Il 1° novembre è il giorno in cui tutti ricevono una chiamata del genere.

Il Giorno dei Morti è formalmente conosciuto come il Giorno dei Morti, spesso abbreviato semplicemente in i Morti . In questo giorno gli italiani visitano i cimiteri dove trascorrono del tempo con i propri cari: il crisantemo colorato, luminoso e allegro è il fiore preferito lasciato sulle tombe italiane.

In questa occasione, sopra l’ingresso, appena sotto la croce, si trova spessissimo la parola RESURRECTURIS. Significato: “A coloro che risorgeranno”, ci ricorda la nostra speranza. Nonostante le tradizioni e i costumi che vanno e vengono – così come anche i ricordi umani dei defunti – Dio non dimenticherà mai l’anima di ogni persona anima che ha creato. 

Questo è il messaggio delle Feste di Tutti i Santi e di Tutti i Defunti: che i corpi di coloro che sono morti in Cristo dormono, aspettando di risorgere e noi li vedremo di nuovo!

Tutti i Santi

Tutti i Santi

Papa Francesco: la santità è per tutti

i santi non sono ‘superuomini’

Solennità di tutti i Santi. Un cammino da fare insieme!

Nella festa di Tutti i Santi, Papa Francesco ha sottolineato che i santi non sono “superuomini” che “nascono perfetti”, ma sono piuttosto persone comuni che hanno scelto di seguire Dio, sottolineando che i santi non sono “superuomini” che “nascono perfetti”, ma sono persone comuni che seguono Dio “con tutto il cuore”.

«Sono come noi, sono come ognuno di noi, sono persone che prima di raggiungere la gloria del cielo vivevano una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze».

Ogni santo ha cambiato la sua vita «quando hanno riconosciuto l’amore di Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni e ipocrisie».

“Hanno trascorso la vita al servizio degli altri, hanno sopportato sofferenze e avversità senza odio e hanno risposto al male con il bene, diffondendo gioia e pace”, ha affermato.

“La santità è bella! È un modo bellissimo!” Dice Papa Francesco. “I santi ci danno un messaggio. Ci dicono: siate fedeli al Signore, perché il Signore non delude! Non delude mai ed è un buon amico sempre al nostro fianco”.

Il Papa sottolinea che tutti possono essere santi.

«Essere santi non è un privilegio di pochi… tutti noi nel battesimo abbiamo l’eredità di poter diventare santi. La santità è una vocazione per tutti”.

«Tutti noi siamo chiamati a camminare sulla via della santità, e questa via ha un nome, un volto: il volto di Gesù Cristo.

Papa Francesco afferma che la Festa di Tutti i Santi “ci ricorda che lo scopo della nostra esistenza non è la morte, è il paradiso!”

“I santi, gli amici di Dio, ci assicurano che questa promessa non delude”, ha aggiunto. «Nella loro esistenza terrena, infatti, avevano vissuto in profonda comunione con Dio. Nei volti più piccoli e disprezzati dei loro fratelli hanno visto il volto di Dio, e ora lo contemplano faccia a faccia nella sua gloriosa bellezza”.

I santi mostrano gioia e amore, ha detto.

“I santi sono uomini e donne che hanno la gioia nel cuore e la trasmettono agli altri. Non odiare mai, ma servire l’altro, è il bisogno più grande. Pregare e vivere nella gioia: questa è la via della santità!”

I santi non “pongono condizioni” a Dio, spiega il Papa. Inoltre, “non sono violenti ma misericordiosi e cercano di essere artefici di riconciliazione e di pace”.

«I santi non hanno mai odiato», aggiunge il Papa. “Comprendilo bene: l’amore è da Dio, ma da dove viene l’odio? L’odio non viene da Dio, ma dal diavolo!”

Il Regno dei Cieli è per coloro che confidano nell’amore di Dio e non ripongono la loro sicurezza nelle cose materiali. È per chi ha umiltà e “cuore semplice” e non giudica gli altri. Il Regno dei Cieli è per “coloro che soffrono con chi soffre e gioiscono con chi gioisce”.

I santi sono anche fonte di forza d’animo e di speranza, osserva.

“I santi ci incoraggiano con la loro testimonianza a non avere paura di andare controcorrente o di essere incompresi e derisi quando parliamo del Signore e del Vangelo”, “Essi ci mostrano con la loro vita che chi rimane fedele a Dio e alle sue parole sperimenta ora su questa terra il conforto del suo amore e poi lo sperimenta “centuplo” nell’eternità”.

Il giorno di Tutti i Santi ci parla della vita umana che non termina con la morte; la vita non è tolta ma trasformata e vissuta nella beata eternità di Dio. Il giorno di Tutti i Santi è una giornata di celebrazione e di autentica catechesi dei misteri della nostra fede, i novissimi: morte, giudizio, infermo e paradiso.

Concludendo, possiamo dire, quindi, che Il santo non è il buono o colui che si sforza di migliorarsi, non è un superuomo, piuttosto è un uomo vero, perché aderisce alla bellezza e alla verità dell’incontro con Cristo e, come colui che è trascinato da un grande amore, vive la densità dell’istante tutto preso dalla memoria del suo volto e desidera che anche gli altri possano incontrare la pienezza  e il fascino che lui ha visto.

Per la tradizione cristiana il santo è, perciò, un uomo vero, riflesso di Cristo, l’unico in cui l’umanità si è compiuta in tutta la sua potenzialità. Pensiamo ad Andrea e Giovanni che, dopo che hanno incontrato il Maestro, gli chiedono: “Maestro, dove abiti?”; Lui risponde: “Venite a vedere” !

GAUDETE ET EXSULTATE

GAUDETE ET EXSULTATE

ESORTAZIONE APOSTOLICA DEL SANTO PADRE
FRANCESCO

SULLA CHIAMATA ALLA SANTITÀ
NEL MONDO CONTEMPORANEO

« Rallegratevi ed esultate » [1-2]

Capitolo Primo
LA CHIAMATA ALLA SANTITÀ

I santi che ci incoraggiano e ci accompagnano [3-5]
I santi della porta accanto [6-9]
Il Signore chiama [10-13]
Anche per te [14-18]
La tua missione in Cristo [19-24]
L’attività che santifica [25-31]
Più vivi, più umani [32-34]

Capitolo Secondo
DUE SOTTILI NEMICI DELLA SANTITÀ

Lo gnosticismo attuale [36]

Una mente senza Dio e senza carne [37-39]
Una dottrina senza mistero [40-42]
I limiti della ragione [43-46]

Il Pelagianesimo attuale [47-48]

Una volontà senza umiltà [49-51]
Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato [52-56]
I nuovi pelagiani [57-59]
Il riassunto della Legge [60-62]

Capitolo Terzo
ALLA LUCE DEL MAESTRO

Controcorrente [65-66]

« Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli » [67-70]
« Beati i miti, perché avranno in eredità la terra » [71-74]
« Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati » [75-76]
« Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati » [77-79]
« Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia » [80-82]
« Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » [83-86]
« Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » [87-89]
« Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli » [90-94]

La grande regola di comportamento [95]

Per fedeltà al Maestro [96-99]
Le ideologie che mutilano il cuore del Vangelo [100-103]
Il culto che Lui più gradisce [104-109]

Capitolo Quarto
ALCUNE CARATTERISTICHE DELLA SANTITÀ NEL MONDO ATTUALE

Sopportazione, pazienza e mitezza [112-121]
Gioia e senso dell’umorismo [122-128]
Audacia e fervore [129-139]
In comunità [140-146]
In preghiera costante [147-157]

Capitolo Quinto
COMBATTIMENTO, VIGILANZA E DISCERNIMENTO

Il combattimento e la vigilanza [159]

Qualcosa di più di un mito [160-161]
Svegli e fiduciosi [162-163]
La corruzione spirituale [164-165]

Il discernimento [166]

Un bisogno urgente [167-168]
Sempre alla luce del Signore [169]
Un dono soprannaturale [170-171]
Parla, Signore [172-173]
La logica del dono e della croce [174-177]


1. «Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12), dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. In realtà, fin dalle prime pagine della Bibbia è presente, in diversi modi, la chiamata alla santità. Così il Signore la proponeva ad Abramo: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1).

2. Non ci si deve aspettare qui un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione. Il mio umile obiettivo è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità. Perché il Signore ha scelto ciascuno di noi «per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4).

CAPITOLO PRIMO

LA CHIAMATA ALLA SANTITÀ
 

I santi che ci incoraggiano e ci accompagnano

3. Nella Lettera agli Ebrei si menzionano diversi testimoni che ci incoraggiano a «[correre] con perseveranza nella corsa che ci sta davanti» (12,1). Lì si parla di Abramo, di Sara, di Mosè, di Gedeone e di altri ancora (cfr 11,1-12,3) e soprattutto siamo invitati a riconoscere che siamo «circondati da una moltitudine di testimoni» (12,1) che ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta. E tra di loro può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine (cfr 2 Tm 1,5). Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore.

4. I santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione. Lo attesta il libro dell’Apocalisse quando parla dei martiri che intercedono: «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia?”»(6,9-10). Possiamo dire che «siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. […] Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta».[1]

5. Nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli.[2] Ricordiamo, ad esempio, la beata Maria Gabriella Sagheddu, che ha offerto la sua vita per l’unità dei cristiani.

I santi della porta accanto

6. Non pensiamo solo a quelli già beatificati o canonizzati. Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità».[3] Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo.

7. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”.[4]

8. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri di quel popolo che «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità».[5] Pensiamo, come ci suggerisce santa Teresa Benedetta della Croce, che mediante molti di loro si costruisce la vera storia: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato».[6]

9. La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo».[7] D’altra parte, san Giovanni Paolo II ci ha ricordato che «la testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti».[8] Nella bella commemorazione ecumenica che egli volle celebrare al Colosseo durante il Giubileo del 2000, sostenne che i martiri sono «un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione».[9]

Il Signore chiama

10. Tutto questo è importante. Tuttavia, quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo» (Lv 11,44; 1 Pt 1,16). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste».[10]

11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza.[11] Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo».[12] Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.[13]

12. Tra le diverse forme, voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo. E proprio anche in epoche nelle quali le donne furono maggiormente escluse, lo Spirito Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e importanti riforme nella Chiesa. Possiamo menzionare santa Ildegarda di Bingen, santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d’Avila o Santa Teresa di Lisieux. Ma mi preme ricordare tante donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza.

13. Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5).

Anche per te

14. Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali.[14]

15. Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli» (Is 61,10).

16. Questa santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti.

17. A volte la vita presenta sfide più grandi e attraverso queste il Signore ci invita a nuove conversioni che permettono alla sua grazia di manifestarsi meglio nella nostra esistenza «allo scopo di farci partecipi della sua santità» (Eb 12,10). Altre volte si tratta soltanto di trovare un modo più perfetto di vivere quello che già facciamo: «Ci sono delle ispirazioni che tendono soltanto ad una straordinaria perfezione degli esercizi ordinari della vita cristiana».[15] Quando il Cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuân era in carcere, rinunciò a consumarsi aspettando la liberazione. La sua scelta fu: «vivo il momento presente, colmandolo di amore»; e il modo con il quale si concretizzava questo era: «afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario».[16]

18. Così, sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1 Pt 4,10). Bene hanno insegnato i Vescovi della Nuova Zelanda che è possibile amare con l’amore incondizionato del Signore perché il Risorto condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite: «Il suo amore non ha limiti e una volta donato non si è mai tirato indietro. E’ stato incondizionato ed è rimasto fedele. Amare così non è facile perché molte volte siamo tanto deboli. Però, proprio affinché possiamo amare come Lui ci ha amato, Cristo condivide la sua stessa vita risorta con noi. In questo modo, la nostra vita dimostra la sua potenza in azione, anche in mezzo alla debolezza umana».[17]

La tua missione in Cristo

19. Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo.

20. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore. La contemplazione di questi misteri, come proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti.[18] Perché «tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero»,[19] «tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre»,[20] «tutta la vita di Cristo è mistero di Redenzione»,[21] «tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione»,[22] e «tutto ciò che Cristo ha vissuto fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che Egli lo viva in noi».[23]

21. Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché «la santità non è altro che la carità pienamente vissuta».[24] Pertanto, «la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua».[25] Così, ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo.

22. Per riconoscere quale sia quella parola che il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui particolari, perché lì possono esserci anche errori e cadute. Non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona.[26]

23. Questo è un forte richiamo per tutti noi. Anche tu hai bisogno di concepire la totalità della tua vita come una missione. Prova a farlo ascoltando Dio nella preghiera e riconoscendo i segni che Egli ti offre. Chiedi sempre allo Spirito che cosa Gesù si attende da te in ogni momento della tua esistenza e in ogni scelta che devi fare, per discernere il posto che ciò occupa nella tua missione. E permettigli di plasmare in te quel mistero personale che possa riflettere Gesù Cristo nel mondo di oggi.

24. Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta. Il Signore la porterà a compimento anche in mezzo ai tuoi errori e ai tuoi momenti negativi, purché tu non abbandoni la via dell’amore e rimanga sempre aperto alla sua azione soprannaturale che purifica e illumina.

L’attività che santifica

25. Poiché non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). La tua identificazione con Cristo e i suoi desideri implica l’impegno a costruire, con Lui, questo Regno di amore, di giustizia e di pace per tutti. Cristo stesso vuole viverlo con te, in tutti gli sforzi e le rinunce necessari, e anche nelle gioie e nella fecondità che ti potrà offrire. Pertanto non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale impegno.

26. Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione.

27. Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? Tuttavia, a volte abbiamo la tentazione di relegare la dedizione pastorale e l’impegno nel mondo a un posto secondario, come se fossero “distrazioni” nel cammino della santificazione e della pace interiore. Si dimentica che «non è che la vita abbia una missione, ma che è missione».[27]

28. Un impegno mosso dall’ansietà, dall’orgoglio, dalla necessità di apparire e di dominare, certamente non sarà santificante. La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo. Da qui il fatto che si parli spesso, ad esempio, di una spiritualità del catechista, di una spiritualità del clero diocesano, di una spiritualità del lavoro. Per la stessa ragione, in Evangelii gaudium ho voluto concludere con una spiritualità della missione, in Laudato si’ con una spiritualità ecologica e in Amoris laetitia, con una spiritualità della vita familiare.

