«Donna de Paradiso» lauda drammatica di Jacopone da Todi

«Donna de Paradiso» lauda drammatica di Jacopone da Todi

Vivere La Quaresima aspettando la Pasqua attraversando il Triduo Pasquale

Rossini: Stabat Mater - 1. Stabat Mater dolorosa

La Donna de Paradiso di Jacopone da Todi Donna de paradiso è una poesia religiosa atribuita a Iacopone da Todi. Si tratta di un componimento in volgare, una lauda drammatica, chiamato anche Il pianto della Madonna, ed è pensato come un dialogo ai piedi della croce, nel quale Maria mostra tutto il suo dolore per la perdita di suo figlio.

«Donna de Paradiso
lo tuo figliolo è priso
Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide
che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ho flagellato.»

(Donna de Paradiso, 1-7)
Rappresenta un concitato dialogo tra il nunzio (san Giovanni Evangelista), Gesù, la Madonna e la folla durante gli ultimi momenti della vita di Cristo. Il metro utilizzato è quello della ballata sacra con quartine di settenari rimati AAAY e una ripresa rimata XXY. Il componimento è diviso in una terzina iniziale oltre a 33 quartine che rappresentano il numero degli anni che aveva Cristo alla sua morte e le strofe dedicate alla passione sono tre, simbolo della Trinità.

Ha una grande rilevanza storico-linguistica per il particolare uso del volgare: si alterna un registro basso (il cosiddetto sermo cotidianus) per i personaggi Maria e Gesù, a un registro colto e latineggiante per la folla e il nunzio.

Cristo si rivolge alla Madonna chiamandola mamma le tre volte che si rivolge a lei direttamente, e mate quando parla di lei a Giovanni.

La lauda drammatica
Donna de Paradiso è l’esempio più famoso di lauda drammatica, nonché in assoluto la prima lauda drammatica costruita interamente sotto forma di dialogo (Gesù-Maria-il nunzio).

Il carattere polifonico, di poesia a più voci, è strettamente associato a una concitazione narrativa che esprime i sentimenti drammatici e contrastanti da cui la scena è dominata: stupore, dolore, odio, amore. Fino a distendersi nell’ultima e più lunga battuta pronunciata da Maria, in una sofferta e quasi ininterrotta invocazione, dove si sommano il più tenero affetto e il dolore più straziante.

All’interno della lauda il personaggio di Maria assume particolare rilievo e viene rappresentata essenzialmente nella sua umanità di madre. La Madonna appare come una donna disperata per la vicenda del figlio, la cui condanna e morte le sono del tutto incomprensibili, dal momento che Cristo «non fece follia», «a torto è accusato», «non ha en sé peccato». La madre vede il proprio figlio martirizzato, «ensanguinato» e vuole allora morire con lui, salendo sulla stessa croce sul quale Cristo è riposto. La sua disperazione compare nel famoso corrotto, lamento funebre, nel quale con i più dolci appellativi si rivolge alla sua creatura che non è riuscita a sottrarre al martirio.

La Madonna non coglie nella sua morte l’esperienza necessaria per la redenzione dell’umanità dal peccato originale, ma solo l’aspetto terreno di terribile sofferenza.

Anche Cristo rivela attenzioni da figlio nei confronti della madre, che affida alle cure amorevoli di Giovanni, esortandola a restare in vita per servire i «compagni ch’al mondo» ha «acquistato», ma c’è in Cristo quella consapevolezza della sua missione salvifica che manca alla semplice donna del popolo.

Compito del nunzio è quello di riferire alla donna tutto quanto accade intorno alla croce; svolge con scrupolo il suo compito di cronista, non risparmiando alla madre nessuna delle torture inflitte al figlio e senza una sua partecipazione emotiva al dramma.

Due soli sono gli interventi del popolo presente alla scena ed entrambi con la funzione di affermare che in nome della legge Gesù deve essere punito, condannato.

Lo stile ha una notevole forza espressiva: scansione rapida delle frasi e prevalenza della coordinazione nella sintassi; l’uso dell’anafora (la parola figlio). Le frasi esclamative hanno il verbo all’infinito e la forma interrogativa è piena d’incertezza e di tensione. L’uso del tempo verbale al presente conferisce sia immediatezza sia eternità all’evento della passione.

È evidente da queste osservazioni che l’alta materia della Passione dal piano teologico è scesa a quello umano e spettacolarizzato; questo consente al pubblico, a cui è destinata la lauda, di identificarsi nel dramma della madre e del figlio e di parteciparvi. Iacopone nel descrivere la Passione di Cristo segue fedelmente i testi sacri della tradizione cristiana (le Sacre Scritture ed i Vangeli); inoltre la drammaticità che permea la sua opera è analoga a quella presente in alcune opere dell’arte figurativa contemporanea, come dimostra l’osservazione, ad esempio, della Crocifissione di Cimabue, conservata nella basilica superiore di San Francesco d’Assisi. La poesia viene citata da Fabrizio De André (Le nuvole) nel brano Ottocento.

(Laude, 70)

È il più celebre testo di Jacopone, uno dei primi esempi (se non il primo in assoluto) di “lauda drammatica” in quanto propone un dialogo tra più personaggi sulla crocifissione di Cristo, al centro della quale vi è il dolore di Maria per il martirio del proprio figlio (gli altri interlocutori sono Gesù stesso, la folla degli ebrei e un fedele che descrive le fasi del supplizio, probabilmente l’apostolo Giovanni). Il mistero dell’incarnazione di Cristo è espresso attraverso la pena tutta umana della madre per le sofferenze a Lui inflitte, per cui il racconto della Passione diventa un dramma concreto e naturalissimo accentuato dal movimento drammatico delle voci che si susseguono. Jacopone ha affrontato il tema del dolore della Vergine per la morte di Cristo anche nell’inno latino “Stabat Mater”, a lui generalmente attribuito.








































































































«Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.Accurre, donna e vide
che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato».«Come essere porria,
che non fece follia,
Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?».«Madonna, ello è traduto,
Iuda sì ll’à venduto;
trenta denar’ n’à auto,
fatto n’à gran mercato».«Soccurri, Madalena,
ionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como è annunzïato».«Soccurre, donna, adiuta,
cà ’l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
òlo dato a Pilato».«O Pilato, non fare
el figlio meo tormentare,
ch’eo te pòzzo mustrare
como a ttorto è accusato».«Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo la nostra lege
contradice al senato».«Prego che mm’entennate,
nel meo dolor pensate!
Forsa mo vo mutate
de que avete pensato».

