E’ risorto: il capo santo più non posa nel sudario è risorto: dall’un canto dell’ avello solitario sta il coperchio rovesciato: come un forte inebbriato , il Signor si risvegliò Era l’alba; e molli il viso Maddalena e l’altre donne fean lamento in su l’Ucciso; ecco tutta di Sionne si commosse la pendice e la scolta insultatrice di spavento tramortì Un estranio giovinetto si posò sul monumento: era folgore l’aspetto era neve il vestimento: alla mesta che ‘l richiese dié risposta quel cortese: è risorto; non è qui.
Poesia di Pasqua – di Alessandro Manzoni – Resurrezione
Oggi è la Pasqua, la festa stabilita da Dio per celebrare la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Però la meraviglia della Pasqua non è solamente la resurrezione in sé, per quanto è qualcosa di strepitoso, ma il fatto che Gesù Cristo è risorto come Signore e Salvatore per noi! Celebriamo la Pasqua di Risurrezione del Signore, oggi la fede nella speranza introdotta da Gesù nella storia trova dimora nel vuoto di un sepolcro: la quiete dopo la tempesta.
Appena dopo la morte di Gesù, ci fu un terremoto, le tombe di alcuni santi si aprirono e quei santi furono resuscitati, apparvero a tanti in Gerusalemme. (Matt 27:52) Queste persone erano la primizia della resurrezione che avverrà alla fine del mondo, di cui anche noi faremo parte se siamo salvati in Cristo.
Nel vangelo di Marco 15 si legge come il centurione che stava vicino alla croce riconobbe che Gesù era il figlio di Dio, nonostante egli avesse ricevuto molto meno rivelazione di quanta ne abbiamo ricevuta noi. L’evidenza per la divinità di Gesù è chiara. Oggi non c’è alcuna scusa per non credere in Gesù Cristo, però non basta solo credere intellettualmente, vogliamo camminare per fede giorno per giorno. Infatti, SAPERE le verità di Cristo non ci trasforma, è quando viviamo pensando alle verità di Dio che la nostra vita viene trasformata.
Appena dopo la morte di Gesù, Giuseppe d’Arimatea andò da Pilato per chiedergli il corpo di Gesù. Egli faceva parte del sinedrio e molto probabilmente questo atto gli costò la sua carriera come membro del sinedrio. Anche oggi, seguire veramente Gesù vuol dire perdere o abbandonare cose che prima erano importanti per noi. Però, seguire veramente Gesù vuol dire anche trovare in Gesù il nostro vero tesoro.
Per il cristianesimo, la Pasqua è la solennità delle solennità. La festa delle feste per il mondo cristiano. La festa più grande per il cristiano. La Pasqua è il giorno della gioia, del sollievo, del gaudio che sopraggiunge, dopo una fase di dolore e di mestizia. È la dimostrazione reale della divinità di Cristo. È una forza, una energia d’amore immessa, come lievito nella vita dell’uomo o come energia incredibile, che si espande a livelli concentrici fino all’infinito cristico, alimentando e sorreggendo la speranza che anche l’uomo risorgerà, perché le membra seguono la sorte del capo, dal momento che hanno la stessa natura umana (Eb 2, 11). La Pasqua è la festa solenne per eccellenza; è l’alleluia speciale dell’uomo; è il grido di gioia dell’umanità intera. Il motivo: è il “giorno di Cristo Signore”, Creatore Redentore e Glorificatore di tutto ciò che esiste ed è salvabile; è il giorno della Gloria di Cristo, vero Dio e vero Uomo. È contemporaneamente la Pasqua del Signore e anche “nostra Pasqua” presente e futura. Mistero dei misteri!
Veglia Pasquale Per antichissima tradizione questa è “la notte di veglia in onore dei Signore” (Es 12, 42), giustamente definita “la veglia madre di tutte le veglie” (Agostino, Discorso 219). In questa notte il Signore “è passato” per salvare e liberare il suo popolo oppresso dalla schiavitù; in questa notte Cristo “è passato” alla vita vincendo la grande nemica dell’uomo, la morte; questa notte è la celebrazione-memoriale del “passaggio” dell’uomo in Dio attraverso il battesimo, la confermazione e l’eucaristia. Vegliare è un atteggiamento permanente della Chiesa, che, pur consapevole della presenza viva del suo Signore, ne attende la venuta definitiva, quando la Pasqua si compirà nelle nozze eterne con lo Sposo e nel convito della vita (Ap 19, 7-9). La liturgia non è coreografia, né vuoto ricordo, ma presenza viva, nei segni, dell’evento cardine della salvezza: la morte-risurrezione del Signore. Si può dire che per la Chiesa che celebra è sempre Pasqua, ma la ricorrenza annuale ha un’intensità ineguagliabile, perché, come solenne memoriale (ebraico zikkaron), attualizza talmente l’evento da renderlo quasi presente, nel senso che partecipa ai partecipanti al rito i frutti della grazia pasquale. La successione dei simboli, di cui è intessuta la Veglia, esprime bene il senso della risurrezione di Cristo per la vita dell’uomo e del mondo.Le parti principali dell’Azione liturgica, velocemente.