29. Questo non implica disprezzare i momenti di quiete, solitudine e silenzio davanti a Dio. Al contrario. Perché le continue novità degli strumenti tecnologici, l’attrattiva dei viaggi, le innumerevoli offerte di consumo, a volte non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio. Tutto si riempie di parole, di piaceri epidermici e di rumori ad una velocità sempre crescente. Lì non regna la gioia ma l’insoddisfazione di chi non sa per che cosa vive. Come dunque non riconoscere che abbiamo bisogno di fermare questa corsa febbrile per recuperare uno spazio personale, a volte doloroso ma sempre fecondo, in cui si intavola il dialogo sincero con Dio? In qualche momento dovremo guardare in faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore, e non sempre si ottiene questo se uno «non viene a trovarsi sull’orlo dell’abisso, della tentazione più grave, sulla scogliera dell’abbandono, sulla cima solitaria dove si ha l’impressione di rimanere totalmente soli».[28] In questo modo troviamo le grandi motivazioni che ci spingono a vivere fino in fondo i nostri compiti.

30. Gli stessi strumenti di svago che invadono la vita attuale ci portano anche ad assolutizzare il tempo libero, nel quale possiamo utilizzare senza limiti quei dispositivi che ci offrono divertimento e piaceri effimeri.[29] Come conseguenza, è la propria missione che ne risente, è l’impegno che si indebolisce, è il servizio generoso e disponibile che inizia a ridursi. Questo snatura l’esperienza spirituale. Può essere sano un fervore spirituale che conviva con l’accidia nell’azione evangelizzatrice o nel servizio agli altri?

31. Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione.

Più vivi, più umani

32. Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai ad essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da Lui ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità. Questa realtà si riflette in santa Giuseppina Bakhita, che fu «resa schiava e venduta come tale alla tenera età di sette anni, soffrì molto nelle mani di padroni crudeli. Tuttavia comprese la verità profonda che Dio, e non l’uomo, è il vero padrone di ogni essere umano, di ogni vita umana. Questa esperienza divenne fonte di grande saggezza per questa umile figlia d’Africa».[30]

33. Ogni cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo. I Vescovi dell’Africa Occidentale ci hanno insegnato: «Siamo chiamati, nello spirito della nuova evangelizzazione, ad essere evangelizzati e a evangelizzare mediante la promozione di tutti i battezzati, affinché assumiate i vostri ruoli come sale della terra e luce del mondo dovunque vi troviate».[31]

34. Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia. In fondo, come diceva León Bloy, nella vita «non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi».[32]

CAPITOLO SECONDO

DUE SOTTILI NEMICI DELLA SANTITÀ

35. In questo quadro, desidero richiamare l’attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica.[33] Vediamo queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo «ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente».[34]

Lo gnosticismo attuale

36. Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti».[35]

Una mente senza Dio e senza carne

37. Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono «un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo».[36]

38. In definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità: molto movimento alla superficie della mente, però non si muove né si commuove la profondità del pensiero. Tuttavia, riesce a soggiogare alcuni con un fascino ingannevole, perché l’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto.

39. Facciamo però attenzione. Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana. Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione. Perché è anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti. Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto.[37]

Una dottrina senza mistero

40. Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca. A volte diventa particolarmente ingannevole quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero»,[38] sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri.

41. Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio.

42. Neppure si può pretendere di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana. Questo fa parte del mistero che le mentalità gnostiche finiscono per rifiutare, perché non lo possono controllare.

I limiti della ragione

43. Noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, «aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola». Certo, «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione».[39] Per l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così concreta del Vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e incarnato con una Unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della nostra storia.

44. In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, «non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano».[40]

45. Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli».[41] In realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile».[42]

46. Quando san Francesco d’Assisi vedeva che alcuni dei suoi discepoli insegnavano la dottrina, volle evitare la tentazione dello gnosticismo. Quindi scrisse così a Sant’Antonio di Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché, in tale occupazione, tu non estingua lo spirito di orazione e di devozione».[43] Egli riconosceva la tentazione di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo. San Bonaventura, da parte sua, avvertiva che la vera saggezza cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo: «La più grande saggezza che possa esistere consiste nel dispensare fruttuosamente ciò che si possiede, e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato. […] Per questo, come la misericordia è amica della saggezza, così l’avarizia le è nemica».[44] «Vi sono attività che, unendosi alla contemplazione, non la impediscono, bensì la favoriscono, come le opere di misericordia e di pietà».[45]

Il Pelagianesimo attuale

47. Lo gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato.

48. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto «dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16) e che Egli «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19).

Una volontà senza umiltà

49. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico».[46] Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto»[47] e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia.[48] In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»;[49] o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi».[50]

50. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita.[51] La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo.[52] Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo.

51. Quando Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7). E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza, potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la retta via (cfr Sal 139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 84,11). In Lui veniamo santificati.

Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato

52. La Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa. I Padri della Chiesa, anche prima di sant’Agostino, hanno espresso con chiarezza questa convinzione primaria. San Giovanni Crisostomo affermava che Dio versa in noi la fonte stessa di tutti i doni «prima che noi siamo entrati nel combattimento».[53] San Basilio Magno rimarcava che il fedele si gloria solo in Dio, perché «riconosce di essere privo della vera giustizia e giustificato unicamente mediante la fede in Cristo».[54]

53. Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: «Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo».[55] Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento dogmatico: «Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)».[56]

54. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il dono della grazia «supera le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo»,[57] e che «nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata».[58] La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che «quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata».[59] I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi».[60]

55. Questa è una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione. Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa. Non potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di «riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà».[61]

56. Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più.[62] La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la crescita nella vita di grazia, perché «se non avessi la carità, non sarei nulla» (1 Cor 13,2).

I nuovi pelagiani

57. Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo.[63]

58. Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità, ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati… o corrotti.

59. Senza renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca. San Tommaso d’Aquino ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione «per non rendere gravosa la vita ai fedeli», perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù.[64]

Il riassunto della Legge

60. Al fine di evitare questo, è bene ricordare spesso che esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo chiamati a curare attentamente la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge […] pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8.10). Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).

61. Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!».[65]

62. Che il Signore liberi la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo che la complicano e la fermano nel suo cammino verso la santità! Queste deviazioni si esprimono in forme diverse, secondo il proprio temperamento e le proprie caratteristiche. Per questo esorto ciascuno a domandarsi e a discernere davanti a Dio in che modo si possano rendere manifeste nella sua vita.

CAPITOLO TERZO

ALLA LUCE DEL MAESTRO

63. Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini.[66] In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita.

64. La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine.

Controcorrente

65. Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio.

66. Torniamo ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro. Permettiamogli di colpirci con le sue parole, di provocarci, di richiamarci a un reale cambiamento di vita. Altrimenti la santità sarà solo parole. Ricordiamo ora le singole Beatitudini nella versione del vangelo di Matteo (cfr 5,3-12).[67]

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

67. Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola. Gesù stesso ce l’ha detto nella parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno (cfr Lc 12,16-21).

68. Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità.

69. Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto».[68]

70. Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero» (2 Cor 8,9).

Essere poveri nel cuore, questo è santità.

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra».

71. È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi al di sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme: «Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9).

72. Egli disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili. Per santa Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze».[69]

73. Paolo menziona la mitezza come un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). Propone che, se qualche volta ci preoccupano le cattive azioni del fratello, ci avviciniamo per correggerle, ma «con spirito di dolcezza» (Gal 6,1), e ricorda: «e tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (ibid.). Anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza (cfr 1 Pt 3,16), e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza (cfr 2 Tm 2,25). Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina.

74. La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11). Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).

Reagire con umile mitezza, questo è santità.

«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati».

75. Il mondo ci propone il contrario: il divertimento, il godimento, la distrazione, lo svago, e ci dice che questo è ciò che rende buona la vita. Il mondano ignora, guarda dall’altra parte quando ci sono problemi di malattia o di dolore in famiglia o intorno a lui. Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce.

76. La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore, è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice.[70] Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).

Saper piangere con gli altri, questo è santità.

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati».

77. «Fame e sete» sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari e sono legate all’istinto di sopravvivenza. Ci sono persone che con tale intensità aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte. Gesù dice che costoro saranno saziati, giacché presto o tardi la giustizia arriva, e noi possiamo collaborare perché sia possibile, anche se non sempre vediamo i risultati di questo impegno.

78. Ma la giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio. E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita. Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di salire sul carro del vincitore. Questo non ha nulla a che vedere con la fame e la sete di giustizia che Gesù elogia.

79. Tale giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i deboli. Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17).

Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità.

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia».

80. La misericordia ha due aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche perdonare, comprendere. Matteo riassume questo in una regola d’oro: «Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (7,12). Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare «in ogni caso»,[71] in modo speciale quando qualcuno «talvolta si trova ad affrontare situazioni difficili che rendono incerto il giudizio morale».[72]

81. Dare e perdonare è tentare di riprodurre nella nostra vita un piccolo riflesso della perfezione di Dio, che dona e perdona in modo sovrabbondante. Per questo motivo nel vangelo di Luca non troviamo «siate perfetti» (Mt 5,48), ma «siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati; date e vi sarà dato» (6,36-38). E dopo Luca aggiunge qualcosa che non dovremmo trascurare: «Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (6,38). La misura che usiamo per comprendere e perdonare verrà applicata a noi per perdonarci. La misura che applichiamo per dare, sarà applicata a noi nel cielo per ricompensarci. Non ci conviene dimenticarlo.

82. Gesù non dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno «settanta volte sette» (Mt 18,22). Occorre pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati guardati con compassione divina. Se ci accostiamo sinceramente al Signore e affiniamo l’udito, probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18,33).

Guardare e agire con misericordia, questo è santità.

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

83. Questa beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia, perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo. Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel cuore (cfr Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge (cfr Ger 31,33). In definitiva, vuole darci un cuore nuovo (cfr Ez 36,26).

84. «Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore» (Pr 4,23). Nulla di macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore. Egli «fugge ogni inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati» (Sap 1,5). Il Padre, che «vede nel segreto» (Mt 6,6), riconosce ciò che non è pulito, vale a dire ciò che non è sincero, ma solo scorza e apparenza, come pure il Figlio sa «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25).

85. È vero che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,3). Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende impuro l’uomo (cfr 15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le false testimonianze, e così via (cfr 15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono.

86. Quando il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso noi vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1 Cor 13,12), ma nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere «faccia a faccia» (ibid.). Gesù promette che quelli che hanno un cuore puro «vedranno Dio».

Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità.

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

87. Questa beatitudine ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono. Per noi è molto comune essere causa di conflitti o almeno di incomprensioni. Per esempio, quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo. E se riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione. Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace. Questa gente è piuttosto nemica della pace e in nessun modo beata.[73]

88. I pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale. A coloro che si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa: «Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli chiedeva ai discepoli che quando fossero giunti in una casa dicessero: «Pace a questa casa!» (Lc 10,5). La Parola di Dio sollecita ogni credente a cercare la pace insieme agli altri (cfr 2 Tm 2,22), perché «per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18). E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, «cerchiamo ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), perché l’unità è superiore al conflitto.[74]

89. Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di «un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice»[75], né di un progetto «di pochi indirizzato a pochi».[76] Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[77] Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza.

Seminare pace intorno a noi, questo è santità.

«Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

90. Gesù stesso sottolinea che questo cammino va controcorrente fino al punto da farci diventare persone che con la propria vita mettono in discussione la società, persone che danno fastidio. Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché «chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25).

91. Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi. San Giovanni Paolo II diceva che «è alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione [del] dono [di sé] e il costituirsi [della] solidarietà interumana»[78]. In una tale società alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica, economica, culturale e persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo umano e sociale, vivere le Beatitudini diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata.

92. La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione. Ricordiamo che, quando il Nuovo Testamento parla delle sofferenze che bisogna sopportare per il Vangelo, si riferisce precisamente alle persecuzioni (cfr At 5,41; Fil 1,29; Col 1,24; 2 Tm 1,12; 1 Pt 2,20; 4,14-16; Ap 2,10).

93. Parliamo però delle persecuzioni inevitabili, non di quelle che ci potremmo procurare noi stessi con un modo sbagliato di trattare gli altri. Un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti. Non erano così gli Apostoli di Cristo. Il libro degli Atti racconta insistentemente che essi godevano della simpatia «di tutto il popolo» (2,47; cfr 4,21.33; 5,13), mentre alcune autorità li ricercavano e li perseguitavano (cfr4,1-3; 5,17-18).

94. Le persecuzioni non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità. Gesù dice che ci sarà beatitudine quando «mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11). Altre volte si tratta di scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di farci passare per persone ridicole.

Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità.

La grande regola di comportamento

95. Nel capitolo 25 del vangelo di Matteo (vv. 31-46), Gesù torna a soffermarsi su una di queste beatitudini, quella che dichiara beati i misericordiosi. Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,35-36).

Per fedeltà al Maestro

96. Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi».[79] Il testo di Matteo 25,35-36 «non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo».[80] In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi.

97. Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del Vangelo».[81]

98. Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?[82]

99. Questo implica per i cristiani una sana e permanente insoddisfazione. Anche se dare sollievo a una sola persona già giustificherebbe tutti i nostri sforzi, ciò non ci basta. I Vescovi del Canada lo hanno affermato chiaramente mostrando che, negli insegnamenti biblici riguardo al Giubileo, per esempio, non si tratta solo di realizzare alcune buone azioni, bensì di cercare un cambiamento sociale: «Affinché anche le generazioni a venire fossero liberate, evidentemente l’obiettivo doveva essere il ripristino di sistemi sociali ed economici giusti perché non potesse più esserci esclusione».[83]

Le ideologie che mutilano il cuore del Vangelo

100. Purtroppo a volte le ideologie ci portano a due errori nocivi. Da una parte, quello dei cristiani che separano queste esigenze del Vangelo dalla propria relazione personale con il Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia. Così si trasforma il cristianesimo in una sorta di ONG, privandolo di quella luminosa spiritualità che così bene hanno vissuto e manifestato san Francesco d’Assisi, san Vincenzo de Paoli, santa Teresa di Calcutta e molti altri. A questi grandi santi né la preghiera, né l’amore di Dio, né la lettura del Vangelo diminuirono la passione e l’efficacia della loro dedizione al prossimo, ma tutto il contrario.