«Traiàn for li latruni,
che sian soi compagnuni;
de spine s’encoroni,
ché rege ss’è clamato!».

«O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me’ angustïato?

Figlio occhi iocundi,
figlio, co’ non respundi?
Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ si lattato?».

«Madonna, ecco la croce,
che la gente l’aduce,
ove la vera luce
déi essere levato».

«O croce, e que farai?
El figlio meo torrai?
E que ci aponerai,
che no n’à en sé peccato?».

«Soccurri, plena de doglia,
cà ’l tuo figliol se spoglia;
la gente par che voglia
che sia martirizzato».

«Se i tollit’el vestire,
lassatelme vedere,
com’en crudel firire
tutto l’ò ensanguenato».

«Donna, la man li è presa,
ennella croc’è stesa;
con un bollon l’ò fesa,
tanto lo ’n cci ò ficcato.

L’altra mano se prende,
ennella croce se stende
e lo dolor s’accende,
ch’è plu multiplicato.

Donna, li pè se prènno
e clavellanse al lenno;
onne iontur’aprenno,
tutto l’ò sdenodato».

«Et eo comenzo el corrotto;
figlio, lo meo deporto,
figlio, chi me tt’à morto,
figlio meo dilicato?

Meglio aviriano fatto
ch’el cor m’avesser tratto,
ch’ennella croce è tratto,
stace descilïato!».

«O mamma, o’ n’èi venuta?
Mortal me dà’ feruta,
cà ’l tuo plagner me stuta,
ch’el veio sì afferato».

«Figlio, ch’eo m’aio anvito,
figlio, pat’e mmarito!
Figlio, chi tt’à firito?
Figlio, chi tt’à spogliato?».

«Mamma, perché te lagni?
Voglio che tu remagni,
che serve mei compagni,
ch’êl mondo aio aquistato».

«Figlio, questo non dire!
Voglio teco morire,
non me voglio partire
fin che mo ’n m’esc’ el fiato.

C’una aiàn sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en afrantura
mat’e figlio affocato!».

«Mamma col core afflitto,
entro ’n le man’ te metto
de Ioanni, meo eletto;
sia to figlio appellato.

Ioanni, èsto mea mate:
tollila en caritate,
àginne pietate,
cà ’l core si à furato».

«Figlio, l’alma t’è ’scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossecato!

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio, e a ccui m’apiglio?
Figlio, pur m’ài lassato!

Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, perché t’à el mondo,
figlio, cusì sprezzato?

Figlio dolc’e placente,
figlio de la dolente,
figlio àte la gente
mala mente trattato.

Ioanni, figlio novello,
morto s’è ’l tuo fratello.
Ora sento ’l coltello
che fo profitizzato.

Che moga figlio e mate
d’una morte afferrate,
trovarse abraccecate
mat’e figlio impiccato!».

Fedele: «Donna del cielo, tuo figlio, Gesù Cristo beato, è catturato.



Accorri, donna e vedi che la gente lo colpisce; credo che lo stiano uccidendo, tanto lo hanno flagellato.»



Maria: «E come potrebbe essere che abbiano catturato Cristo, la mia speranza, visto che non ha commesso peccato?»


Fedele: «Madonna, egli è stato tradito; Giuda l’ha venduto, avendone in cambio trenta denari; ne ha tratto un gran guadagno».



Maria: «Aiutami, Maddalena, mi è arrivata addosso la pena! Mio figlio Cristo è portato via, come è stato annunciato».



Fedele: «Soccorrilo, donna, aiutalo, poiché sputano addosso a tuo figlio e la gente lo sta portando via; lo hanno consegnato a Pilato».



Maria: «O Pilato, non fare torturare mio figlio, poiché io ti posso dimostrare che è accusato a torto».


Folla: «Crocifiggilo, crocifiggilo! Un uomo che si proclama re, secondo la nostra legge, contravviene ai decreti del senato».



Maria: «Vi prego di ascoltarmi, pensate al mio dolore! Forse ora cambiate idea rispetto a ciò che avete pensato».



Folla: «Tiriamo fuori [liberiamo] i ladroni, che siano suoi compagni di pena; lo si incoroni di spine, visto che si è proclamato re!».


Maria: «O figlio, figlio, figlio, figlio, giglio amoroso! Figlio, chi dà conforto al mio cuore angosciato?



Figlio dagli occhi che danno gioia, figlio, perché non mi rispondi? Figlio, perché ti nascondi dal petto dove sei stato allattato?».



Fedele: «Madonna, ecco la croce che è portata dalla folla, ove Cristo (la vera luce) dovrà essere sollevato».



Maria: «Croce, cosa farai? Prenderai mio figlio? E di cosa lo accuserai, visto che non ha commesso alcun peccato?».



Fedele: «Soccorrilo, o tu che sei piena di dolore, poiché il tuo figliolo è spogliato; sembra che la folla voglia che sia martirizzato».


Maria: «Se gli togliete i vestiti, lasciatemi vedere come lo hanno tutto insanguinato, infliggendogli crudeli ferite».



Fedele: «Donna, gli hanno preso una mano e l’hanno stesa su un braccio della croce; l’hanno spaccata con un chiodo, tanto gliel’hanno conficcato.


Gli prendono l’altra mano e la stendono sull’altro braccio della croce, e il dolore brucia, ancora più accresciuto.


Donna, gli prendono i piedi e li inchiodano al legno; aprendogli ogni giuntura, lo hanno tutto slogato».



Maria: «E io inizio il lamento funebre; figlio, mia gioia, figlio, chi ti ha ucciso [togliendoti a me], figlio mio delicato?



Avrebbero fatto meglio a strapparmi il cuore, visto che è posto anch’esso in croce e sta lì straziato!».



Cristo: «Mamma, dove sei venuta? Mi infliggi una ferita mortale, poiché il tuo pianto, che vedo così angosciato, mi uccide».


Maria: «Figlio, io ne ho ben ragione, figlio, padre e marito! Figlio, chi ti ha ferito? Figlio, chi ti ha spogliato?».