Liturgia della luce Attraverso il simbolo della Luce, che è il Cristo risorto, il mondo della tenebra viene attraversato e illuminato gradualmente fino al suo massimo splendore, con l’accensione di tutte le luci della chiesa. In Cristo, si illumina il destino dell’uomo e la sua identità di imago Christi. Il cammino della storia si apre alla speranza di nuovi cieli e nuove terre.I catecumeni e i battezzati, che la tradizione chiama “illuminati”, per la loro adesione vitale a Cristo-Luce, sanno che la loro esistenza è radicalmente cambiata, perché, con “Cristo primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1, 18), passano “dalle tenebre alla luce ammirabile di Dio” (1Pt 2, 9), dischiudendosi davanti a loro un orizzonte di vita e libertà. Per tutti questi motivi, si innalza il “canto nuovo” (il preconio, il gloria, l’alleluia) come ricordo delle meraviglie operate dal Signore nella storia e come rendimento di grazie per una vita di Luce cristica. Liturgia della parola Le 7 letture dell’Antico Testamento sono un compendio della storia della salvezza. Già la quaresima aveva sottolineato che il battesimo è inserimento in questa grande “storia” attuata da Dio fin dalla creazione. Nella consapevolezza che la Pasqua di Cristo tutto adempie e ricapitola, la Chiesa medita ciò che Dio ha operato nella storia. Quella serie di eventi e di promesse vanno riletti come realtà che sempre si attuano nell’“oggi” della celebrazione; sono dono e mèta da perseguire continuamente.
Liturgia battesimale Il popolo chiamato da Dio a libertà deve passare attraverso un’acqua che distrugge e rigenera. Come Israele nel Mar Rosso, anche Gesù è passato attraverso il mare della morte e ne è uscito vittorioso. Nelle acque del battesimo è inghiottito il mondo del peccato e riemerge la creazione nuova. L’acqua, fecondata dallo Spirito, genera il nuovo popolo di Dio: un popolo di santi, un popolo profetico sacerdotale e regale. Con i nuovi battezzati, la Chiesa fa memoria del suo passaggio pasquale, e rinnova nelle “promesse battesimali” la propria fedeltà al dono ricevuto e agli impegni assunti in un continuo processo di rinnovamento, di conversione e di rinascita.
Liturgia eucaristica È il vertice di tutto il cammino quaresimale e della celebrazione vigiliare. Il popolo, rigenerato nel battesimo per la potenza dello Spirito, è ammesso al convito pasquale che corona la nuova condizione di libertà e riconciliazione. Partecipando al corpo e al sangue del Signore, la Chiesa offre sé stessa in sacrificio spirituale per essere sempre più inserita nella Pasqua di Cristo. Egli rimane per sempre con i battezzati nei segni, perché essi imparino a passare ogni giorno da morte a vita nella carità. Dentro la struttura e i simboli della celebrazione è possibile leggere il paradigma dell’esistenza cristiana nata dalla Pasqua: Luce, Parola, Acqua, Convito sono le realtà costitutive e i punti di riferimento essenziali della vita nuova. Uscito dal mondo tenebroso del peccato, il cristiano è chiamato a essere portatore di luce; a perseverare nell’ascolto di Cristo morto e risorto, Parola definitiva della storia; a vivere sotto la guida dello Spirito la vocazione battesimale; ad annunciare e a testimoniare nel dono di sé quel mistero di cui l’Eucaristia celebra il memoriale
Se il Natale è la festività che raccoglie la famiglia, riunisce i parenti lontani, che più fa sentire il calore di una casa, degli affetti familiari, condividendoli con chi è solo, nello struggente ricordo del Dio Bambino; la Pasqua invece è la festa della gioia, dell’esplosione della natura che rifiorisce in Primavera, ma soprattutto del sollievo, del gaudio che si prova, come dopo il passare di un dolore e di una mestizia che creava angoscia, perché per noi cristiani questa è la Pasqua, la dimostrazione reale che la Resurrezione di Gesù non era una vana promessa, di un uomo creduto un esaltato dai contemporanei o un Maestro (Rabbi) da un certo numero di persone, fra i quali i disorientati discepoli. La Risurrezione è la dimostrazione massima della divinità di Gesù, non uno dei numerosi miracoli fatti nel corso della sua vita pubblica, a beneficio di tante persone che credettero in Lui; questa volta è Gesù stesso, in prima persona che indica il valore della sofferenza, comune a tutti gli uomini, che trasfigurata dalla speranza, conduce alla Vita Eterna, per i meriti della Morte e Resurrezione di Cristo. La Pasqua è una forza, una energia d’amore immessa nel Creato, che viene posta come lievito nella vita degli uomini ed è una energia incredibile, perché alimenta e sorregge la nostra speranza di risorgere anche noi, perché le membra devono seguire la sorte del capo; ci dà la certezza della Redenzione, perché Cristo morendo ci ha liberati dai peccati, ma risorgendo ci ha restituito quei preziosi beni che avevamo perduto con la colpa.