101. Nocivo e ideologico è anche l’errore di quanti vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto.[84] Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente.

102. Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)? San Benedetto lo aveva accettato senza riserve e, anche se ciò avrebbe potuto “complicare” la vita dei monaci, stabilì che tutti gli ospiti che si presentassero al monastero li si accogliesse «come Cristo»,[85] esprimendolo perfino con gesti di adorazione,[86] e che i poveri pellegrini li si trattasse «con la massima cura e sollecitudine».[87]

103. Qualcosa di simile prospetta l’Antico Testamento quando dice: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). Pertanto, non si tratta dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero. Anche noi, nel contesto attuale, siamo chiamati a vivere il cammino di illuminazione spirituale che ci presentava il profeta Isaia quando si domandava che cosa è gradito a Dio: «Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora» (58,7-8).

Il culto che Lui più gradisce

104. Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.

105. Per la stessa ragione, il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia. Perché «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli».[88] Essa è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa».[89] Desidero sottolineare ancora una volta che, benché la misericordia non escluda la giustizia e la verità, «anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio».[90] Essa «è la chiave del cielo».[91]

106. Non posso tralasciare di ricordare quell’interrogativo che si poneva san Tommaso d’Aquino quando si domandava quali sono le nostre azioni più grandi, quali sono le opere esterne che meglio manifestano il nostro amore per Dio. Egli rispose senza dubitare che sono le opere di misericordia verso il prossimo,[92] più che gli atti di culto: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: Egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo».[93]

107. Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia. È ciò che aveva capito molto bene santa Teresa di Calcutta: «Sì, ho molte debolezze umane, molte miserie umane. […] Ma Lui si abbassa e si serve di noi, di te e di me, per essere suo amore e sua compassione nel mondo, nonostante i nostri peccati, nonostante le nostre miserie e i nostri difetti. Lui dipende da noi per amare il mondo e dimostrargli quanto lo ama. Se ci occupiamo troppo di noi stessi, non ci resterà tempo per gli altri».[94]

108. Il consumismo edonista può giocarci un brutto tiro, perché nell’ossessione di divertirsi finiamo con l’essere eccessivamente concentrati su noi stessi, sui nostri diritti e nell’esasperazione di avere tempo libero per godersi la vita. Sarà difficile che ci impegniamo e dedichiamo energie a dare una mano a chi sta male se non coltiviamo una certa austerità, se non lottiamo contro questa febbre che ci impone la società dei consumi per venderci cose, e che alla fine ci trasforma in poveri insoddisfatti che vogliono avere tutto e provare tutto. Anche il consumo di informazione superficiale e le forme di comunicazione rapida e virtuale possono essere un fattore di stordimento che si porta via tutto il nostro tempo e ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli. In mezzo a questa voragine attuale, il Vangelo risuona nuovamente per offrirci una vita diversa, più sana e più felice.

* * *

109. La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana. Raccomando vivamente di rileggere spesso questi grandi testi biblici, di ricordarli, di pregare con essi e tentare di incarnarli. Ci faranno bene, ci renderanno genuinamente felici.

CAPITOLO QUARTO

ALCUNE CARATTERISTICHE DELLA SANTITÀ
NEL MONDO ATTUALE

110. All’interno del grande quadro della santità che ci propongono le Beatitudini e Matteo 25,31-46, vorrei raccogliere alcune caratteristiche o espressioni spirituali che, a mio giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore ci chiama. Non mi fermerò a spiegare i mezzi di santificazione che già conosciamo: i diversi metodi di preghiera, i preziosi sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, l’offerta dei sacrifici, le varie forme di devozione, la direzione spirituale, e tanti altri. Mi riferirò solo ad alcuni aspetti della chiamata alla santità che spero risuonino in maniera speciale.

111. Queste caratteristiche che voglio evidenziare non sono tutte quelle che possono costituire un modello di santità, ma sono cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che considero di particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi. In essa si manifestano: l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale.

Sopportazione, pazienza e mitezza

112. La prima di queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel bene. E’ la fedeltà dell’amore, perché chi si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pistós), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni immediate.

113. San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza, perché Dio stesso «è lento all’ira, ma grande nella potenza» (Na 1,3). La Parola di Dio ci ammonisce: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31).

114. E’ necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Quando ci sono circostanze che ci opprimono, possiamo sempre ricorrere all’ancora della supplica, che ci conduce a stare nuovamente nelle mani di Dio e vicino alla fonte della pace: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori» (Fil 4,6-7).

115. Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6).

116. La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3).

117. Non ci fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza.[95] San Giovanni della Croce proponeva un’altra cosa: «Sii più inclinato ad essere ammaestrato da tutti che a volere ammaestrare chi è inferiore a tutti».[96] E aggiungeva un consiglio per tenere lontano il demonio: «Rallegrandoti del bene degli altri come se fosse tuo e cercando sinceramente che questi siano preferiti a te in tutte le cose. In tal modo vincerai il male con il bene, caccerai lontano da te il demonio e ne ricaverai gioia di spirito. Cerca di fare ciò specialmente con coloro i quali meno ti sono simpatici. Sappi che se non ti eserciterai in questo campo, non giungerai alla vera carità né farai profitto in essa».[97]

118. L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte ineludibile dell’imitazione di Cristo: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2,21). Egli a sua volta manifesta l’umiltà del Padre, che si umilia per camminare con il suo popolo, che sopporta le sue infedeltà e mormorazioni (cfr Es 34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36). Per questa ragione gli Apostoli, dopo l’umiliazione, erano «lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41).

119. Non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: «Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (1 Pt 2,20). Non è camminare a capo chino, parlare poco o sfuggire dalla società. A volte, proprio perché è libero dall’egocentrismo, qualcuno può avere il coraggio di discutere amabilmente, di reclamare giustizia o di difendere i deboli davanti ai potenti, benché questo gli procuri conseguenze negative per la sua immagine.

120. Non dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza una simile proposta. E’ una grazia che abbiamo bisogno di supplicare: “Signore, quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te, sulla tua via”.

121. Tale atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza interiore e resistere, perseverare nel bene «anche se vado per una valle oscura» (Sal 23,4) o anche «se contro di me si accampa un esercito» (Sal 27,3). Saldi nel Signore, la Roccia, possiamo cantare: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare» (Sal 4,9). In definitiva, Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14) ed è venuto a «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Egli comunicò a santa Faustina Kowalska che «l’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia».[98] Non cadiamo dunque nella tentazione di cercare la sicurezza interiore nei successi, nei piaceri vuoti, nel possedere, nel dominio sugli altri o nell’immagine sociale: «Vi do la mia pace», ma «non come la dà il mondo» (Gv 14,27).

Gioia e senso dell’umorismo

122. Quanto detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia».[99] Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4).

123. I profeti annunciavano il tempo di Gesù, che noi stiamo vivendo, come una rivelazione della gioia: «Canta ed esulta!» (Is 12,6); «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme» (Is 40,9); «Gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13); «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso» (Zc 9,9). E non dimentichiamo l’esortazione di Neemia: «Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (8,10).

124. Maria, che ha saputo scoprire la novità portata da Gesù, cantava: «Il mio spirito esulta» (Lc 1,47) e Gesù stesso «esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Quando Lui passava, «la folla intera esultava» (Lc 13,17). Dopo la sua risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava «una grande gioia» (At 8,8). A noi Gesù dà una sicurezza: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. […] Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20.22). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).

125. Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto».[100] E’ una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani.

126. Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (Qo 11,10). E’ così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio.[101]

127. Il suo amore paterno ci invita: «Figlio, […] trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Ci vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29). In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). E’ quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto.

128. Non sto parlando della gioia consumista e individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia. Mi riferisco piuttosto a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15). «Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti» (2 Cor 13,9). Invece, se «ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia».[102]

Audacia e fervore

129. Nello stesso tempo, la santità è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste parole ci permettono di camminare e servire con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per i fratelli (cfr At 4,29; 9,28; 28,31; 2 Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6; 10,19).

130. Il beato Paolo VI menzionava tra gli ostacoli dell’evangelizzazione proprio la carenza di parresia: «la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro».[103] Quante volte ci sentiamo strattonati per fermarci sulla comoda riva! Ma il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque più profonde (cfr Lc 5,4). Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. Potessimo sentirci spinti dal suo amore (cfr 2 Cor 5,14) e dire con san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16).

131. Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle sue mani e ci lanci in missione. Siamo fragili, ma portatori di un tesoro che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo accolgono. L’audacia e il coraggio apostolico sono costitutivi della missione.

132. La parresia è sigillo dello Spirito, testimonianza dell’autenticità dell’annuncio. E’ felice sicurezza che ci porta a gloriarci del Vangelo che annunciamo, è fiducia irremovibile nella fedeltà del Testimone fedele, che ci dà la certezza che nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39).

133. Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine ha odore di umidità e ci fa ammalare. Quando gli Apostoli provarono la tentazione di lasciarsi paralizzare dai timori e dai pericoli, si misero a pregare insieme chiedendo la parresia: «E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola» (At 4,29). E la risposta fu che «quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31).

134. Come il profeta Giona, sempre portiamo latente in noi la tentazione di fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme. Talvolta facciamo fatica ad uscire da un territorio che ci era conosciuto e a portata di mano. Tuttavia, le difficoltà possono essere come la tempesta, la balena, il verme che fece seccare il ricino di Giona, o il vento e il sole che gli scottarono la testa; e come fu per lui, possono avere la funzione di farci tornare a quel Dio che è tenerezza e che vuole condurci a un’itineranza costante e rinnovatrice.

135. Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (cfr Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì.

136. E’ vero che bisogna aprire la porta a Gesù Cristo, perché Lui bussa e chiama (cfr Ap 3,20). Ma a volte mi domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra autoreferenzialità, Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo uscire. Nel Vangelo vediamo come Gesù «andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio» (Lc 8,1). Anche dopo la risurrezione, quando i discepoli partirono in ogni direzione, «il Signore agiva insieme con loro» (Mc 16,20). Questa è la dinamica che scaturisce dal vero incontro.

137. L’abitudine ci seduce e ci dice che non ha senso cercare di cambiare le cose, che non possiamo far nulla di fronte a questa situazione, che è sempre stato così e che tuttavia siamo andati avanti. Per l’abitudine noi non affrontiamo più il male e permettiamo che le cose “vadano come vanno”, o come alcuni hanno deciso che debbano andare. Ma dunque lasciamo che il Signore venga a risvegliarci, a dare uno scossone al nostro torpore, a liberarci dall’inerzia. Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli occhi e gli orecchi, e soprattutto il cuore, per lasciarci smuovere da ciò che succede intorno a noi e dal grido della Parola viva ed efficace del Risorto.

138. Ci mette in moto l’esempio di tanti sacerdoti, religiose, religiosi e laici che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita e certamente a prezzo della loro comodità. La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante.

139. Chiediamo al Signore la grazia di non esitare quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti; chiediamo il coraggio apostolico di comunicare il Vangelo agli altri e di rinunciare a fare della nostra vita un museo di ricordi. In ogni situazione, lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto. In tal modo la Chiesa, invece di stancarsi, potrà andare avanti accogliendo le sorprese del Signore.

In comunità

140. E’ molto difficile lottare contro la propria concupiscenza e contro le insidie e tentazioni del demonio e del mondo egoista se siamo isolati. E’ tale il bombardamento che ci seduce che, se siamo troppo soli, facilmente perdiamo il senso della realtà, la chiarezza interiore, e soccombiamo.

141. La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri. Pensiamo, ad esempio, ai sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, alle sette beate religiose del primo monastero della Visitazione di Madrid, a san Paolo Miki e compagni martiri in Giappone, a sant’Andrea Taegon e compagni martiri in Corea, ai santi Rocco Gonzáles e Alfonso Rodríguez e compagni martiri in Sud America. Ricordiamo anche la recente testimonianza dei monaci trappisti di Tibhirine (Algeria), che si sono preparati insieme al martirio. Allo stesso modo ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù».[104]

142. La comunità è chiamata a creare quello «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto».[105] Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria. Questo dà luogo anche ad autentiche esperienze mistiche vissute in comunità, come fu il caso di san Benedetto e santa Scolastica, o di quel sublime incontro spirituale che vissero insieme sant’Agostino e sua madre santa Monica: «All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava […]. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te […]. E mentre parlavamo e anelavamo verso di lei [la Sapienza], la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente [… così che] la vita eterna [somiglierebbe] a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare».[106]

143. Ma queste esperienze non sono la cosa più frequente, né la più importante. La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo capitava nella comunità santa che formarono Gesù, Maria e Giuseppe, dove si è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della comunione trinitaria. Ed è anche ciò che succedeva nella vita comunitaria che Gesù condusse con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo.

144. Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari.
Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa.
Il piccolo particolare che mancava una pecora.
Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine.
Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda.
Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano.
Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba.

145. La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore,[107] dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre. A volte, per un dono dell’amore del Signore, in mezzo a questi piccoli particolari ci vengono regalate consolanti esperienze di Dio: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, […] a un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi […]. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano talmente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità».[108]

146. Contro la tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri, il nostro cammino di santificazione non può cessare di identificarci con quel desiderio di Gesù: che «tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te» (Gv 17,21).

In preghiera costante

147. Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. E’ uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi.

148. San Giovanni della Croce raccomandava di «procurare di stare sempre alla presenza di Dio, sia essa reale o immaginaria o unitiva, per quanto lo comporti l’attività».[109] In fondo è il desiderio di Dio che non può fare a meno di manifestarsi in qualche modo attraverso la nostra vita quotidiana: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore».[110]

149. Ciò nonostante, perché questo sia possibile, sono necessari anche alcuni momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. Per santa Teresa d’Avila la preghiera è «un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d’essere amati».[111] Vorrei insistere sul fatto che questo non è solo per pochi privilegiati, ma per tutti, perché «abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata».[112] La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio.

150. In tale silenzio è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il Signore ci propone. Diversamente, tutte le nostre decisioni potranno essere soltanto “decorazioni” che, invece di esaltare il Vangelo nella nostra vita, lo ricopriranno e lo soffocheranno. Per ogni discepolo è indispensabile stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente.