Cristo: «Mamma, perché ti lamenti? Voglio che tu rimanga qui, che assisti i miei compagni che ho acquistato nel mondo».



Maria: «Figlio, non dire questo! Voglio morire con te, non voglio andarmene finché mi esce ancora voce.


Possiamo noi avere un’unica sepoltura, figlio di mamma infelice, trovandoci nella stessa sofferenza, madre e figlio ucciso!».



Cristo: «Mamma col cuore afflitto, ti affido nelle mani di Giovanni, il mio discepolo prediletto; sia tuo figlio acquisito.



Giovanni, ecco mia madre: prendila con affetto, abbine pietà, poiché ha il cuore così trafitto».



Maria: «Figlio, l’anima ti è uscita dal corpo, figlio della smarrita, figlio della disperata, figlio avvelenato [ucciso]!



Figlio bianco e rosso, figlio senza pari, figlio, a chi mi rivolgo? Mi hai davvero abbandonata!


Figlio bianco e biondo, figlio dal volto gioioso, figlio, perché il mondo ti ha così disprezzato?



Figlio dolce e bello, figlio di una donna addolorata, figlio, la gente ti ha trattato in malo modo.



Giovanni, figlio acquisito, tuo fratello è morto. Ora sento il coltello [la pena del martirio] che fu profetizzato.



Che la madre muoia insieme al figlio, afferrati dalla stessa morte, trovandosi abbracciati, madre e figlio entrambi crocifissi!»

Interpretazione

  • Il testo ha la forma metrica di una ballata di versi settenari, con una ripresa di tre versi (rima YYX) e 33 strofe di quattro versi ciascuna (rima AAAX). Sono presenti rime siciliane ai vv. 1-2 (Paradiso / preso), vv. 28-29 (crucifige / rege), vv. 37-38 (compagnuni / encoroni), vv. 48-49 (croce / aduce), vv. 60-61 (vestire /  vedere), vv. 104-105 (afflitto / metto). Una rima imperfetta è ai vv. 76-77, corrotto / deporto.
  • La passione di Cristo è rappresentata nella sua crudezza e nella sua umanità, poiché Gesù è mostrato come un uomo che soffre e il cui corpo è flagellato e sottoposto a crudeli ferite. Altrettanto umana la figura della Madonna, il cui dolore è quello di una madre che soffre a vedere il figlio torturato senza colpa (all’inizio Maria tenta inutilmente di convincere la folla e Pilato dell’innocenza del figlio). Nelle prime strofe la sua voce si alterna a quella di un fedele (forse S. Giovanni, cui Cristo affida la madre alla fine del testo) che descrive i momenti più strazianti del martirio e invita Maria a soccorrere il figlio; interviene poi la voce della folla che incita alla crocifissione, secondo lo stereotipo medievale del popolo ebreo deicida, quindi animato dal desiderio di martirio verso Cristo.
  • Il testo si compone di 33 quartine (esclusa la ripresa) che corrispondono agli anni di Cristo quando venne crocifisso, mentre la descrizione del suo corpo inchiodato alla croce si concentra nei vv. 64-75, dunque nelle tre strofe centrali del componimento, con una perfetta simmetria e la simbologia religiosa del numero tre.
  • La prima parte della lauda contiene soprattutto la descrizione della Via crucis con le urla della folla all’indirizzo di Gesù e gli oltraggi al suo corpo, mentre nella seconda parte (dopo che Cristo è stato inchiodato alla croce) ha grande spazio il dolore di Maria, che si abbandona a un “corrotto” (lamento funebre) commovente e straziante: la Vergine si rivolge direttamente al figlio, sottolinea la sua innocenza e il fatto che sia martirizzato senza colpa, ne fa l’elogio con una serie di epiteti esornativi (l’anafora “figlio” è ripetuta per quattro quartine consecutive, vv. 112-127, poi Maria lo chiama “bianco e vermiglio”, “bianco e biondo”, “volto iocondo”). Il suo dolore è quello tutto umano di una donna che vede il figlio morire e vorrebbe essere uccisa insieme a lui, mente alla fine resta piangente ai piedi della croce.