Idea Progettazione articolo a cura di Marilena Marino Vocedivina,it
Il gesto che compie Gesù nei confronti dei discepoli durante
l’Ultima Cena, prima di essere condannato a morte, è
raccontato dal Vangelo di Giovanni ed era una caratteristica
dell’ospitalità nel mondo antico.
Ultima Cena - Capolavori
Con il Giovedì Santo si conclude la Quaresima, iniziata con il Mercoledì delle Ceneri, e con essa finisce anche il digiuno penitenziale. Con la messa vespertina “in Coena Domini” inizia il Triduo pasquale, ossia i tre giorni nei quali si commemora la Passione, Morte e Risurrezione di Gesù, che ha il suo fulcro nella solenne Veglia pasquale e si conclude con i secondi vespri della Domenica di Pasqua.
Dal punto di vista liturgico quella del Triduo è un unica celebrazione.
Nella Messa “in Coena Domini” non c’è congedo, ma l’assemblea si scioglie in silenzio;
il Venerdì Santo la celebrazione inizia nel silenzio, senza riti di introduzione, e termina senza benedizione e senza congedo, nel silenzio;
La Veglia Pasquale inizia con il lucernario, senza segno di croce e senza saluto; solo alla fine della Veglia si trova la benedizione finale e il congedo.
LA MESSA MATTUTINA DEL CRISMA
Il giorno del Giovedì Santo è riservato a due distinte celebrazioni liturgiche, al mattino nelle Cattedrali, il vescovo con una solenne cerimonia consacra il sacro crisma, cioè l’olio benedetto da utilizzare per tutto l’anno successivo per i Sacramenti del Battesimo, Cresima e Ordine Sacro e gli altri tre oli usati per il Battesimo, Unzione degli Infermi e per ungere i Catecumeni. A tale cerimonia partecipano i sacerdoti e i diaconi, che si radunano attorno al loro vescovo, quale visibile conferma della Chiesa e del sacerdozio fondato da Cristo; accingendosi a partecipare poi nelle singole chiese e parrocchie, con la liturgia propria, alla celebrazione delle ultime fasi della vita di Gesù con la Passione, Morte e Resurrezione.
LA MESSA VESPERTINA “IN COENA DOMINI”
Nel tardo pomeriggio in tutte le chiese c’è la celebrazione della Messa in “Coena Domini”, cioè la “Cena del Signore”. Si tratta dell’Ultima Cena – raffigurata da intere generazioni di artisti – che Gesù tenne insieme ai suoi apostoli prima dell’arresto e della condanna a morte.
Tutti e quattro i Vangeli riferiscono che Gesù, avvicinandosi la festa “degli Azzimi”, ossia la Pasqua ebraica, mandò alcuni discepoli a preparare la tavola per la rituale cena, in casa di un loro seguace. La Pasqua è la più solenne festa ebraica e viene celebrata con un preciso rituale, che rievoca le meraviglie compiute da Dio nella liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana (Esodo 12); e la sua celebrazione si protrae dal 14 al 21 del mese di Nisan (marzo-aprile).