151. Ricordiamo che «è la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo».[113] mDunque mi permetto di chiederti: ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole? E se davanti al volto di Cristo ancora non riesci a lasciarti guarire e trasformare, allora penetra nelle viscere del Signore, entra nelle sue piaghe, perché lì ha sede la misericordia divina.[114]

152. Prego tuttavia che non intendiamo il silenzio orante come un’evasione che nega il mondo intorno a noi. Il “pellegrino russo”, che camminava in preghiera continua, racconta che quella preghiera non lo separava dalla realtà esterna: «Se mi capitava di incontrare qualcuno, tutte quelle persone senza distinzione mi parevano altrettanto amabili che se fossero state della mia famiglia. […] Non solo sentivo questa luce dentro la mia anima, ma anche il mondo esterno mi appariva bellissimo e incantevole».[115]

153. Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera è intessuta di ricordi. Non solo del ricordo della Parola rivelata, bensì anche della propria vita, della vita degli altri, di ciò che il Signore ha fatto nella sua Chiesa. E’ la memoria grata di cui pure parla sant’Ignazio di Loyola nella sua «Contemplazione per raggiungere l’amore»,[116] quando ci chiede di riportare alla memoria tutti i benefici che abbiamo ricevuto dal Signore. Guarda la tua storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono.

154. La supplica è espressione del cuore che confida in Dio, che sa che non può farcela da solo. Nella vita del popolo fedele di Dio troviamo molte suppliche piene di tenerezza credente e di profonda fiducia. Non togliamo valore alla preghiera di domanda, che tante volte ci rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti lottando con speranza. La supplica di intercessione ha un valore particolare, perché è un atto di fiducia in Dio e insieme un’espressione di amore al prossimo. Alcuni, per pregiudizi spiritualisti, pensano che la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare. Al contrario, la realtà è che la preghiera sarà più gradita a Dio e più santificatrice se in essa, con l’intercessione, cerchiamo di vivere il duplice comandamento che ci ha lasciato Gesù. L’intercessione esprime l’impegno fraterno con gli altri quando in essa siamo capaci di includere la vita degli altri, le loro angosce più sconvolgenti e i loro sogni più belli. Di chi si dedica generosamente a intercedere si può dire con le parole bibliche: «Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo» (2 Mac 15,14).

155. Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione, o di cantare a Lui con lode festosa. Così esprimiamo ciò che viveva il beato Charles de Foucauld quando disse: «Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui».[117] Anche nella vita del popolo pellegrinante ci sono molti gesti semplici di pura adorazione, come ad esempio quando «lo sguardo del pellegrino si posa su un’immagine che simboleggia la tenerezza e la vicinanza di Dio. L’amore si ferma, contempla il mistero, lo gusta in silenzio».[118]

156. La lettura orante della Parola di Dio, più dolce del miele (cfr Sal 119,103) e «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), ci permette di rimanere in ascolto del Maestro affinché sia lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr Sal 119,105). Come ci hanno ben ricordato i Vescovi dell’India, «la devozione alla Parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita».[119]

157. L’incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l’unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante.

CAPITOLO QUINTO

COMBATTIMENTO, VIGILANZA E DISCERNIMENTO

158. La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita.

Il combattimento e la vigilanza

159. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).

Qualcosa di più di un mito

160. Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio.[120] Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini.

161. Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea.[121] Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8).

Svegli e fiduciosi

162. La Parola di Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità. Per il combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: «Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?».[122]

163. In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta, perché «chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male».[123]

La corruzione spirituale

164. Il cammino della santità è una fonte di pace e di gioia che lo Spirito ci dona, ma nello stesso tempo richiede che stiamo con “le lampade accese” (cfr Lc 12,35) e rimaniamo attenti: «Astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,22); «vegliate» (cfr Mc 13,35; Mt 24,42); non addormentiamoci (cfr 1 Ts 5,6). Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi.

165. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria. In un passo Gesù ci ha avvertito circa questa tentazione insidiosa che ci fa scivolare verso la corruzione: parla di una persona liberata dal demonio che, pensando che la sua vita fosse ormai pulita, finì posseduta da altri sette spiriti maligni (cfr Lc 11,24-26). Un altro testo biblico usa un’immagine forte: «Il cane è tornato al suo vomito» (2 Pt 2,22; cfr Pro 26,11).

Il discernimento

166. Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento, che non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un dono che bisogna chiedere. Se lo chiediamo con fiducia allo Spirito Santo, e allo stesso tempo ci sforziamo di coltivarlo con la preghiera, la riflessione, la lettura e il buon consiglio, sicuramente potremo crescere in questa capacità spirituale.

Un bisogno urgente

167. Al giorno d’oggi l’attitudine al discernimento è diventata particolarmente necessaria. Infatti la vita attuale offre enormi possibilità di azione e di distrazione e il mondo le presenta come se fossero tutte valide e buone. Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a uno zapping costante. È possibile navigare su due o tre schermi simultaneamente e interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento.

168. Questo risulta particolarmente importante quando compare una novità nella propria vita, e dunque bisogna discernere se sia il vino nuovo che viene da Dio o una novità ingannatrice dello spirito del mondo o dello spirito del diavolo. In altre occasioni succede il contrario, perché le forze del male ci inducono a non cambiare, a lasciare le cose come stanno, a scegliere l’immobilismo e la rigidità, e allora impediamo che agisca il soffio dello Spirito. Siamo liberi, con la libertà di Gesù, ma Egli ci chiama a esaminare quello che c’è dentro di noi – desideri, angustie, timori, attese – e quello che accade fuori di noi – i “segni dei tempi” – per riconoscere le vie della libertà piena: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21).

Sempre alla luce del Signore

169. Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane.[124] Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi. Pertanto chiedo a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame di coscienza. Al tempo stesso, il discernimento ci conduce a riconoscere i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore, perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni.

Un dono soprannaturale

170. È vero che il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche o morali. Però le trascende. E neppure gli bastano le sagge norme della Chiesa. Ricordiamo sempre che il discernimento è una grazia. Anche se include la ragione e la prudenza, le supera, perché si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti. Non è in gioco solo un benessere temporale, né la soddisfazione di fare qualcosa di utile, e nemmeno il desiderio di avere la coscienza tranquilla. È in gioco il senso della mia vita davanti al Padre che mi conosce e mi ama, quello vero, per il quale io possa dare la mia esistenza, e che nessuno conosce meglio di Lui. Il discernimento, insomma, conduce alla fonte stessa della vita che non muore, cioè «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Non richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti, e il Padre si manifesta con piacere agli umili (cfr Mt 11,25).

171. Anche se il Signore ci parla in modi assai diversi durante il nostro lavoro, attraverso gli altri e in ogni momento, non è possibile prescindere dal silenzio della preghiera prolungata per percepire meglio quel linguaggio, per interpretare il significato reale delle ispirazioni che pensiamo di aver ricevuto, per calmare le ansie e ricomporre l’insieme della propria esistenza alla luce di Dio. Così possiamo permettere la nascita di quella nuova sintesi che scaturisce dalla vita illuminata dallo Spirito.

Parla, Signore

172. Tuttavia potrebbe capitare che nella preghiera stessa evitiamo di disporci al confronto con la libertà dello Spirito, che agisce come vuole. Occorre ricordare che il discernimento orante richiede di partire da una disposizione ad ascoltare: il Signore, gli altri, la realtà stessa che sempre ci interpella in nuovi modi. Solamente chi è disposto ad ascoltare ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che lo porta a una vita migliore, perché non basta che tutto vada bene, che tutto sia tranquillo. Può essere che Dio ci stia offrendo qualcosa di più, e nella nostra pigra distrazione non lo riconosciamo.

173. Tale atteggiamento di ascolto implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza. Non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato, poiché le medesime soluzioni non sono valide in tutte le circostanze e quello che era utile in un contesto può non esserlo in un altro. Il discernimento degli spiriti ci libera dalla rigidità, che non ha spazio davanti al perenne oggi del Risorto. Unicamente lo Spirito sa penetrare nelle pieghe più oscure della realtà e tenere conto di tutte le sue sfumature, perché emerga con altra luce la novità del Vangelo.

La logica del dono e della croce

174. Una condizione essenziale per il progresso nel discernimento è educarsi alla pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono mai i nostri. Lui non fa “scendere fuoco sopra gli infedeli” (cfr Lc 9,54), né permette agli zelanti di “raccogliere la zizzania” che cresce insieme al grano (cfr Mt 13,29). Inoltre si richiede generosità, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica».[125] Se uno assume questa dinamica, allora non lascia anestetizzare la propria coscienza e si apre generosamente al discernimento.

175. Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli.

* * *

176. Desidero che Maria coroni queste riflessioni, perché lei ha vissuto come nessun altro le Beatitudini di Gesù. Ella è colei che trasaliva di gioia alla presenza di Dio, colei che conservava tutto nel suo cuore e che si è lasciata attraversare dalla spada. È la santa tra i santi, la più benedetta, colei che ci mostra la via della santità e ci accompagna. Lei non accetta che quando cadiamo rimaniamo a terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica. La Madre non ha bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora: «Ave o Maria…».

177. Spero che queste pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità. Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, dell’anno 2018, sesto del mio Pontificato.

Francesco


[1] Benedetto XVI, Omelia per il solenne inizio del ministero petrino (24 aprile 2005): AAS 97 (2005), 708.

[2] In ogni caso suppone che vi sia fama di santità e un esercizio, almeno in grado ordinario, delle virtù cristiane: cfr Lett. ap. in forma di Motu proprio Maiorem hac dilectionem (11 luglio 2017), art. 2c: L’Osservatore Romano, 12 luglio 2017, p. 8.

[3] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 9.

[4] Cfr Joseph Malègue, Pierres noires. Les classes moyennes du Salut, Paris 1958.

[5] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 12.

[6] Verborgenes Leben und EpiphanieGW XI, 145.

[7] S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 56: AAS 93 (2001), 307.

[8] Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 37: AAS 87 (1995), 29.

[9] Omelia nella Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo XX (7 maggio 2000), 5: AAS 92 (2000), 680-681.

[10] Cost. dogm. Lumen gentium, 11.

[11] Cfr Hans U. Von Balthasar, “Teología y santidad”, Communio VI/87, 489.

[12] Cantico spirituale B, Prologo, 2: Opere, Roma 1979, 490.

[13] Cfr ibid., 14, 2: p. 575.

[14] Cfr Catechesi nell’Udienza generale del 19 novembre 2014Insegnamenti II, 2 (2014), 555.

[15] S. Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, VIII, 11: Opere complete di Francesco di Sales, IV, Roma 2011, 468.

[16] Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede, Milano 2014, 20.

[17] Conferenza dei Vescovi cattolici della Nuova Zelanda, Healing love, 1 gennaio 1988.

[18] Cfr Esercizi spirituali, 102-312.

[19] Catechismo della Chiesa Cattolica, 515.

[20] Ibid., 516.

[21] Ibid., 517.

[22] Ibid., 518.

[23] Ibid., 521.

[24] Benedetto XVI, Catechesi nell’Udienza generale del 13 aprile 2011Insegnamenti VII (2011), 451.

[25] Ibid.: 450.

[26] Cfr Hans U. Von Balthasar, “Teología y santidad”, Communio VI/87, 486-493.

[27] Xavier Zubiri, Naturaleza, historia, Dios, Madrid 19993, 427.

[28] Carlo M. Martini, Le confessioni di Pietro, Cinisello Balsamo 2017, 69.

[29] Bisogna distinguere questo svago superficiale da una sana cultura dell’ozio, che ci apre all’altro e alla realtà con uno spirito disponibile e contemplativo.

[30] S. Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa di canonizzazione (1 ottobre 2000), 5: AAS 92 (2000), 852.

[31] Conferenza Episcopale Regionale dell’Africa Occidentale, Messaggio pastorale al termine della II Assemblea plenaria, 29 febbraio 2016, 2.

[32] La donna povera, Reggio Emilia 1978, 375.

[33] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Placuit Deo ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della salvezza cristiana (22 febbraio 2018), 4: L’Osservatore Romano, 2 marzo 2018, pp. 4-5: «Sia l’individualismo neo-pelagiano che il disprezzo neo-gnostico del corpo sfigurano la confessione di fede in Cristo, Salvatore unico e universale». In questo documento si trovano le basi dottrinali per la comprensione della salvezza cristiana in riferimento alle derive neo-gnostiche e neo-pelagiane odierne.

[34] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 94: AAS 105 (2013), 1060.

[35] Ibid.: AAS 105 (2013), 1059.

[36] Omelia nella Messa a Casa S. Marta, 11 novembre 2016: L’Osservatore Romano, 12 novembre 2016, p. 8.

[37] Come insegna san Bonaventura, «è necessario che si abbandonino tutte le operazioni dell’intelletto, e che l’apice dell’affetto sia per intero trasportato e trasformato in Dio. […] Siccome ad ottenere questo, nulla può la natura e poco la scienza, bisogna dare poco peso all’indagine e molto all’unzione spirituale; poco alla lingua e moltissimo alla gioia interiore; poco alle parole e ai libri, e tutto al dono di Dio, cioè allo Spirito Santo; poco o niente alla creatura, e tutto all’essenza creatrice, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» (Itinerario della mente in Dio, VII, 4-5).

[38] Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina per il centenario della Facoltà di Teologia (3 marzo 2015): L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2015, p. 6.

[39] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 40: AAS 105 (2013), 1037.

[40] Videomessaggio al congresso internazionale di Teologia della Pontificia Università Cattolica Argentina (1-3 settembre 2015)AAS 107 (2015), 980.

[41] Esort. ap. postsin. Vita consecrata (25 marzo 1996), 38: AAS 88 (1996), 412.

[42] Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina per il centenario della Facoltà di Teologia (3 marzo 2015): L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2015, p. 6.

[43] Lettera a Frate Antonio, 2: FF 251.

[44] Sui sette doni dello Spirito Santo, 9, 15.

[45] Id., Commento al Libro IV delle Sentenze, 37, 1, 3, ad 6.

[46] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 94: AAS 105 (2013), 1059.

[47] Cfr S. Bonaventura, Le sei ali dei Serafini, 3, 8: «Non omnes omnia possunt». Va inteso nella linea del Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735.

[48] Cfr S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, 109, 9, ad 1: «Adesso, tuttavia, la grazia è in certo qual modo imperfetta perché – come si è detto – non risana l’uomo totalmente».

[49] La natura e la grazia, 43, 50: PL 44, 271.