La conversione del Manzoni

La conversione del Manzoni


La conversione del Manzoni
Vincenzo Zaccaria, baccelliere in Scienze Bibliche
Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione”
all’età di 25 anni, ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” .
Pare tuttavia si tratti di un episodio leggendario, ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito
taceva volontariamente nel trattare l’argomento o al massimo rispondeva a bassa vo
ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in
ne a mio parere più convincente, anche perché l’ho studiata sui banchi di scuola. A
nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di
colgo l’occasione per ringraziarlo).
in compagnia della moglie Enrichetta, calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del
matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. La folla è festante, la confusione è tanta;
grida di gioia al passaggio degli sposi e lo scoppio di alcuni fuochi d’artificio portano il Manzoni a perdere di
vista la moglie in un attimo. Il Manzoni prova immediatamente a ritrovarla, la chiama ad alta voce,
ma non riesce più a ritrovarla; la moglie sembra sparita. I minuti passano,
ve ritrovare la moglie, ma nulla, la moglie sembra scomparsa. Smarrito,
il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le
il silenzio e la quiete della basilica tranquillizzano immediatamente il Manzoni. S
con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere,
per mettersi alla prova e prega per ritrovare la moglie! Di certo sarà rimasto per qualche minuto da solo in un
, avrà supplicato di essere ascoltato, avrà insistito con sincerità,
di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenzial
dopo questa prova, può nuovamente abbracciarla.
L’esistenza del Manzoni da quel momento cambiò
nell’animo ma anche nella sua arte. Graz
uomini possono continuare ad apprezzare gli
componimenti dedicati alle maggiori festività del cattolicesimo
Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale
Pentecoste.
Riprendo alcuni momenti de La Resurrezione
parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia
dell’uomo:
È risorto: il capo santo
più non posa nel sudario
è risorto: dall’un canto
dell’avello solitario
sta il coperchio rovesciato:
come un forte inebbriato ,
De tenebris in admirabile lumen
“Egli vi ha chiamati fuori delle tenebre,
per condurvi nella sua luce meravigliosa”. – 1Pt 2:9, TILC.
Lapide posta sul primo pilastro sinistro
Roch, che commemora la
Un momento decisivo nella vita e nella produzione letteraria di Alessandro Manzoni fu la ”conversione”
ricordata anche come ”miracolo di San Rocco” .
ci sono anche varie versioni, lo stesso Manzoni in seguito
al massimo rispondeva a bassa voce ӏ stata la grazia di
ciononostante è affascinante ricordarlo per i lavori letterari che uscirono dalla penna del poeta in
studiata sui banchi di scuola. Allora il
nostro professore la chiedeva continuamente nelle interrogazioni ed infatti poi all’esame di maturità fu
calvinista, è a Parigi nel bel mezzo dei festeggiamenti del
la confusione è tanta; spinte, urla,
tano il Manzoni a perdere di
la chiama ad alta voce, si fa
la moglie sembra sparita. I minuti passano, ma non rinuncia;
la moglie sembra scomparsa. Smarrito, stanco e sospinto dalla
il poeta si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco e si rifugia dentro per riprendere le
zzano immediatamente il Manzoni. Senza però
con animo sincero egli ora capisce che è il momento di chiedere, ha l’occasione
per qualche minuto da solo in un
avrà insistito con sincerità, le sue parole
di poeta buone e uniche saranno di certo arrivate al Signore e forse avranno preso una ”corsia preferenziale”.
Manzoni da quel momento cambiò non solo
ma anche nella sua arte. Grazie a quel momento, gli
uomini possono continuare ad apprezzare gli Inni sacri, cinque
ori festività del cattolicesimo: La
l Natale, La Passione, La
La Resurrezione. Gustiamo con le
parole del nostro grande poeta il momento più esaltante della storia
il Signor si risvegliò
Era l’alba; e molli il viso
Maddalena e l’altre donne
fean lamento in su l’Ucciso;
ecco tutta di Sionne
si commosse la pendice
e la scolta insultatrice
di spavento tramortì
Un estranio giovinetto
si posò sul monumento:
era folgore l’aspetto
era neve il vestimento:
alla mesta che ‘l richiese
dié risposta quel cortese:
è risorto; non è qui.
Parafrasi:
Egli è risorto: il suo capo non è più avvolto dal sudario; è risorto: ad un lato del sepolcro vuoto sta,
rovesciata, la pietra tombale: il Signore si risvegliò, come un uomo forzuto che è stato ubriacato dal vino.
Era l’alba, e col volto bagnato di pianto Maddalena e le altre donne piangevano l’uccisione di Gesù, quando
la pendice del monte Sion [su cui sorge Gerusalemme] tremò e le guardie, che con la loro presenza e con il
loro atteggiamento costituivano un insulto a Cristo, tramortirono di paura.
Un giovinetto sconosciuto a tutti [un angelo] si posò sul luogo della tragedia: ed era il suo aspetto come
quello di un fulmine, e il suo abbigliamento come neve: rispondendo ad una domanda di Maria Maddalena,
con dolcezza annunciò: Egli non è più qui, è risorto.

Madonna di Fatima-Totuus Tuus

Madonna di Fatima-Totuus Tuus

Riflessioni Dedicate al Mese mariano di Maria

San Giovanni Paolo II: “Desidero che ognuno Le dica: Totus tuus”

Il lungo pontificato di papa Wojtyla ha conferito una veste di “universalità” alla devozione mariana. Unendo “intuito soprannaturale” e “spirito profetico”, il Papa polacco ha saputo svelare ai cristiani del nostro tempo il “segreto di Maria”.

Il motto “Totus tuus”, che si trova nella forma “tuus totus” nel Trattato della vera devozione a Maria (n. 216) del Montfort, ripetutamente letto dal giovane Karol Wojtyla, è attinto da san Bonaventura.

La formula, ancora prima, si trova nella tradizione francescana a partire da san Francesco che lo usa nell’esperienza delle stimmate a La Verna. Il Santo di Assisi si rivolge a Dio dicendo: «Signor mio, io sono tutto tuo, tu sai bene che io non ho altro che la tonica e la corda e li panni di gamba, e anche queste tre cose sono tue» (1).

È il concetto di povertà totale che si esprime nella totale appartenenza a Dio e che si svilupperà nella duplice via indicata da san Francesco: la sequela di “Cristo e Maria”. San Bonaventura poi, nel Psalterium Beatae Mariae Virginis, precisa questa espressione nei confronti della Vergine: «Tuus totus ego sum, Domina, salvum me fac» (Salmo 118); «Tuus totus ego sum: et omnia mea tua sunt, Virgo super omnia benedicta» (Cantico, 8) (2).

Ebbene: papa Giovanni Paolo II († 2005) è stato senza dubbio, in modo eminente, uno di coloro che hanno scoperto il “segreto di Maria” – di cui parla il Montfort – annunciandolo, in veste di Pastore della Chiesa universale, all’orbe cattolico con l’esempio prima che con la parola.

E qui sta l’importanza della figura e del ruolo di san Giovanni Paolo II: non tanto l’approfondimento ma la diffusione, tanto che si può dire che la consacrazione a Maria, intesa come affidamento, abbandono fiducioso nelle mani della Madre celeste e docile obbedienza alla sua volontà, è stata senza dubbio la “chiave pastorale” da lui usata per raggiungere l’obiettivo da lui annunciato all’alba del terzo Millennio: la santità come vocazione e impegno di ogni cristiano, di tutta la Chiesa.

Così in lui, senza dubbio, si può riscontrare intuito soprannaturale e spirito profetico perché ha compreso, nel suo ruolo di guida spirituale dell’umanità affidatogli dalla Provvidenza, la carica salvifica e santificatrice della donazione sincera a Maria e ha cercato di far comprendere ai cristiani quel ruolo determinante che Lei, Mediatrice di ogni grazia, detiene in vista del fine ultimo, la santificazione e la salvezza di tutti.È stato scritto non a torto che

«se gli ultimi papi hanno parlato in termini positivi della consacrazione mariana, Giovanni Paolo II ne ha fatto uno dei punti programmatici qualificanti del suo pontificato. Sia con gesti che con discorsi, egli ha realizzato il motto del suo stemma episcopale “Totus tuus” (3). […]. In papa Wojtyla convergono molti apporti dei secoli precedenti, soprattutto di Montfort e di padre Kolbe, che egli utilizza liberamente secondo l’opportunità pastorale, senza legarsi ad una presentazione stereotipa. Ciò spiega la varietà di linguaggio cui ricorre per spiegare o esprimere i contenuti del rapporto di totale appartenenza e disponibilità a Maria: affidare, consacrare, offrire, dedicare, raccomandare, mettere nelle mani, impegnarsi, servire, affidare-affidamento seguito da consacrare-consacrazione.