In quella notte si consuma l’agnello, precedentemente sgozzato, durante un pasto (la cena pasquale) di cui è stabilito ogni gesto; in tale periodo è permesso mangiare solo pane senza lievito (in greco, “azymos”), da cui il termine “Azzimi”. Gesù con gli Apostoli non mangiarono solo secondo le tradizioni, ma il Maestro per l’ultima volta aveva con sé tutti i dodici discepoli da lui scelti e a loro fece un discorso dove s’intrecciano commiato, promessa e consacrazione.
LA LAVANDA DEI PIEDI SIMBOLO DI OSPITALITÀ
Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 13, racconta l’episodio della lavanda dei piedi. Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», e mentre il diavolo già aveva messo nel cuore di Giuda Iscariota, il proposito di tradirlo, Gesù si alzò da tavola, depose le vesti e preso un asciugatoio se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino e con un gesto inaudito, perché riservato agli schiavi ed ai servi, si mise a lavare i piedi degli Apostoli, asciugandoli poi con l’asciugatoio di cui era cinto.
Bisogna sottolineare che a quell’epoca si camminava a piedi su strade polverose e fangose, magari sporche di escrementi di animali, che rendevano i piedi, calzati da soli sandali, in condizioni immaginabili a fine giornata. La lavanda dei piedi era una caratteristica dell’ospitalità nel mondo antico, era un dovere dello schiavo verso il padrone, della moglie verso il marito, del figlio verso il padre e veniva effettuata con un catino apposito e con un “lention” (asciugatoio) che alla fine era divenuto una specie di divisa di chi serviva a tavola.
Quando fu il turno di Simon Pietro, questi si oppose al gesto di Gesù: “Signore tu lavi i piedi a me?” e Gesù rispose: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”; allora Pietro che non comprendeva il simbolismo e l’esempio di tale atto, insisté: “Non mi laverai mai i piedi”. Allora Gesù rispose di nuovo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” e allora Pietro con la sua solita impulsività rispose: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”. Questa lavanda è una delle più grandi lezioni che Gesù dà ai suoi discepoli, perché dovranno seguirlo sulla via della generosità totale nel donarsi, non solo verso le abituali figure, fino allora preminenti del padrone, del marito, del padre, ma anche verso tutti i fratelli nell’umanità, anche se considerati inferiori nei propri confronti.
L’ANNUNCIO DEL TRADIMENTO DA PARTE DI GIUDA
Dopo la lavanda Gesù si rivestì e tornò a sedere fra i dodici apostoli e instaurò con loro un colloquio di alta suggestione, accennando varie volte al tradimento che avverrà da parte di uno di loro, facendo scendere un velo di tristezza e incredulità in quel rituale convivio. “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”, dice Gesù. Parole alle quali gli apostoli reagiscono sgomenti e in varie tonalità gli domandano chi fosse, lo stesso Giovanni il discepolo prediletto, poggiandosi con il capo sul suo petto, in un gesto di confidenza, domandò: “Signore, chi è?”. E Gesù commosso rispose: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò” e intinto un boccone lo porse a Giuda Iscariota, dicendogli: “Quello che devi fare, fallo al più presto”; fra lo stupore dei presenti che continuarono a non capire, mentre Giuda, preso il boccone si alzò, ed uscì nell’oscurità della notte.
LA REPOSIZIONE DELL’EUCARISTIA E L’INIZIO DELLA PASSIONE
I riti liturgici del Giovedì Santo, giorno in cui la Chiesa celebra oltre l’istituzione dell’Eucaristia, anche quella dell’Ordine Sacro, ossia del sacerdozio cristiano, si concludono dopo la messa della Cena con la reposizione dell’Eucaristia in un cappella laterale delle chiese, addobbata a festa per ricordare l’istituzione del Sacramento; cappella che sarà meta di devozione e adorazione, per la rimanente sera e per tutto il giorno dopo, finché non iniziano i riti del pomeriggio del Venerdì Santo. Tutto il resto del tempio viene oscurato, in segno di dolore perché è iniziata la Passione di Gesù; le campane tacciono, l’altare diventa disadorno, il tabernacolo vuoto con la porticina aperta, i Crocifissi coperti.