[50] Le confessioni, 10, 29, 40: PL 32, 796.

[51] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038.

[52] Nella comprensione della fede cristiana, la grazia è preveniente, concomitante e susseguente ogni nostro agire (cfr Conc. Ecum. di Trento, Sess. VI, Decr. de iustificatione, cap. 5: DH, 1525).

[53] Omelie sulla Lettera ai Romani, 9, 11: PG 60, 470.

[54] Omelia sull’umiltàPG 31, 530.

[55] Canone 4: DH 374.

[56] Sess. VI, Decretum de iustificatione, cap. 8: DH 1532.

[57] N. 1998.

[58] Ibid., 2007.

[59] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, 114, 5.

[60] S. Teresa di Gesù Bambino, “Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio” (Preghiere, 6): Opere complete, Roma 1997, 943.

[61] Lucio Gera, “Sobre el misterio del pobre”, in P. Grelot-L. Gera-A. Dumas, El Pobre, Buenos Aires 1962, 103.

[62] Questa è, in definitiva, la dottrina cattolica circa il “merito” successivo alla giustificazione: si tratta della cooperazione del giustificato per la crescita della vita di grazia (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2010). Ma questa cooperazione in nessun modo fa sì che la giustificazione stessa e l’amicizia con Dio diventino oggetto di un merito umano.

[63] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 95: AAS 105 (2013), 1060.

[64] Cfr Summa Theologiae, I-II, q. 107, art. 4.

[65] Omelia nella Messa in occasione del Giubileo delle persone socialmente escluse, 13 novembre 2016: L’Osservatore Romano, 14-15 novembre 2016, p. 8.

[66] Cfr Omelia nella Messa a Casa S. Marta, 9 giugno 2014: L’Osservatore Romano, 10 giugno 2014, p. 8.

[67] L’ordine tra la seconda e la terza beatitudine varia nelle diverse tradizioni testuali.

[68] Esercizi spirituali, 23d: Roma 19846, 58-59.

[69] Manoscritto C, 12r: Opere complete, Roma 1997, 247.

[70] Dai tempi patristici la Chiesa apprezza il dono delle lacrime, come si riscontra anche nella bella preghiera “Ad petendam compunctionem cordis”: «O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, fa’ sgorgare dalla durezza del nostro cuore lacrime di pentimento, affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per tua misericordia, la loro remissione» (Missale Romanum, ed. typ. 1962, p. [110]).

[71] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1789; cfr 1970.

[72] Ibid., 1787.

[73] La diffamazione e la calunnia sono come un atto terroristico: si lancia la bomba, si distrugge, e l’attentatore se ne va felice e tranquillo. Questo è molto diverso dalla nobiltà di chi si avvicina per parlare faccia a faccia, con serena sincerità, pensando al bene dell’altro.

[74] In certe occasioni può essere necessario parlare delle difficoltà di qualche fratello. In questi casi può succedere che si trasmetta un’interpretazione invece di un fatto obiettivo. La passione deforma la realtà concreta del fatto, lo trasforma in interpretazione e alla fine la trasmette carica di soggettività. Così si distrugge la realtà e non si rispetta la verità dell’altro.

[75] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 218AAS 105 (2013), 1110.

[76] Ibid., 239: 1116.

[77] Ibid., 227: 1112.

[78] Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 41c: AAS 83 (1991), 844-845.

[79] Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[80] Ibid.

[81] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 12: AAS 107 (2015), 407.

[82] Ricordiamo la reazione del buon samaritano davanti all’uomo che i briganti avevano lasciato mezzo morto sul bordo della strada (cfr Lc 10,30-37).

[83] Conferenza Canadese dei Vescovi Cattolici – Commissione per gli Affari Sociali, Lettera aperta ai membri del Parlamento, The Common Good or Exclusion: A Choice for Canadians (1 febbraio 2001), 9.

[84] La V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, secondo il costante magistero della Chiesa, ha insegnato che l’essere umano «è sempre sacro, dal suo concepimento, in tutte le fasi della sua esistenza, fino alla sua morte naturale e dopo la morte», e che la sua vita deve essere protetta «dal concepimento, in tutte le sue fasi, fino alla morte naturale» (Documento di Aparecida, 29 giugno 2007, 388; 464).

[85] Regola, 53, 1: PL 66, 749.

[86] Cfr ibid., 53, 7: PL 66, 750.

[87] Ibid., 53, 15: PL 66, 751.

[88] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 9: AAS 107 (2015), 405.

[89] Ibid., 10: AAS 107 (2015), 406.

[90] Esort. ap. postsin. Amoris laetitia (19 marzo 2016), 311: AAS 108 (2016), 439.

[91] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 197: AAS 105 (2013), 1103.

[92] Cfr Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.

[93] Ibid., ad 1.

[94] Cristo en los Pobres, Madrid 1981, 37-38.

[95] Ci sono parecchie forme di bullismo che, pur apparendo eleganti e rispettose e addirittura molto spirituali, provocano tanta sofferenza nell’autostima degli altri.

[96] Cautele, 13: Opere, Roma 19794, 1070.

[97] Ibid.

[98] La Misericordia Divina nella mia anima. Diario della beata Suor Faustina Kowalska, Città del Vaticano 1996, 132.

[99] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 70, a. 3.

[100] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 6: AAS 105 (2013), 1221.

[101] Raccomando di recitare la preghiera attribuita a san Tommaso Moro: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia».

[102] Esort. ap. postsin. Amoris laetitia (19 marzo 2016), 110: AAS 108 (2016), 354.

[103] Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 80: AAS 68 (1976), 73. E’ interessante osservare che in questo testo il beato Paolo VI lega intimamente la gioia alla parresia. Così come lamenta «la mancanza di gioia e di speranza», esalta la «dolce e confortante gioia di evangelizzare» che è unita a uno «slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere», affinché il mondo non riceva il Vangelo «da evangelizzatori tristi e scoraggiati». Durante l’Anno Santo del 1975, lo stesso Paolo VI dedicò alla gioia l’Esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975): AAS 67 (1975), 289-322.

[104] Cautele, 15: Opere, Roma 19794, 1072.

[105] S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Vita consecrata (25 marzo 1996), 42: AAS 88 (1996), 416.

[106] Confessioni, IX, 10, 23-25: PL 32, 773-775.

[107] Ricordo in modo speciale le tre parole-chiave “permesso, grazie, scusa”, perché «le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno» (Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 19 marzo 2016, 133: AAS 108 [2016], 363).

[108] S. Teresa di Gesù Bambino, Manoscritto C, 29 v-30r: Opere complete, Roma 1997, 269.

[109] Gradi di perfezione, 2: Opere, Roma 19794, 1079.

[110] Id., Consigli per raggiungere la perfezione, 9: Opere, cit., 1078.

[111] Vita di S. Teresa di Gesù scritta da lei stessa, 8, 5: Opere, Roma 1981, 95.

[112] S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Orientale lumen (2 maggio 1995), 16: AAS 87 (1995), 762.

[113] Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015: AAS 107 (2015), 1284.

[114] Cfr S. Bernardo, Discorsi sul Cantico dei Cantici 61, 3-5: PL 183, 1071-1073.

[115] Racconti di un pellegrino russo, Milano 19793, 41; 129.

[116] Cfr Esercizi spirituali, 230-237.

[117] Lettera a Enrico de Castries, 14 agosto 1901: Charles de Foucauld, Opere spirituali. Antologia, Roma 19835, 623.

[118] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 259.

[119] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’India, Dichiarazione finale della XXI Assemblea plenaria (18 febbraio 2009), 3.2.

[120] Cfr Omelia nella Messa a Casa S. Marta, 11 ottobre 2013: L’Osservatore Romano, 12 ottobre 2013, p. 12.

[121] Cfr B. Paolo VI, Catechesi nell’Udienza generale del 15 novembre 1972Insegnamenti X [1972], 1168-1170: «Uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio. […] Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni».

[122] S. José Gabriel del Rosario Brochero, Predica delle bandiere, in Conferenza Episcopale Argentina, El Cura Brochero. Cartas y sermones, Buenos Aires 1999, 71.

[123] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 85: AAS 105 (2013), 1056.

[124] Sulla tomba di sant’Ignazio di Loyola si trova questo saggio epitaffio: «Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est» (Non aver nulla di più grande che ti limiti, e tuttavia stare dentro ciò che è più piccolo: questo è divino).

[125] Sull’Hexaemeron, 1, 30.


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2023

Cuori ardenti, piedi in cammino (cfr Lc 24,13-35)

Cari fratelli e sorelle!

Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno ho scelto un tema che prende spunto dal racconto dei discepoli di Emmaus, nel Vangelo di Luca (cfr 24,13-35): «Cuori ardenti, piedi in cammino». Quei due discepoli erano confusi e delusi, ma l’incontro con Cristo nella Parola e nel Pane spezzato accese in loro l’entusiasmo per rimettersi in cammino verso Gerusalemme e annunciare che il Signore era veramente risorto. Nel racconto evangelico, cogliamo la trasformazione dei discepoli da alcune immagini suggestive: cuori ardenti per le Scritture spiegate da Gesù, occhi aperti nel riconoscerlo e, come culmine, piedi in cammino. Meditando su questi tre aspetti, che delineano l’itinerario dei discepoli missionari, possiamo rinnovare il nostro zelo per l’evangelizzazione nel mondo odierno.

1. Cuori ardenti «quando ci spiegava le Scritture». La Parola di Dio illumina e trasforma il cuore nella missione.

Sulla via da Gerusalemme a Emmaus, i cuori dei due discepoli erano tristi – come traspariva dai loro volti – a causa della morte di Gesù, nel quale avevano creduto (cfr v. 17). Di fronte al fallimento del Maestro crocifisso, la loro speranza che fosse Lui il Messia è crollata (cfr v. 21).

Ed ecco, «mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro» (v. 15). Come all’inizio della vocazione dei discepoli, anche ora nel momento del loro smarrimento, il Signore prende l’iniziativa di avvicinarsi ai suoi e camminare al loro fianco. Nella sua grande misericordia, Egli non si stanca mai di stare con noi, malgrado i nostri difetti, i dubbi, le debolezze, nonostante la tristezza e il pessimismo ci inducano a diventare «stolti e lenti di cuore» (v. 25), gente di poca fede.

Oggi come allora, il Signore risorto è vicino ai suoi discepoli missionari e cammina accanto a loro, specialmente quando si sentono smarriti, scoraggiati, impauriti di fronte al mistero dell’iniquità che li circonda e li vuole soffocare. Perciò, «non lasciamoci rubare la speranza!» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 86). Il Signore è più grande dei nostri problemi, soprattutto quando li incontriamo nell’annunciare il Vangelo al mondo, perché questa missione, in fin dei conti, è sua e noi siamo semplicemente i suoi umili collaboratori, “servi inutili” (cfr Lc 17,10).

Esprimo la mia vicinanza in Cristo a tutti i missionari e le missionarie nel mondo, in particolare a coloro che attraversano un momento difficile: il Signore risorto, carissimi, è sempre con voi e vede la vostra generosità e i vostri sacrifici per la missione di evangelizzazione in luoghi lontani. Non tutti i giorni della vita sono pieni di sole, ma ricordiamoci sempre delle parole del Signore Gesù ai suoi amici prima della passione: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

Dopo aver ascoltato i due discepoli sulla strada per Emmaus, Gesù risorto «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). E i cuori dei discepoli si riscaldarono, come alla fine si confideranno l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (v. 32). Gesù infatti è la Parola vivente, che sola può far ardere, illuminare e trasformare il cuore.

Così comprendiamo meglio l’affermazione di San Girolamo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (In Is., Prologo). «Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo» (Lett. ap. M.P. Aperuit illis, 1). Perciò, la conoscenza della Scrittura è importante per la vita del cristiano, e ancora di più per l’annuncio di Cristo e del suo Vangelo. Altrimenti, che cosa si trasmette agli altri se non le proprie idee e i propri progetti? E un cuore freddo, potrà mai far ardere quello degli altri?

Lasciamoci dunque sempre accompagnare dal Signore risorto che ci spiega il senso delle Scritture. Lasciamo che Egli faccia ardere il nostro cuore, ci illumini e ci trasformi, affinché possiamo annunciare al mondo il suo mistero di salvezza con la potenza e la sapienza che vengono dal suo Spirito.

2. Occhi che «si aprirono e lo riconobbero» nello spezzare il pane. Gesù nell’Eucaristia è culmine e fonte della missione.

I cuori ardenti per la Parola di Dio spinsero i discepoli di Emmaus a chiedere al misterioso Viandante di restare con loro sul far della sera. E, intorno alla mensa, i loro occhi si aprirono e lo riconobbero quando Lui spezzò il pane. L’elemento decisivo che apre gli occhi dei discepoli è la sequenza delle azioni compiute da Gesù: prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e darlo a loro. Sono gesti ordinari di un capofamiglia ebreo, ma, compiuti da Gesù Cristo con la grazia dello Spirito Santo, rinnovano per i due commensali il segno della moltiplicazione dei pani e soprattutto quello dell’Eucaristia, sacramento del Sacrificio della croce. Ma proprio nel momento in cui riconoscono Gesù in Colui-che-spezza-il-pane, «egli sparì dalla loro vista» (Lc 24,31). Questo fatto fa capire una realtà essenziale della nostra fede: Cristo che spezza il pane diventa ora il Pane spezzato, condiviso con i discepoli e quindi consumato da loro. È diventato invisibile, perché è entrato ora dentro i cuori dei discepoli per farli ardere ancora di più, spingendoli a riprendere il cammino senza indugio per comunicare a tutti l’esperienza unica dell’incontro con il Risorto! Così Cristo risorto è Colui-che-spezza-il-pane e al contempo è il Pane-spezzato-per-noi. E dunque ogni discepolo missionario è chiamato a diventare, come Gesù e in Lui, grazie all’azione dello Spirito Santo, colui-che-spezza-il-pane e colui-che-è-pane-spezzato per il mondo.

A questo proposito, occorre ricordare che un semplice spezzare il pane materiale con gli affamati nel nome di Cristo è già un atto cristiano missionario. Tanto più lo spezzare il Pane eucaristico che è Cristo stesso è l’azione missionaria per eccellenza, perché l’Eucaristia è fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa.