Per papa Giovanni Paolo II consacrarsi a Maria comporta l’accostarsi alla grazia salvifica perché è da Lei che viene amministrato e offerto al mondo il tesoro dei meriti redentivi di Gesù e anche suoi.

Questo concetto esprimeva per esempio a Fatima, pellegrino nel 1982:

MADONNA DI FATIMA

«Consacrare il mondo al Cuore Immacolato di Maria significa avvicinarci, tramite l’intercessione della Madre, alla stessa Sorgente della Vita, scaturita sul Golgota. Questa Sorgente zampilla ininterrottamente con la redenzione e con la grazia» (5).

Tra i numerosi discorsi di papa Giovanni Paolo II sulla consacrazione-affidamento a Maria, vibrante fu quello in Cile nel 1987:

«Desidero che tutto il popolo, con voce unanime, possa dire alla Vergine Maria, come le dico io: “Totus tuus” (6): Tutto tuo sono, o Maria! La Vergine di Nazareth, la piena di grazia che si consacrò interamente alla volontà del Padre, ci esorta a vivere in unione con Lei e a iniettare le sue virtù e la sua fedeltà a Cristo in piena sintonia con il Vangelo, seguendo i suoi passi e meditando le sue parole, per renderle carne e vita nel mondo di oggi. In tal modo Dio continuerà a penetrare profondamente nella storia degli uomini come fece mediante l’Incarnazione del Verbo, per opera dello Spirito Santo, con la cooperazione di Maria» (7).

La consacrazione a Maria segna e deve segnare sempre di più la spiritualità del nostro tempo. Dobbiamo consacrarci a Lei per affrettare l’avvento del Trionfo del Cuore Immacolato.

Perché? La risposta sta tutta qui: alla luce della teologia della consacrazione riassunta da san Luigi M. Grignion e san Massimiliano M. Kolbe, si evince che gli uomini offrono concretamente alla Madonna il potere di agire con la sua onnipotente mediazione di grazia attraverso una devozione a Lei che sia ardente, profonda, ricca di sostanza teologica. Non esistendo devozione mariana che più risponda a queste caratteristiche della consacrazione, sarà appunto questa lo strumento eletto, più potente e più certo, della vittoria di Dio e dell’affermazione, in terra, del Trionfo del Cuore della Santissima Vergine.

Vale il principio enunciato dal Montfort nell’introduzione al “Segreto di Maria”: per trovare la grazia bisogna trovare Maria e per trovare Maria bisogna consacrarsi a Lei. Parafrasando, potremmo completare le connessioni proposte da san Luigi dicendo che per instaurare il Trionfo bisogna sconfiggere il serpente-drago; per sconfiggere il serpente-drago è necessario trovare la grazia; per trovare la grazia occorre trovare Maria; per trovare Maria, infine, bisogna consacrarsi a Lei.

È esperienza congiunta dei consacrati a Maria oggi che la consacrazione a Lei autenticamente vissuta inietta nell’anima, come suo “effetto collaterale”, una carica di militanza spirituale assolutamente necessaria, anzi urgente, nella situazione presente, per condurre a termine vittoriosamente la battaglia nella quale siamo catapultati.

Tornando alla necessità di consacrarsi alla Vergine Immacolata, concretamente è possibile farlo anche privatamente servendosi di uno dei numerosi corsi di preparazione che si trovano facilmente disponibili in rete. Ciò che davvero conta è che non cada nel vuoto il grande appello del Cielo agli uomini e elle donne del nostro tempo: «Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato» (la Madonna ai tre veggenti di Fatima).

di Fra’ Pietro Pio M. Pedalino

Ideazione Progetto a cura di Marilena Marino Vocedivina.it

SULLA DEVOZIONE ALLA MADONNA DEL ROSARIO

SULLA DEVOZIONE ALLA MADONNA DEL ROSARIO

COSA C’È DA SAPERE SULLA DEVOZIONE ALLA MADONNA DEL ROSARIO, NATA DA UN ANTICLERICALE  La Vergine del Rosario si festeggia l’8 maggio e il 7 ottobre perché alla sua intercessione fu attribuita la vittoria della flotta cristiana sui turchi musulmani nel 1571 a Lèpanto. A fondare il Santuario di Pompei fu un avvocato anticlericale e dedito allo spiritismo, Bartolo Longo, che si convertì per dedicarsi ai poveri

La Madonna del Rosario di Pompei si festeggia il 7 ottobre e l’8 maggio con la recita della Supplica solenne. Il culto verso la Vergine è molto antico e risale all’epoca dell’istituzione dei domenicani (XIII secolo), i quali ne furono i maggiori propagatori. Alla protezione della Vergine del Rosario, inoltre, fu attribuita la vittoria della flotta cristiana sui turchi musulmani, avvenuta a Lepanto nel 1571. A seguito di ciò il papa Pio V (1504-1572), istituì dal 1572 la festa del Santo Rosario, alla prima domenica di ottobre, che poi dal 1913 è stata spostata al 7 ottobre. Il culto per il Rosario ebbe un’ulteriore diffusione dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, dove la Vergine raccomandò la pratica di questa devozione. La Madonna del Rosario, ebbe nei secoli una vasta gamma di raffigurazioni artistiche, quadri, affreschi, statue, di solito seduta in trono con il Bambino in braccio, in atto di mostrare o dare la corona del rosario; la più conosciuta è quella in cui la corona viene data a Santa Caterina da Siena e a San Domenico di Guzman, inginocchiati ai lati del trono.