La notte della Pasqua i cristiani la celebrano attorno alla mensa dell’agnello, mangiano il pane della vita e devono il calice della salvezza, nutriti quindi del corpo e del sangue di Cristo. Pane azzimo dell’ostia e calice del vino sono nel segno della continuità dell’eucarestia con il banchetto pasquale ebraico pur nella novità della presenza reale del Signore Gesù. Perciò la liturgia della Veglia pasquale canta così: “Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti del Cristo dall’oscurità del peccato e della corruzione del mondo, li consacra all’amore del padre e li unisce alla comunione dei santi.. Questa è la notte in cui Cristo , spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro.
Nel dialogo tra padre e figlio (Es.13,14) seduti intorno alla mensa del Pessach risuona una domanda : “ Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti ?” Perché si fa memoria della schiavitù di Egitto , ci si dispone a gustare il sapore della libertà bevendo alle quattro coppe della salvezza.
Quattro, come le tipologie di figli, e di benedizioni, identificate dal midrash e che rappresentano la varietà di posizioni raggiunta nel tempo dalle generazioni, alla quale il genitore deve adeguatamente rispondere: il saggio, il malvagio, il semplice, colui che non sa porre domande. Il figlio saggio, che non esclude se stesso dall’obbligo di eseguire i comandamenti di Dio e che riconosce le sue radici; il malvagio, che considera quei “riti” irrilevanti per lui, autoescludendosi dalla comunità (secondo l’Haggadah è l’unico non meritevole della liberazione dalla schiavitù, l’unico che sarebbe stato lasciato in Egitto); il semplice, il quale domanda “che significato ha tutto questo?”, merita una risposta altrettanto semplice, lineare, elementare sulle ragioni dell’Esodo; infine il figlio che non sa porre domande: è disinteressato, non ribelle, e quindi — a differenza del malvagio — secondo la Torah è meritevole lo stesso della ritrovata libertà anche solo per la semplice appartenenza (non rinnegata) al popolo ebraico.
La notte di Pessach è la notte che rivela le innumerevoli meraviglie di salvezza che l’altissimo ha operato: quattro, dalle quali derivano tutte le altre e tutte e quattro si sono compiute nella notte e nel buio del cuore, la luce è venuta a salvarci. Il racconto delle quattro notti è riferito nella tradizione ebraica in rapporto alla benedizione ( o qiddush) delle quattro coppe in un antico documento che ne parla ed è il TARGUM ONKELOS a Es. 12,42.”In realtà quattro notti sono scritte nel libro del memoriale. LA PRIMA NOTTE fu quando il Signore si manifestò nel mondo per crearlo: il mondo era deserto vuoto e la tenebra si estendeva sulla superficie nell’abisso ma il Verbo del Signore era la luce e illuminava. Ed egli la chiamò notte prima (QIDDUSH della prima coppa) .
LA SECONDA NOTTE fu quando il Signore si manifestò ad Abramo dell’età di cento anni,mentre Sara sua moglie ne aveva novanta,affinché si compisse ciò che dice la scrittura : certo Abramo genera all’età di cento anni e Sara partorisce all’età di novant’anni. Isacco aveva trentasette anni quando fu offerto sull’altare. I cieli si abbassarono e discesero e Isacco ne contemplò la perfezione e i suoi occhi rimasero abbagliati per le loro perfezioni. Ed egli la chiamò : notte seconda (QIDDUSH della seconda coppa). LA TERZA NOTTE fu quando il Signore si manifestò contro gli egiziani durante la notte : la sua mano uccideva i primogeniti di Egitto e la sua destra proteggeva i primogeniti di Israele per compiere la parola della Scrittura : Israele è il mio primogenito (Es. 4,22) Ed egli la chiamò : la notte terza ( QIDDUSH della terza coppa).
LA QUARTA NOTTE sarà quando il mondo giungerà alla sua fine per essere redento. Le sbarre di ferro saranno spezzate e le generazioni degli empi saranno distrutte.E Mosè salirà dal deserto e il Re dall’alto: e il Verbo camminerà in mezzo a loro ed essi cammineranno insieme., E’ la notte di Pasqua nel nome del Signore ,notte predestinata e preparata per la redenzione di tutti i figli d’Israele in ogni generazione (QIDDUSH della quarta coppa).”
Far memoria di queste quattro notti aiuta ad entrare intensamente nella notte di Pasqua, culmine e fonte della salvezza nostra e di tutte le creature che sono al mondo. Come quattro tappe esse scandiscono il cammino, teso a fare sempre più di noi , per tanti aspetti figli della notte, i figli della luce redenti dall’Amore.