Lo ha ricordato il Papa Benedetto XVI: «Non possiamo tenere per noi l’amore che celebriamo nel Sacramento [dell’Eucaristia]. Esso chiede per sua natura di essere comunicato a tutti. Ciò di cui il mondo ha bisogno è l’amore di Dio, è incontrare Cristo e credere in Lui. Per questo l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della vita della Chiesa; lo è anche della sua missione: “Una Chiesa autenticamente eucaristica è una Chiesa missionaria”» (Esort. ap. Sacramentum caritatis, 84).

Per portare frutto dobbiamo restare uniti a Lui (cfr Gv 15,4-9). E questa unione si realizza attraverso la preghiera quotidiana, in particolare nell’adorazione, nel rimanere in silenzio alla presenza del Signore, che rimane con noi nell’Eucaristia. Coltivando con amore questa comunione con Cristo, il discepolo missionario può diventare un mistico in azione. Che il nostro cuore brami sempre la compagnia di Gesù, sospirando l’ardente richiesta dei due di Emmaus, soprattutto quando si fa sera: “Resta con noi, Signore!” (cfr Lc 24,29).

3. Piedi in cammino, con la gioia di raccontare il Cristo Risorto. L’eterna giovinezza di una Chiesa sempre in uscita.

Dopo aver aperto gli occhi, riconoscendo Gesù nello «spezzare il pane», i discepoli «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (cfr Lc 24,33). Questo andare in fretta, per condividere con gli altri la gioia dell’incontro con il Signore, manifesta che «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 1). Non si può incontrare davvero Gesù risorto senza essere infiammati dal desiderio di dirlo a tutti. Perciò, la prima e principale risorsa della missione sono coloro che hanno riconosciuto Cristo risorto, nelle Scritture e nell’Eucaristia, e che portano nel cuore il suo fuoco e nello sguardo la sua luce. Costoro possono testimoniare la vita che non muore mai, anche nelle situazioni più difficili e nei momenti più bui.

L’immagine dei “piedi in cammino” ci ricorda ancora una volta la perenne validità della missio ad gentes, la missione data alla Chiesa dal Signore risorto di evangelizzare ogni persona e ogni popolo sino ai confini della terra. Oggi più che mai l’umanità, ferita da tante ingiustizie, divisioni e guerre, ha bisogno della Buona Notizia della pace e della salvezza in Cristo. Colgo pertanto questa occasione per ribadire che «tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14). La conversione missionaria rimane l’obiettivo principale che dobbiamo proporci come singoli e come comunità, perché «l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa» (ibid., 15).

Come afferma l’apostolo Paolo, l’amore di Cristo ci avvince e ci spinge (cfr 2 Cor 5,14). Si tratta qui del duplice amore: quello di Cristo per noi che richiama, ispira e suscita il nostro amore per Lui. Ed è questo amore che rende sempre giovane la Chiesa in uscita, con tutti i suoi membri in missione per annunciare il Vangelo di Cristo, convinti che «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (v. 15). A questo movimento missionario tutti possono contribuire: con la preghiera e l’azione, con offerte di denaro e di sofferenze, con la propria testimonianza. Le Pontificie Opere Missionarie sono lo strumento privilegiato per favorire questa cooperazione missionaria a livello spirituale e materiale. Per questo la raccolta di offerte della Giornata Missionaria Mondiale è dedicata alla Pontificia Opera della Propagazione della Fede.

L’urgenza dell’azione missionaria della Chiesa comporta naturalmente una cooperazione missionaria sempre più stretta di tutti i suoi membri ad ogni livello. Questo è un obiettivo essenziale del percorso sinodale che la Chiesa sta compiendo con le parole-chiave comunione, partecipazione, missione. Tale percorso non è sicuramente un piegarsi della Chiesa su sé stessa; non è un processo di sondaggio popolare per decidere, come in un parlamento, che cosa bisogna credere e praticare o no secondo le preferenze umane. È piuttosto un mettersi in cammino come i discepoli di Emmaus, ascoltando il Signore Risorto che sempre viene in mezzo a noi per spiegarci il senso delle Scritture e spezzare il Pane per noi, affinché possiamo portare avanti con la forza dello Spirito Santo la sua missione nel mondo.

Come quei due discepoli narrarono agli altri ciò che era accaduto lungo la via (cfr Lc 24,35), così anche il nostro annuncio sarà un raccontare gioioso il Cristo Signore, la sua vita, la sua passione, morte e risurrezione, le meraviglie che il suo amore ha compiuto nella nostra vita.

Ripartiamo dunque anche noi, illuminati dall’incontro con il Risorto e animati dal suo Spirito. Ripartiamo con cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino, per far ardere altri cuori con la Parola di Dio, aprire altri occhi a Gesù Eucaristia, e invitare tutti a camminare insieme sulla via della pace e della salvezza che Dio in Cristo ha donato all’umanità.

Santa Maria del cammino, Madre dei discepoli missionari di Cristo e Regina delle missioni, prega per noi!

Roma, San Giovanni in Laterano, 6 gennaio 2023, Solennità dell’Epifania del Signore.
 

FRANCESCO

SAN LUCA EVANGELISTA FESTA

SAN LUCA EVANGELISTA FESTA

Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza. (Is 52,7)

Luca, noto anche come Luca l’Evangelista o San Luca, è una figura importante nel cristianesimo ed è uno degli autori dei quattro Vangeli del Nuovo Testamento della Bibbia. Il Vangelo secondo Luca è uno dei libri del Nuovo Testamento ed è uno dei principali resoconti della vita e degli insegnamenti di Gesù Cristo.

Oggi 18 ottobre si festeggia San Luca Evangelista. Luca di professione medico, amico e collaboratore di San Paolo, è il compositore del terzo Vangelo. La leggenda l’ha voluto anche pittore di icone mariane dando origine alle così dette ‘Madonne di Luca’. Tra queste è nota quella venerata a Bologna ‘Madonna della Guardia’.

Ecco alcune informazioni chiave su Luca l’Evangelista:

  1. Identità e Occupazione: Luca era un medico, come indicato nella lettera di San Paolo ai Colossesi (Colossesi 4:14). Era anche un compagno di San Paolo, menzionato nelle sue lettere come “il caro Luca, il medico” (Colossesi 4:14) e “il nostro caro medico Luca” (Filemone 1:24). Originario di Antiochia, fu denominato “il medico antiocheno”.
    Come è noto, tale importante città, che corrisponde all’attuale Antakia nella Turchia sudorientale, fu fondata quale capitale del regno di Siria nel 301 a.C.; vi fiorì una numerosa colonia giudaica e fu poi sede di una delle più antiche comunità cristiane. Luca, il cui nome è probabilmente abbreviazione di Lucano, vi nacque come pagano, ma diventò proselita o quanto meno simpatizzante della religione ebraica. Egli non era discepolo di Gesù di Nazaret; si convertì dopo, pur non figurando nemmeno come uno dei primitivi settantadue discepoli. Diventò membro della comunità cristiana antiochena, probabilmente verso l’anno 40. Lo si trova con S Paolo, l’apostolo delle genti a Filippi, Gerusalemme e Roma. Sostanzialmente suo discepolo, condivise la visione universale paolina della nuova religione e, allorché decise di scrivere le proprie opere, lo fece soprattutto per le comunità evangelizzate da Paolo, ossia in genere per convertiti dal paganesimo. Si incontrò tuttavia anche con San Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme, con San Pietro, più a lungo con San Barnaba e forse con San Marco.
  2. Scrittore del Vangelo secondo Luca: è tradizionalmente riconosciuto come l’autore del Vangelo secondo Luca, uno dei quattro Vangeli canonici del Nuovo Testamento. Questo Vangelo è noto per la sua attenzione ai dettagli storici e per la presentazione della misericordia di Gesù e della sua compassione verso gli emarginati.
  3. Pare che l’Evangelista abbia seguito San Paolo durante il secondo e terzo viaggio a Roma via mare. I più bei dipinti Luca ce li ha lasciati nel suo scritto evangelico, oltre che nella sua seconda opera: ‘Atti degli Apostoli’. Nel suo Vangelo sono suggestivi i due capitoli iniziali riservati alla nascita del Battista e all’infanzia di Gesù. Sorprendente è il cuore del Vangelo di Luca dove diversi capitoli sono occupati da una lunga marcia, di Gesù, verso Gerusalemme, la città del suo destino ultimo. Indimenticabile è l’incontro del Risorto coi due discepoli di Emmaus.
    Il rilievo assegnato all’amore nel suo Vangelo è  tale da aver meritato a Luca la definizione dantesca di scrittore della mansuetudine e della tenerezza di Gesù, come attestano le parabole da lui raccontate sulla Misericordia.
  4. Nel terzo Vangelo è anche presente l’esaltazione della gioia che pervade chi crede nel Cristo; oppure della povertà che riflette non solo il distacco dalle ricchezze ma anche l’abbandono fiducioso in Dio. Un altro tema caro al terzo Evangelista è quello della preghiera: Gesù nelle svolte decisive nella sua vita si ritira in orazione solitaria e ci ricorda di ‘Pregare per non entrare in tentazione’.
  5. Scrittore degli Atti degli Apostoli: è l’autore degli Atti degli Apostoli, il quinto libro del Nuovo Testamento. Gli Atti degli Apostoli narrano la storia della Chiesa cristiana primitiva e gli eventi successivi alla morte e alla resurrezione di Gesù, inclusa la diffusione del cristianesimo in tutto il mondo romano.
  6. Prospettiva di Luca: Luca era noto per la sua attenzione ai dettagli storici e per la sua capacità di raccontare storie. Nei suoi scritti, offre spesso nuovi dettagli e narrazioni non presenti negli altri Vangeli. Il suo Vangelo inizia con l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria e a Maria riguardo alla nascita di Giovanni il Battista e di Gesù. Contiene anche diverse parabole uniche e l’importante racconto del “Buon Samaritano.”
  7. Teologia di Luca: egli mette in evidenza l’amore di Gesù per i peccatori, i poveri e gli emarginati, ed è noto per la sua enfasi sulla misericordia divina. Il suo Vangelo presenta anche l’importante racconto della nascita di Gesù e il canto del Magnificat, un inno di lode recitato da Maria.
  8. Contributo alla Storia Cristiana: Grazie al lavoro di Luca, abbiamo una testimonianza chiara della vita di Gesù, dei suoi insegnamenti e dell’inizio della Chiesa cristiana primitiva. Il suo contributo alla cristianità è quindi di grande importanza storica e teologica.

San Luca l’Evangelista è celebrato come santo dalla Chiesa cristiana e la sua festa liturgica è il 18 ottobre. La sua figura è rispettata e venerata sia nella tradizione cattolica che in quella ortodossa.

Secondo una tradizione sarebbe morto Martire a Patrasso in Grecia all’età di 84 anni. Il suo Corpo, sarebbe stato traslato a Padova nella chiesa di Santa Giustina.

C’EST LA CONFIANCE

C’EST LA CONFIANCE

ESORTAZIONE APOSTOLICA SANTO PADRE FRANCESCO

SULLA FIDUCIA NELL’AMORE MISERICORDIOSO DI DIO
 IN OCCASIONE DEL 150º ANNIVERSARIO
 DELLA NASCITA DI
 SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINOE DEL VOLTO SANTO

1. « C’est la confiance et rien que la confiance qui doit nous conduire à l’Amour»: «È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!». [1]

2. Queste parole così incisive di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo dicono tutto, sintetizzano il genio della sua spiritualità e sarebbero sufficienti per giustificare il fatto che sia stata dichiarata Dottore della Chiesa. Soltanto la fiducia, “null’altro”, non c’è un’altra via da percorrere per essere condotti all’Amore che tutto dona. Con la fiducia, la sorgente della grazia trabocca nella nostra vita, il Vangelo si fa carne in noi e ci trasforma in canali di misericordia per i fratelli.

3. È la fiducia che ci sostiene ogni giorno e che ci manterrà in piedi davanti allo sguardo del Signore quando Egli ci chiamerà accanto a sé: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi. Voglio dunque rivestirmi della tua propria Giustizia e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Te stesso». [2]

4. Teresina è una delle sante più conosciute e amate in tutto il mondo. Come succede con San Francesco di Assisi, è amata perfino da non cristiani e non credenti. È stata anche riconosciuta dall’UNESCO tra le figure più significative per l’umanità contemporanea. [3]  Ci farà bene approfondire il suo messaggio commemorando il 150º anniversario della sua nascita, avvenuta ad Alençon il 2 gennaio 1873,e il centenario della sua beatificazione. [4] Ma non ho voluto pubblicare questa Esortazione in una di tali date, o nel giorno della sua memoria, perché il messaggio vada al di là delle ricorrenze e sia assunto come parte del tesoro spirituale della Chiesa. La data della pubblicazione, memoria di Santa Teresa d’Avila, vuole presentare Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo come frutto maturo della riforma del Carmelo e della spiritualità della grande Santa spagnola.

5. La sua vita terrena fu breve, appena ventiquattro anni, e semplice come qualunque altra, trascorsa prima in famiglia e poi nel Carmelo di Lisieux. La straordinaria carica di luce e di amore irradiata dalla sua persona si manifestò immediatamente dopo la sua morte, con la pubblicazione dei suoi scritti e con le innumerevoli grazie ottenute dai fedeli che la invocavano.