Il quadro della Madonna del Rosario venerato nel Santuario di Pompei

Il quadro della Madonna del Rosario venerato nel Santuario di Pompei

BARTOLO LONGO, DA ANTICLERICALE ALLA CONVERSIONE

Ma il vero apostolo della devozione alla Vergine di Pompei è il beato Bartolo Longo, un avvocato acceso anticlericale nato in Puglia il 10 febbraio 1841. Di temperamento esuberante, da giovane si dedicò al ballo, alla scherma e alla musica; intraprese gli studi superiori in forma privata a Lecce; dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Napoli.
Fu conquistato dallo spirito anticlericale che in quegli anni dominava nell’Ateneo napoletano, al punto da partecipare a manifestazioni contro il clero e il papa. Dubbioso sulla religione, si lasciò attrarre dallo spiritismo, allora molto praticato a Napoli, fino a diventarne un celebrante dei riti.

La sua vita ebbe allora una svolta totale, dopo una notte di incubi, egli si rivolse al Prof. Vincenzo Pepe. Pepe, suo compaesano e uomo molto religioso, fu per lui un vero amico, e lo inviò alla direzione spirituale di Padre Radente appartenente all’ordine dei Domenicani. Padre Radente dopo poco tempo riuscì a farlo aggregare al Terzo Ordine di San Domenico.

Il beato Bartolo Longo

Il beato Bartolo Longo

LE OPERE DI CARITÀ DOPO L’INCONTRO CON LA CONTESSA DE FUSCO

Nel 1864 si laureò in giurisprudenza, tornò al paese natìo, abbandonò la professione di avvocato, si prodigò in opere assistenziali, fece voto di castità seguendo anche le indicazioni del venerabile Emanuele Ribera redentorista che gli aveva preannunciato una probabile alta missione da compiere per la cristianità.
Per seguire questa vocazione ad aiutare i bisognosi, tornò a Napoli dove conobbe il futuro beato Ludovico da Casoria e la futura santa Caterina Volpicelli. Nella Casa Centrale che la Volpicelli aveva aperto a Napoli, Bartolo conobbe la contessa Marianna Farnararo De Fusco, donna impegnata fortemente in opere caritatevoli ed assistenziali.

Questa nel 1864 era rimasta vedova del conte Albenzio De Fusco di Lettere (Italia), i cui possedimenti si estendevano anche nella Valle di Pompei. Alla contessa, vedova di soli 27 anni con cinque figli in tenera età, serviva un amministratore per i beni De Fusco, nonché un precettore per i figli. Fu così che Bartolo accettò di stabilirsi in una residenza dei De Fusco per assolvere a tali compiti. Questa conoscenza segnò una svolta fondamentale nella vita di Bartolo Longo, poiché egli ne divenne l’inseparabile compagno nelle opere caritatevoli.

Tale amicizia tuttavia diede luogo a parecchie maldicenze, per cui dopo un’udienza da Papa Leone XIII, i due nel 1885 decisero di sposarsi, con il proposito però di vivere come buoni amici, in amore fraterno, come avevano fatto fino ad allora. Il matrimonio fu celebrato senza gli atti civili e le pubblicazioni di rito. La contessa De Fusco era proprietaria di terreni ed abitazioni nel territorio di Pompei e Bartolo Longo come amministratore si recava spesso nella Valle; vedendo l’ignoranza religiosa in cui vivevano i contadini sparsi nelle campagne, prese ad insegnare loro il catechismo, a pregare e specialmente a recitare il rosario.
Una pia suora Maria Concetta de Litala, gli donò una vecchia tela raffigurante la Madonna del Rosario, molto rovinata; restauratala alla meglio, Bartolo Longo decise di portarla nella Valle di Pompei e lui stesso racconta, che nel tratto finale, poggiò il quadro per trasportarlo, su un carro, che faceva la spola dalla periferia della città alla campagna, trasportando letame, che allora veniva usato come concime nei campi.
Il 13 febbraio 1876, il quadro venne esposto nella piccola chiesetta parrocchiale, da quel giorno la Madonna elargì con abbondanza grazie e miracoli; la folla di pellegrini e devoti aumentò a tal punto che si rendeva necessario costruire una chiesa più grande.
Bartolo Longo su consiglio del vescovo di Nola, iniziò il 9 maggio 1876 la costruzione del tempio che terminò nel 1887. Il quadro della Madonna, dopo essere stato opportunamente restaurato, venne sistemato su un trono; l’immagine poi verrà anche incoronata con un diadema d’oro, ornato da più di 700 pietre preziose, benedetto da papa Leone XII.

Famiglia Cristiana

Santa Caterina da Siena

Santa Caterina da Siena

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. La Chiesa ci mostra oggi Caterina da Siena. La sua storia ci insegna che nella vita non servono tanti anni per lasciare il segno, ma basta riempire ogni giorno con qualcosa di grande. La sua sapienza, riconosciuta nei Titoli di Patrona d’Italia e d’Europa e Dottore della Chiesa, non era tanto frutto dei libri ma della preghiera. Ha combattuto battaglie nella società civile e nella Chiesa, l’ha fatto con determinazione e tenacia, non per affermare il suo valore o una sua idea ma la verità.
Impariamo da Caterina a piegare le ginocchia davanti a Dio e a stare dritti davanti agli uomini, testimoni e difensori della verità e della giustizia.
“Non accontentatevi delle piccole cose.
Dio le vuole grandi. Mt 11,25-30
Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia”
Caterina da Siena – la ricordiamo oggi 29 aprile.

«Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi.

Patronato: Italia, Europa (Giovanni Paolo II, 1/10/99)

Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco

Emblema: Anello, Giglio

Martirologio Romano: Festa di Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, che, preso l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico, si sforzò di conoscere Dio in se stessa e se stessa in Dio e di rendersi conforme a Cristo crocifisso; lottò con forza e senza sosta per la pace, per il ritorno del Romano Pontefice nell’Urbe e per il ripristino dell’unità della Chiesa, lasciando pure celebri scritti della sua straordinaria dottrina spirituale.