6. La Chiesa ha riconosciuto rapidamente il valore straordinario della sua testimonianza e l’originalità della sua spiritualità evangelica. Teresa incontrò Papa Leone XIII in occasione del pellegrinaggio a Roma nel 1887 e gli chiese il permesso di entrare nel Carmelo all’età di quindici anni. Poco dopo la sua morte, San Pio X si rese conto della sua enorme statura spirituale, tanto da affermare che sarebbe diventata la più grande Santa dei tempi moderni. Dichiarata venerabile nel 1921 da Benedetto XV, che elogiò le sue virtù focalizzandole nella “piccola via” dell’infanzia spirituale, [5] fu beatificata cent’anni or sono e poi canonizzata il 17 maggio 1925 da Pio XI, il quale ringraziò il Signore per avergli permesso che Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo fosse «la prima beata da lui elevata agli onori degli altari e la prima santa da lui canonizzata» [6]. Lo stesso Papa la dichiarò patrona delle missioni nel 1927. [7] Fu annoverata tra le patrone di Francia nel 1944 dal Venerabile Pio XII, [8] che in diverse occasioni approfondì il tema dell’infanzia spirituale. [9] San Paolo VI amava ricordare il proprio battesimo ricevuto il 30 settembre 1897, giorno della morte di Santa Teresina, nel cui centenario della nascita indirizzò al Vescovo di Bayeux e Lisieux uno scritto circa la sua dottrina. [10]Durante il suo primo viaggio apostolico in Francia, nel giugno 1980, San Giovanni Paolo II si recò alla basilica a lei dedicata, e nel 1997 la dichiarò Dottore della Chiesa, [11] annoverandola poi «come esperta della scientia amoris». [12] Benedetto XVI ha ripreso il tema della sua “ scienza dell’amore”, proponendola come «una guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi». [13] Infine, ho avuto la gioia di canonizzare i suoi genitori Luigi e Zelia, nel 2015, durante il Sinodo sulla famiglia, e recentemente ho dedicato a lei una catechesi nella serie sullo zelo apostolico. [14]

1.    Gesù per gli altri

7. Nel nome che ella scelse come religiosa risalta Gesù: il “Bambino” che manifesta il mistero dell’Incarnazione e il “Volto Santo”, cioè il volto di Cristo che si dona fino alla fine sulla Croce. Lei è “Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo”.

8. Il Nome di Gesù è continuamente “respirato” da Teresa come atto di amore, fino all’ultimo soffio. Aveva anche inciso queste parole nella sua cella: “Gesù è il mio unico amore”. Era la sua interpretazione dell’affermazione culminante del Nuovo Testamento: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16).

Anima missionaria

9. Come succede in ogni incontro autentico con Cristo, questa esperienza di fede la chiamava alla missione. Teresa ha potuto definire la sua missione con queste parole: «In Cielo desidererò la stessa cosa che in terra: amare Gesù e farlo amare». [15] Ha scritto che era entrata nel Carmelo «per salvare le anime». [16] Vale a dire che non concepiva la sua consacrazione a Dio senza la ricerca del bene dei fratelli. Lei condivideva l’amore misericordioso del Padre per il figlio peccatore e quello del Buon Pastore per le pecore perdute, lontane, ferite. Per questo è patrona delle missioni, maestra di evangelizzazione.

10. Le ultime pagine della Storia di un’anima [17] sono un testamento missionario, esprimono il suo modo di intendere l’evangelizzazione per attrazione, [18] non per pressione o proselitismo. Vale la pena leggere come lo sintetizza lei stessa: «“ Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi”. O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta. Signore, lo capisco, quando un’anima si è lasciata avvincere dall’odore inebriante dei tuoi profumi, non potrebbe correre da sola, tutte le anime che ama vengono trascinate dietro di lei: questo avviene senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di te. Come un torrente che si getta impetuoso nell’oceano trascina dietro di sé tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, così, o mio Gesù, l’anima che si immerge nell’oceano senza sponde del tuo amore attira con sé tutti i tesori che possiede… Signore, tu lo sai, io non ho altri tesori se non le anime che ti è piaciuto unire alla mia». [19]

11. Qui lei cita le parole che la sposa rivolge allo sposo nel Cantico dei Cantici (1,3-4), secondo l’interpretazione approfondita dai due Dottori del Carmelo, Santa Teresa di Gesù e San Giovanni della Croce. Lo Sposo è Gesù, il Figlio di Dio che si è unito alla nostra umanità nell’Incarnazione e l’ha redenta sulla Croce. Lì, dal suo costato aperto, ha dato alla luce la Chiesa, sua amata Sposa, per la quale ha donato la vita (cfr Ef 5,25). Ciò che colpisce è come Teresina, consapevole di essere vicina alla morte, non viva questo mistero rinchiusa in sé stessa, solo in senso consolatorio, ma con un fervente spirito apostolico.

La grazia che ci libera dall’autoreferenzialità

12. Qualcosa di simile accade quando si riferisce all’azione dello Spirito Santo, che acquista immediatamente un senso missionario: «Ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva ed agisca in me. Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata di amore non può restare inattiva». [20]

13. Nel cuore di Teresina, la grazia del battesimo è diventata un torrente impetuoso che sfocia nell’oceano dell’amore di Cristo, trascinando con sé una moltitudine di sorelle e fratelli, ciò che è avvenuto specialmente dopo la sua morte. È stata la sua promessa «pioggia di rose »[21]

2. La piccola via della fiducia e dell’amore

14. Una delle scoperte più importanti di Teresina, per il bene di tutto il Popolo di Dio, è la sua “piccola via”, la via della fiducia e dell’amore, conosciuta anche come la via dell’infanzia spirituale. Tutti possono seguirla, in qualunque stato di vita, in ogni momento dell’esistenza. È la via che il Padre celeste rivela ai piccoli (cfr Mt 11,25).

15. Teresina racconta la scoperta della piccola via nella Storia di un’anima [22]: «Nonostante la mia piccolezza, posso aspirare alla santità. Farmi diversa da quel che sono, più grande, mi è impossibile: mi devo sopportare per quello che sono con tutte le mie imperfezioni; ma voglio cercare il modo di andare in Cielo per una piccola via bella dritta, molto corta, una piccola via tutta nuova». [23]

16. Per descriverla, usa l’immagine dell’ascensore: «L’ascensore che mi deve innalzare fino al Cielo sono le tue braccia, o Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, anzi bisogna che io resti piccola, che lo diventi sempre di più». [24] Piccola, incapace di fidarsi di sé stessa, anche se fermamente sicura della forza amorosa delle braccia del Signore.

17. È la “dolce via dell’Amore”, [25] aperta da Gesù ai piccoli e ai poveri, a tutti. È la via della vera gioia. Di fronte a un’idea pelagiana di santità, [26] individualista ed elitaria, più ascetica che mistica, che pone l’accento principalmente sullo sforzo umano, Teresina sottolinea sempre il primato dell’azione di Dio, della sua grazia. Così arriva a dire : «Sento sempre la stessa audace fiducia di diventare una grande Santa, perché non faccio affidamento sui miei meriti, visto che non ne ho nessuno, ma spero in Colui che è la Virtù, la Santità stessa: è Lui solo che, accontentandosi dei miei deboli sforzi, mi eleverà fino a Lui e, coprendomi dei suoi meriti infiniti, mi farà Santa». [27]

Al di là di ogni merito

18. Questo modo di pensare non contrasta con il tradizionale insegnamento cattolico circa la crescita della grazia, cioè che, giustificati gratuitamente dalla grazia santificante, siamo trasformati e resi capaci di cooperare con le nostre buone opere in un cammino di crescita nella santità. In tal modo veniamo elevati, così da poter aver reali meriti in ordine allo sviluppo della grazia ricevuta.

19. Teresina tuttavia preferisce mettere in risalto il primato dell’azione divina e invitare alla fiducia piena guardando l’amore di Cristo donatoci fino alla fine. In fondo, il suo insegnamento è che, dal momento che non possiamo avere alcuna certezza guardando a noi stessi, [28] nemmeno possiamo esser certi di possedere meriti propri. Pertanto non è possibile confidare in questi sforzi o adempimenti. Il Catechismo ha voluto citare le parole di Santa Teresina quando dice al Signore: «Comparirò davanti a te con le mani vuote», [29] per esprimere che «i santi hanno sempre avuto una viva consapevolezza che i loro meriti erano pura grazia». [30] Questa convinzione suscita una gioiosa e tenera gratitudine.

20. Quindi, l’atteggiamento più adeguato è riporre la fiducia del cuore fuori di noi stessi: nell’infinita misericordia di un Dio che ama senza limiti e che ha dato tutto nella Croce di Gesù. [31] Per questa ragione Teresa mai usa l’espressione, frequente al suo tempo, “mi farò santa”.

21. Tuttavia, la sua fiducia senza limiti incoraggia coloro che si sentono fragili, limitati, peccatori, a lasciarsi portare e trasformare per arrivare in alto: «Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentissero ciò che sente la più piccola tra tutte le anime, l’anima della sua piccola Teresa, non una sola di esse dispererebbe di giungere in cima alla montagna dell’amore! Infatti Gesù non chiede grandi azioni, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza» [32].

22. Questa stessa insistenza di Teresina sull’iniziativa divina fa sì che, quando parla dell’Eucaristia, non ponga in primo piano il suo desiderio di ricevere Gesù nella santa Comunione, ma il desiderio di Gesù che vuole unirsi a noi e abitare nei nostri cuori. [33] Nell’ Offerta all’Amore Misericordioso, soffrendo per non potere ricevere la Comunione tutti giorni, dice a Gesù: «Resta in me, come nel tabernacolo» [34]. Il centro e l’oggetto del suo sguardo non è lei stessa con i suoi bisogni, ma Cristo che ama, che cerca, che desidera, che dimora nell’anima.

L’abbandono quotidiano

23. La fiducia che Teresina promuove non va intesa soltanto in riferimento alla propria santificazione e salvezza. Ha un senso integrale, che abbraccia l’insieme dell’esistenza concreta e si applica a tutta la nostra vita, dove molte volte ci sopraffanno le paure, il desiderio di sicurezze umane, il bisogno di avere tutto sotto controllo. È qui che compare l’invito al santo “abbandono”.

24. La fiducia piena, che diventa abbandono all’Amore, ci libera dai calcoli ossessivi, dalla costante preoccupazione per il futuro, dai timori che tolgono la pace. Nei suoi ultimi giorni Teresina insisteva su questo: «Noi, che corriamo nella via dell’Amore, trovo che non dobbiamo pensare a ciò che ci può capitare di doloroso nell’avvenire, perché allora è mancare di fiducia». [35] Se siamo nelle mani di un Padre che ci ama senza limiti, questo sarà vero qualunque circostanza accada, potremo andare avanti qualsiasi cosa succeda e, in un modo o nell’altro, si compirà nella nostra vita il suo progetto di amore e di pienezza.

Un fuoco in mezzo alla notte

25. Teresina viveva la fede più forte e sicura nel buio della notte e addirittura nell’oscurità del Calvario. La sua testimonianza ha raggiunto il punto culminante nell’ultimo periodo della vita, nella grande «prova contro la fede», [36] che cominciò nella Pasqua del 1896. Nel suo racconto, [37] ella pone questa prova in relazione diretta con la dolorosa realtà dell’ateismo del suo tempo. È vissuta infatti alla fine del XIX secolo, cioè nell’“età d’oro” dell’ateismo moderno, come sistema filosofico e ideologico. Quando scriveva che Gesù aveva permesso che la sua anima «fosse invasa dalle tenebre più fitte», [38] stava a indicare l’oscurità dell’ateismo e il rifiuto della fede cristiana. In unione con Gesù, che accolse in sé tutta l’oscurità del peccato del mondo quando accettò di bere il calice della Passione, Teresina coglie in quel buio tenebroso la disperazione, il vuoto del nulla. [39]

26. Ma l’oscurità non può estinguere la luce: ella è stata conquistata da Colui che come luce è venuto nel mondo (cfr Gv 12,46). [40] Il racconto di Teresina manifesta il carattere eroico della sua fede, la sua vittoria nel combattimento spirituale, di fronte alle tentazioni più forti. Si sente sorella degli atei e seduta, come Gesù, alla mensa con i peccatori (cfr Mt 9,10-13). Intercede per loro, mentre rinnova continuamente il suo atto di fede, sempre in comunione amorosa con il Signore: «Corro verso il mio Gesù, gli dico che sono pronta a versare fino all’ultima goccia il mio sangue per testimoniare che esiste un Cielo. Gli dico che sono felice di non godere quel bel Cielo sulla terra, affinché Egli lo apra per l’eternità ai poveri increduli». [41]

27. Insieme alla fede, Teresa vive intensamente una fiducia illimitata nell’infinita misericordia di Dio: «La fiducia che deve condurci all’Amore». [42] Vive, anche nell’oscurità, la fiducia totale del bambino che si abbandona senza paura tra le braccia del padre e della madre. Per Teresina, infatti, Dio risplende prima di tutto attraverso la sua misericordia, chiave di comprensione di qualunque altra cosa che si dica di Lui: «A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo e adoro le altre perfezioni Divine! Allora tutte mi appaiono raggianti d’ amore, perfino la Giustizia (e forse anche più di ogni altra) mi sembra rivestita d’ amore». [43] Questa è una delle scoperte più importanti di Teresina, uno dei più grandi contributi che ha offerto a tutto il Popolo di Dio. In modo straordinario ha penetrato le profondità della misericordia divina e di là ha attinto la luce della sua illimitata speranza. 

Una fermissima speranza

28. Prima del suo ingresso nel Carmelo, Teresina aveva sperimentato una singolarevicinanza spirituale a una persona tra le più sventurate, il criminale Henri Pranzini, condannato a morte per triplice omicidio e non pentito. [44] Offrendo la Messa per lui e pregando con totale fiducia per la sua salvezza, è sicura di metterlo in contatto con il Sangue di Gesù e dice a Dio di essere sicurissima che nel momento finale Lui lo avrebbe perdonato e che lei ci avrebbe creduto «anche se non si fosse confessato e non avesse dato alcun segno di pentimento». Dà la ragione della sua certezza: «Tanto avevo fiducia nella misericordia infinita di Gesù». [45] Quale emozione, poi, nello scoprire che Pranzini, salito sul patibolo, «a un tratto, colto da una ispirazione improvvisa, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presenta e bacia per tre volte le sante piaghe!». [46] Questa esperienza così intensa di sperare contro ogni speranza è stata per lei fondamentale: «Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di salvare le anime crebbe ogni giorno!». [47]

29. Teresa è consapevole del dramma del peccato, benché la vediamo sempre immersa nel mistero di Cristo, con la certezza che «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» ( Rm 5,20). Il peccato del mondo è immenso, ma non è infinito. Invece, l’amore misericordioso del Redentore, questo sì, è infinito. Teresina è testimone della vittoria definitiva di Gesù su tutte le forze del male attraverso la sua passione, morte e risurrezione. Mossa dalla fiducia, osa affermare: «Gesù, fa’ che io salvi molte anime: che oggi non ce ne sia una sola dannata! […] Gesù, perdonami se dico cose che non bisogna dire: io voglio solo rallegrarti e consolarti». [48] Questo ci permette di passare a un altro aspetto di quell’aria fresca che è il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo.

3. Sarò l’amore

30. “Più grande” della fede e della speranza, la carità non avrà mai fine (cfr 1 Cor 13,8-13). È il più grande dono dello Spirito Santo ed è «madre e radice di ogni virtù». [49]

La carità come atteggiamento personale d’amore

31. La Storia di un’anima è una testimonianza di carità, in cui Teresina ci offre un commentario circa il comandamento nuovo di Gesù: «Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» ( Gv 15,12). [50] Gesù ha sete di questa risposta al suo amore. Infatti, «non ha esitato a mendicare un po’ d’acqua dalla Samaritana. Aveva sete… Ma dicendo: “dammi da bere” era l’amore della sua povera creatura che il Creatore dell’universo invocava. Aveva sete d’amore!» [51]. Teresina vuole corrispondere all’amore di Gesù, rendergli amore per amore. [52]

32. La simbologia dell’amore sponsale esprime la reciprocità del dono di sé tra lo sposo e la sposa. Così, ispirata dal Cantico dei Cantici (2,16), scrive: «Penso che il cuore del mio sposo è solo mio, così come il mio appartiene solo a lui, e allora nella solitudine gli parlo di questo delizioso cuore a cuore, aspettando di contemplarlo un giorno a faccia a faccia!». [53] Benché il Signore ci ami insieme come Popolo, allo stesso tempo la carità agisce in modo personalissimo, “da cuore a cuore”.

33. Teresina ha la viva certezza che Gesù l’ha amata e conosciuta personalmente nella sua Passione: «Mi ha amato e ha dato sé stesso per me» ( Gal 2,20). Contemplando Gesù nella sua agonia, lei gli dice: «Tu m’hai vista sempre». [54] Allo stesso modo dice a Gesù Bambino tra le braccia di sua Madre: «Con la tua mano carezzando Maria, tu reggevi il mondo e gli davi vita. E a me già pensavi». [55] Così, anche all’inizio della Storia di un’anima, ella contempla l’amore di Gesù per tutti e per ognuno come se fosse unico al mondo. [56]

34. L’atto di amore “Gesù, ti amo”, continuamente vissuto da Teresa come il respiro, è la sua chiave di lettura del Vangelo. Con questo amore s’immerge in tutti i misteri della vita di Cristo, dei quali si fa contemporanea, abitando il Vangelo insieme a Maria e Giuseppe, Maria di Magdala e gli Apostoli. Insieme a loro penetra le profondità dell’amore del Cuore di Gesù. Vediamo un esempio: «Quando vedo Maddalena avanzare in mezzo ai numerosi convitati, bagnare con le sue lacrime i piedi del suo Maestro adorato, che lei tocca per la prima volta, sento che il suo cuore ha compreso gli abissi d’amore e di misericordia del Cuore di Gesù e che, per quanto peccatrice sia, questo Cuore d’amore non solo è disposto a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua intimità divina, ad elevarla fino alle più alte cime della contemplazione». [57]

L’amore più grande nella più grande semplicità

35. Alla fine della Storia di un’anima, Teresina ci regala la sua Offerta come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso[58] Quando lei si è consegnata pienamente all’azione dello Spirito ha ricevuto, senza clamori né segni vistosi, la sovrabbondanza dell’acqua viva: «I fiumi o meglio gli oceani di grazie che sono venuti a inondare la mia anima». [59] È la vita mistica che, anche priva di fenomeni straordinari, si propone a tutti i fedeli come esperienza quotidiana di amore.

36. Teresina vive la carità nella piccolezza, nelle cose più semplici dell’esistenza di ogni giorno, e lo fa in compagnia della Vergine Maria, imparando da lei che « amare è dare tutto e donar se stessi». [60] Infatti, mentre i predicatori del suo tempo parlavano spesso della grandezza di Maria in maniera trionfalistica, come lontana da noi, Teresina mostra, a partire dal Vangelo, che Maria è la più grande del Regno dei Cieli perché è la più piccola (cfr Mt 18,4), la più vicina a Gesù nella sua umiliazione. Lei vede che, se i racconti apocrifi sono pieni di episodi appariscenti e meravigliosi, i Vangeli ci mostrano una vita umile e povera, trascorsa nella semplicità della fede. Gesù stesso vuole che Maria sia l’esempio dell’anima che lo cerca con una fede spoglia. [61] Maria è stata la prima a vivere la “piccola via” in pura fede e umiltà; così che Teresa non esita a scrivere:

«So che a Nazareth, Madre di grazia piena,
povera tu eri e nulla più volevi:
non miracoli o estasi o rapimenti
t’adornan la vita, Regina dei Santi
!
In terra è grande il numero dei piccoli
che guardarti possono senza tremare.
La via comune
, Madre incomparabile,
percorrere tu vuoi e guidarli al Cielo». [62]

37. Teresina ci ha offerto anche racconti che testimoniano alcuni momenti di grazia vissuti in mezzo alla semplicità di ogni giorno, come la sua repentina ispirazione mentre accompagnava una suora malata con un temperamento difficile. Ma sempre si tratta di esperienze di una carità più intensa vissuta nelle situazioni più ordinarie: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, faceva freddo, era buio… A un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi, invece degli ori, vedevo i mattoni del nostro chiostro austero, rischiarato a malapena da una debole luce. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano altamente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità… Ah, per godere mille anni di feste mondane, non avrei dato i dieci minuti impiegati a compiere il mio umile ufficio di carità». [63]

Nel cuore della Chiesa

38. Teresina ha ereditato da Santa Teresa d’Avila un grande amore per la Chiesa ed è potuta arrivare alla profondità di questo mistero. Lo vediamo nella sua scoperta del “cuore della Chiesa”. In una lunga preghiera a Gesù, [64] scritta l’8 settembre 1896, sesto anniversario della sua professione religiosa, la Santa confida al Signore che si sentiva animata da un immenso desiderio, da una passione per il Vangelo che nessuna vocazione da sola poteva soddisfare. E così, cercando il suo “posto” nella Chiesa, aveva riletto i capitoli 12 e 13 della Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi.

39. Nel capitolo 12 l’Apostolo utilizza la metafora del corpo e delle sue membra per spiegare che la Chiesa porta in sé una gran varietà di carismi composti secondo un ordine gerarchico. Ma questa descrizione non è sufficiente per Teresina. Ella prosegue la sua indagine, legge l’“inno alla carità” del capitolo 13, là trova la grande risposta e scrive questa pagina memorabile: «Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in nessuno dei membri descritti da San Paolo: o meglio, volevo riconoscermi in tutti!… La Carità mi diede la chiave della mia vocazione. Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra, il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la Chiesa aveva un Cuore, e che questo Cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue… Capii che l’ Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi!… Insomma che è Eterno!… Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore…, la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore!… Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore!… Così sarò tutto… Così il mio sogno sarà realizzato!!!». [65]

40. Non è il cuore di una Chiesa trionfalistica, è il cuore di una Chiesa amante, umile e misericordiosa. Teresina mai si mette al di sopra degli altri, ma all’ultimo posto con il Figlio di Dio, che per noi è diventato servo e si è umiliato, facendosi obbediente fino alla morte su una croce (cfr Fil 2,7-8).

41. Tale scoperta del cuore della Chiesa è una grande luce anche per noi oggi, per non scandalizzarci a causa dei limiti e delle debolezze dell’istituzione ecclesiastica, segnata da oscurità e peccati, ed entrare nel suo cuore ardente d’amore, che si è incendiato nella Pentecoste grazie al dono dello Spirito Santo. È il cuore il cui fuoco si ravviva ancora con ogni nostro atto di carità. “Io sarò l’amore”: questa è l’opzione radicale di Teresina, la sua sintesi definitiva, la sua identità spirituale più personale.

Pioggia di rose

42. Dopo molti secoli in cui schiere di santi hanno espresso con tanto fervore e bellezza le loro aspirazioni ad “andare in cielo”, Santa Teresina riconosce, con grande sincerità: «Allora avevo grandi prove interiori di ogni genere (fino a chiedermi talvolta se c’era un Cielo)». [66] In un altro momento dice: «Quando canto la felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio, non provo alcuna gioia, perché canto semplicemente ciò che voglio credere». [67] Cosa è successo? Che lei stava ascoltando la chiamata di Dio a mettere fuoco nel cuore della Chiesa più di quanto sognasse la propria felicità.

43. La trasformazione che avvenne in lei le permise di passare da un fervido desiderio del Cielo a un costante e ardente desiderio del bene di tutti, culminante nel sogno di continuare in Cielo la sua missione di amare Gesù e di farlo amare. In questo senso, in una delle ultime lettere scrisse: «Conto proprio di non restare inattiva in Cielo: il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime». [68] E in quegli stessi giorni, in modo più diretto, disse: «Il mio Cielo trascorrerà sulla terra sino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra». [69]

44. Così Teresina esprimeva la sua risposta più convinta al dono unico che il Signore le stava regalando, alla luce sorprendente che Dio stava riversando in lei. In tal modo giungeva all’ultima sintesi personale del Vangelo, che partiva dalla piena fiducia per culminare nel dono totale agli altri. Ella non dubitava della fecondità di questa dedizione: «Penso a tutto il bene che potrò fare dopo la mia morte». [70] «Il buon Dio non mi darebbe questo desiderio di fare del bene sulla terra dopo la morte, se non volesse realizzarlo». [71] «Sarà come una pioggia di rose». [72]

45. Si chiude il cerchio. « C’est la confiance». È la fiducia che ci conduce all’Amore e così ci libera dal timore, è la fiducia che ci aiuta a togliere lo sguardo da noi stessi, è la fiducia che permette di porre nelle mani di Dio ciò che soltanto Lui può fare. Questo ci lascia un immenso torrente d’amore e di energie disponibili per cercare il bene dei fratelli. E così, in mezzo alla sofferenza dei suoi ultimi giorni, Teresa poteva dire: « Non conto più che sull’amore». [73] Alla fine conta soltanto l’amore. La fiducia fa sbocciare le rose e le sparge come un traboccare della sovrabbondanza dell’amore divino. Chiediamola come dono gratuito, come regalo prezioso della grazia, perché si aprano nella nostra vita le vie del Vangelo. 

4. Nel cuore del Vangelo

46. Nella Evangelii gaudium ho insistito sull’invito a ritornare alla freschezza della sorgente, per porre l’accento su ciò che è essenziale e indispensabile. Ritengo opportuno riprendere e proporre nuovamente quell’invito.

Il Dottore della sintesi

47. Questa Esortazione su Santa Teresina mi consente di ricordare che in una Chiesa missionaria «l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa». [74] Il nucleo luminoso è «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto». [75]

48. Non tutto è ugualmente centrale, perché c’è un ordine o gerarchia tra le verità della Chiesa, e «questo vale tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale». [76] Il centro della morale cristiana è la carità, che è la risposta all’amore incondizionato della Trinità, per cui «le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito». [77] Alla fine conta solo l’amore.

49. Precisamente, il contributo specifico che Teresina ci regala come Santa e come Dottore della Chiesa non è analitico, come potrebbe essere, per esempio, quello di San Tommaso d’Aquino. Il suo contributo è piuttosto sintetico, perché il suo genio consiste nel portarci al centro, a ciò che è essenziale, a ciò che è indispensabile. Ella, con le sue parole e con il suo personale percorso, mostra che, benché tutti gli insegnamenti e le norme della Chiesa abbiano la loro importanza, il loro valore, la loro luce, alcuni sono più urgenti e più costitutivi per la vita cristiana. È lì che Teresa ha fissato lo sguardo e il cuore. 

50. Come teologi, moralisti, studiosi di spiritualità, come pastori e come credenti, ciascuno nel proprio ambito, abbiamo ancora bisogno di recepire questa intuizione geniale di Teresina e di trarne le conseguenze teoriche e pratiche, dottrinali e pastorali, personali e comunitarie. Servono audacia e libertà interiore per poterlo fare.

51. Talvolta di questa Santa si citano soltanto espressioni che sono secondarie, o si menzionano temi che lei può avere in comune con qualunque altro santo: la preghiera, il sacrificio, la pietà eucaristica, e tante altre belle testimonianze, ma in questo modo potremmo privarci di ciò che vi è di più specifico nel dono da lei fatto alla Chiesa, dimenticando che «ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo». [78] Pertanto, «per riconoscere quale sia quella parola che il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui particolari […]. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona». [79] Questo vale a maggior ragione per Santa Teresina, essendo lei un “Dottore della sintesi”.

52. Dal cielo alla terra, l’attualità di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo rimane in tutta la sua “piccola grandezza”.

In un tempo che invita a chiudersi nei propri interessi, Teresina ci mostra la bellezza di fare della vita un dono.

In un momento nel quale prevalgono i bisogni più superficiali, lei è testimone della radicalità evangelica.

In un tempo di individualismo, lei ci fa scoprire il valore dell’amore che diventa intercessione.

In un momento nel quale l’essere umano è ossessionato dalla grandezza e da nuove forme di potere, lei indica la via della piccolezza.

In un tempo nel quale si scartano tanti esseri umani, lei ci insegna la bellezza della cura, di farsi carico dell’altro.

In un momento di complessità, lei può aiutarci a riscoprire la semplicità, il primato assoluto dell’amore, della fiducia e dell’abbandono, superando una logica legalista ed eticista che riempie la vita cristiana di obblighi e precetti e congela la gioia del Vangelo.

In un tempo di ripiegamenti e chiusure, Teresina ci invita all’uscita missionaria, conquistati dall’attrazione di Gesù Cristo e del Vangelo.

53. Un secolo e mezzo dopo la sua nascita, Teresina è più viva che mai in mezzo alla Chiesa in cammino, nel cuore del Popolo di Dio. Sta pellegrinando con noi, facendo il bene sulla terra, come ha tanto desiderato. Il segno più bello della sua vitalità spirituale sono le innumerevoli “rose” che va spargendo, cioè le grazie che Dio ci dona per la sua intercessione piena d’amore, per sostenerci nel percorso della vita.

Cara Santa Teresina,
la Chiesa ha bisogno di far risplendere
il colore, il profumo, la gioia del Vangelo.
Mandaci le tue rose!
Aiutaci ad avere fiducia sempre,
come hai fatto tu,
nel grande amore che Dio ha per noi,
perché possiamo imitare ogni giorno
la tua piccola via di santità.
Amen.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 15 ottobre, memoria di Santa Teresa d’Avila, dell’anno 2023, undicesimo del mio Pontificato.


FRANCESCO