Quando si pensa a santa Caterina da Siena vengono in mente tre aspetti di questa mistica nella quale sono stati stravolti i piani naturali: la sua totale appartenenza a Cristo, la sapienza infusa, il suo coraggio. I due simboli che caratterizzano l’iconografia cateriniana sono il libro e il giglio, che rappresentano rispettivamente la dottrina e la purezza. L’insistenza dell’iconografia antica sui simboli dottrinali e soprattutto il capolavoro de Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina), l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere sono stati decisivi per la proclamazione a Dottore della Chiesa di santa Caterina, avvenuta il 4 ottobre 1970 per volere di Paolo VI (1897-1978), sette giorni dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515-1582).
Caterina (dal greco: donna pura) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria era stata riempita da figure come Giotto (1267-1337) e  Dante (1265-1321), ma, contemporaneamente, dilaniata da tensioni e lotte fratricide di carattere politico, dove occupavano spazio preponderante le discordie fra guelfi e ghibellini.
La vita

Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell’Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.
Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio…
Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò  in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull’abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.
Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.
Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).
Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…

Le lettere

Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale. Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.
La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

Per la causa di Cristo
Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…
Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.
I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).
All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse – il quattordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».
Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra,  Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza.

Chiostro S. Caterina da Siena

Autore: Cristina Siccardi

Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it

Il Mistero dell’Annunciazione

Il Mistero dell’Annunciazione

Perché si festeggia il 25 marzo

 La kecharitoméne -la piena di grazia

Annunciazione Leonardo
Salve Regina (video testo)

La Salve Regina qui proposta è la versione estratta da “Missa de Angelis

La Missa De Angelis, o Missa VIII, è forse la più conosciuta anche fra le assemblee che non hanno spesso a che fare con il Canto Gregoriano. Riporta normalmente l’indicazione In festis duplicibus (in latino: Feste doppie), viene eseguita generalmente nelle Solennità

Il 25 marzo si celebra l’Annunciazione del Signore, una festa dedicata a Gesù, ma in ugual misura a Sua madre Maria, a Lui legata indissolubilmente. Scopriamo perché

Poche festività cristiane possono vantare l’importanza religiosa dell’Annunciazione del Signore. Essa si pone infatti al centro della storia della salvezza, in quanto rappresenta l’inizio dei tempi nuovi, della nuova alleanza tra Dio e l’uomo. È con l’Annunciazione che si mette in moto quel piano divino che culminerà con la nascita di Gesù, e soprattutto con la sua morte e resurrezione.

Ma di cosa si tratta?

Col termine “Annunciazione” si descrive l’incontro tra Maria e l’arcangelo Gabriele nel piccolo borgo di Nazareth. Un incontro destinato a cambiare completamente le sorti dell’umanità, in quanto fu in quell’occasione che l’Arcangelo, messaggero di Dio, annunciò appunto alla fanciulla l’imminente nascita del Messia.

È del mistero dell’Incarnazione del Verbo che stiamo parlando, ovvero la credenza che Gesù Cristo si sia incarnato nel grembo di Maria Vergine. Per questo l’Annunciazione del Signore era chiamata anticamente festa della Divina Incarnazione. Un concetto imprescindibile per i cristiani, che tuttavia generò molti disaccordi nell’antichità. Alla fine, dopo le proposte e le dissertazioni riguardo l’Incarnazione e la natura di Gesù che vennero discusse nel Primo Concilio di Nicea nel 325, nel Concilio di Efeso nel 431 e nel Concilio di Calcedonia nel 451, venne dichiarato che Gesù era sia pienamente Dio, e come tale incarnazione della seconda persona della Santissima Trinità, generato e non creato dal Padre, sia pienamente uomo, nato da Maria Vergine, fattosi carne. Tutto ciò che divergeva da questo pensiero venne definito eresia. La Festa dell’Annunciazione del Signore viene celebrata il 25 marzo per una serie di motivi. Antiche teorie già dibattute nel VI e VII secolo sostenevano infatti che in concomitanza con l’equinozio di primavera, che cade intorno a questa data, avessero avuto luogo sia l’Incarnazione del Verbo, sia la creazione del mondo. Molto più semplicemente, se calcoliamo il 25 dicembre come data di nascita di Gesù, ci basta andare indietro di 9 mesi per individuare la data indicativa del suo miracoloso concepimento.

Un aspetto fondamentale che dobbiamo considerare parlando dell’Annunciazione del Signore è la sua duplice natura di festa dedicata a Gesù, ma anche di festa mariana. L’Annunciazione rappresenta forse il più alto e importante momento di incontro tra l’umano e il divino, e per questo entrambi i protagonisti hanno uguale valore. Maria simboleggia l’attesa di Israele che trova finalmente compimento nell’arrivo del Salvatore. La sua accettazione del destino voluto per lei da Dio, l’obbedienza con cui si affida alla Sua volontà, e soprattutto l’immenso amore che la contraddistingue da questo momento in poi, sono indissolubilmente legati all’opera salvifica di Suo Figlio. In Maria la Salvezza è già una realtà, nell’istante stesso in cui la sua promessa viene pronunciata: “Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine.” (Luca 1, 31-33). Ecco come secondo Luca l’angelo annuncia a Maria la venuta di Cristo Re, Re di Israele, Re dei re, Re della Terra, Re delle nazioni, come scritto nelle antiche profezie in merito al Messia atteso dagli Ebrei.

Annunciazione del Signore, dunque, ma anche Annunciazione della Beata Vergine Maria, com’era conosciuta la festa in passato.
L’Annunciazione della Beata Vergine Maria è sicuramente uno dei momenti più alti ed evocativi della religione cristiana cattolica…Ma vediamo più nel dettaglio cosa raccontò Luca riguardo l’Annunciazione del Signore.

Annunciazione nel Vangelo di Luca

L’Annunciazione di Maria viene raccontata in modo molto diverso nel Vangelo secondo Matteo e nel Vangelo secondo Luca. Ci soffermeremo soprattutto sulla versione di Luca, quella in cui l’Arcangelo si reca da Maria per portarle l’annuncio della sua prossima gravidanza. Nel Vangelo secondo Matteo, invece, è da Giuseppe che si reca un angelo, per intimargli in sogno di non ripudiare la moglie resa incinta per opera dello Spirito Santo.

Ecco cosa scrive Luca:

26 Nel sesto mese, l’arcangelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27 a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28 Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». 29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. 30 L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34 Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». 35 Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. 36 Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: 37 nulla è impossibile a Dio». 38 Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l’angelo partì da lei.  (Luca 1, 26-38)

Basta leggere questo passo del Vangelo per comprendere l’importanza che l’Annunciazione ha per tutti i cristiani. Infiniti studi sono stati compiuti su ogni singola frase, ogni singolo passaggio di questo brano. Non pretendiamo certo di esaurire in un solo articolo tutte le infinite implicazioni, da quelle linguistiche a quelle teologiche.

Noi ci accostiamo ad esso con semplicità e umiltà, proprio come fece Maria, una vergine promessa sposa a un uomo, Giuseppe, che al cospetto di Gabriele, uno degli arcangeli appartenenti alla terza gerarchia della corte celeste, un angelo che ha nel suo stesso nome la potenza di Dio, perché il suo nome significa “Dio si manifesta forte potente e onnipotente”, dapprima è turbata, solo per il saluto altisonante con cui lui le si rivolge. Quel piena di grazia che conosciamo così bene grazie alla preghiera Ave Maria, e che viene dal greco kecharitòmene, un termine che esprime il massimo della grazia che qualcuno può incarnare. Ma il nome stesso di Maria esprime un significato che va al di là del nome stesso, in quanto in aramaico significa “principessa, signora, regina”, in ebraico “colei che vede e che fa vedere (ciò che non si può vedere)”, e in egizio “colei che è amata da Dio”.

Poi lei si tranquillizza, quando l’angelo le dice che non deve temere, perché è nella grazia di Dio, e quando le viene annunciato che dal suo grembo nascerà il Re che tutti stanno aspettando, si stupisce nella sua semplicità, perché lei non ha ancora conosciuto l’uomo.

L’angelo la rassicura e per darle un segno della veridicità delle sue parole le dice che anche la sua parente Elisabetta è incinta, nonostante l’età avanzata, e presto partorirà, perché nulla è impossibile a Dio.

E a questo punto Maria non ha più dubbi, non ha esitazioni: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.

Parole di umiltà e obbedienza, e allo stesso tempo di incredibile potenza. Nell’istante in cui si affida completamente alla volontà di Dio Maria rappresenta tutto il meglio che l’umanità può incarnare e offrire, e Dio stesso la eleva al di sopra di tutto e tutti.

È così che anche noi dovremmo vivere questa festa, come un invito all’umiltà, al coraggio di affidarci completamente a Dio, senza remore, senza domande. Se è vero che è sempre meglio ponderare e affrontare con razionalità le scelte importanti, è altrettanto vero che, in certi casi, bisogna affidarsi solo alla fede, senza pensare alle conseguenze. Accettando la volontà di Dio Maria sapeva di rischiare di venire rinnegata dal suo promesso sposo, eppure non ha esitato, non ha chiesto rassicurazioni. Si è fidata di Dio.

Questo fa di lei la piena di grazia, e in suo figlio Gesù ogni uomo può sperare di ottenere un poco di quella grazia così preziosa.

Prima ancora della nascita del Salvatore, Sua madre si fa tramite tra Lui e tutti gli uomini. Se Gesù è al centro della nostra visione del cielo, Maria è al suo fianco, a supplicare grazie per noi tutti. Lei che ha creduto in Suo Figlio prima ancora che nascesse.

Notizie sull’autore del canto Salve Regina

«Salve, Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A Te ricorriamo, noi esuli figli di Eva; a Te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime». È la preghiera che ancora si canta nelle chiese, alla fine, quando restano i vecchi a trascinare le vocali come a trattenere chi già corre a riaccendere il telefonino. Chi l’ha scritta, quasi mille anni fa, sapeva che cos’è una valle di lacrime. La Salve Regina fu infatti, quasi sicuramente, composta da Ermanno di Reichenau, meglio conosciuto come Ermanno lo storpio. Lo chiamavano anche “il contratto”. I documenti che ne danno notizia parlano di un uomo deforme, con gli arti come attorcigliati a impedirgli non solo di camminare normalmente ma anche di trovare pace disteso o seduto nella sedia costruita apposta per lui. Ermanno, che nella vita non è mai stato comodo se non, probabilmente, quando è sopraggiunta la morte, fu monaco e fine studioso. La preghiera alla Madonna entrata nella storia liturgica della Chiesa è solo uno degli aspetti del suo studio e della sua fede poderosamente intrecciati.

 Salve, Regina, mater misericordiae, vita, dulcedo et spes nostra, salve – Salve, Regina, Madre di misericordia; vita, dolcezza e speranza nostra, salve. Infine, l’antifona Regina caelorum la chiama regina e signora: Ave, Regina caelorum /Ave, Domina angelorum – Ave, Regina dei cieli, ave, Signora degli Angeli,

Al Beato Ermanno il Contratto Monaco tedesco vissuto tra il 1013 e il 1054 , vengono attribuite, oltre al la Salve Regina, l’Alma Redemporis Mater, anche se questa preghiera mariana sembra strutturata più sulla sequenza Ave Maris Stella, l’Ufficio di alcuni santi (Gregorio, Afra, Wolfgango, ecc.) e le Sequenze della Croce e della Pasqua (Grates, honos, hierarchia e Rex regun, Dei agne); alla liturgia si riferiscono anche i trattati De musica e De monochordo e opere di indole matematica, tutte di interesse liturgico.

La biografia parla di un uomo «piacevole, amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione di essere galantuomo con tutti». Misteriosamente in Ermanno la malattia non genera cinismo bensì un’umanità ricca, rigogliosa, coinvolgente.

“Ermanno, l’infimo dei poveretti di Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco, anzi, di una lumaca”. “

Tra gli amici è ricordato un certo Bertoldo, incaricato di aiutarlo nelle incombenze quotidiane e testimone dei momenti cruciali della sua vita. È a lui che Ermanno affida i suoi pensieri nei giorni della pleurite che lo condurrà alla morte. E l’amico si commuove e si tura le orecchie quando il piccolo monaco, già assaporando la pace della liberazione dal corpo, si dice stanco di vivere.
«La Vita, come la scrisse Bertoldo, è così piena di vita pulsante, Ermanno ne esce veramente vivo! Non perché sapesse scrivere sulla teoria della musica e della matematica, né perché seppe compilare minuziose cronache storiche e leggere tante lingue diverse, ma per il suo coraggio, la bellezza dell’anima sua, la sua serenità nel dolore, la sua prontezza a scherzare e a fare a botta e risposta, la dolcezza dei suoi modi che lo resero “amato da tutti”. (…) Ermanno ci dà la prova che il dolore non significa infelicità, né il piacere la felicità».

Idea Progettazione Marilena Marino Vocedivina.it