Giovane Jewish mentre mangia una matzah e una matzah ball soup
Perché questa notte è diversa dalle altre? Perché non mangiamo pane lievitato ma solo pane azzimo non lievitato? E perché erba amara al posto delle normali verdure? Festa della libertà ritrovata (dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto), festa della primavera (Torah e Talmud collocano l’avvenimento nella stagione dal clima migliore), Pesach — la Pasqua ebraica — è anche festa dei bambini. Le loro domande, durante le due cene del Seder (rito che apre gli otto giorni di celebrazione), sono frutto dello stupore di trovarsi davanti una tavola apparecchiata in modo differente, dopo che l’intera famiglia, per giorni, ha eliminato scrupolosamente dalla casa ogni forma di alimento lievitato. Le risposte le troveranno nell’Haggadah, la raccolta di interpretazioni rabbiniche narranti gli eventi che hanno portato all’Esodo, dalle dieci piaghe d’Egitto all’apertura del Mar Rosso guidati da Mosè, dalla manna scesa dal cielo ai dieci comandamenti. È infatti quasi sempre il più giovane, generalmente un bambino, a recitare e cantare i brani più significativi.
CANTO DEI BAMBINI NELLA VEGLIA DI PASQUA - Melodia ebraica
Nishtanah (Cosa differenzia questa sera dalle altre sere?), il testo con le tradizionali “quattro domande”. In quel preciso “ordine” (traduzione italiana del termine Seder), in quella sequenza di atti di intensa partecipazione, i più giovani scoprono le origini, una parte essenziale della loro storia.
Pesach, “passare oltre”, come fece il Signore (Esodo, 12, 13) vedendo il sangue d’agnello su stipiti e architravi delle case dei figli d’Israele — era stato Dio stesso a dire a Mosè e ad Aronne di segnare le porte in questo modo — la notte in cui colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto. Ed è così che quel giorno, il quattordicesimo del mese di Nissan, è diventato per gli ebrei l’inizio, un “memoriale” (zikkaron), rito perenne da celebrare di generazione in generazione. Quest’anno, secondo il calendario ebraico, che è calcolato su base lunare, Pesach comincerà la sera del 27 marzo per concludersi il 4 aprile. La meticolosa preparazione al Seder è dunque già cominciata, preceduta dalla pulizia della casa, dalla quale deve scomparire qualsiasi residuo di lievito. Quella sera, la prima, sulla tavola imbandita compariranno piatti decorati dove non devono mancare — prodotti rigorosamente kasher — il pane non lievitato (matzot), a ricordare la precipitosa fuga dall’Egitto, un gambo di sedano, erba amara, il maror (i romani sono soliti mettere delle foglie di lattuga), a rappresentare la durezza della schiavitù, una zampa di capretto (a simboleggiare l’agnello sacrificato al posto dei primogeniti del popolo ebraico), un uovo sodo, per il lutto ma anche per la vita che ricomincia, il charoset, impasto che ricorda l’argilla per comporre i mattoni, e poi quattro bicchieri di vino.
Intorno alla tavola si riuniscono le famiglie, si invitano gli amici, anche gli ospiti di passaggio. Al termine, l’augurio “l’anno prossimo a Gerusalemme” con la speranza, anzi la certezza, di rivedersi al Pesach successivo. Dalla schiavitù alla libertà. Il testo dell’Haggadah è pieno di frasi che inducono a rinnovare questo passaggio. Una di esse si trova proprio all’inizio: «Chi ha fame venga e mangi, chi ha necessità venga e faccia Pesach (con noi)». La libertà, spiega il rabbino Giuseppe Momigliano su “Moked”, «non è un bene che si risolve nel privato, non ci autorizza a chiuderci in noi stessi; la celebrazione del Seder ci ricorda che libertà è anche “invitare a fare Pesach”, cioè condividere con chi è materialmente privo del necessario per la festa, e coinvolgere chi, per circostanze della vita, si trova in solitudine, fisica o esistenziale». Come l’arrivederci a Gerusalemme, Leshanà habbà beJerushalaim, che conclude la cerimonia, non è semplicemente un auspicio ma la promessa, il richiamo a una città, osserva ancora Momigliano, «luogo aperto e accessibile, di preghiera e di incontro per tutte le genti e per ogni fede».
L'ebraismo in breve spiegato ai bambini
Un breve video per aiutare anche i più piccoli ad incominciare a conoscere questa antica tradizione e a confrontarsi con culture diverse.
POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto e hai preparato la croce al tuo Salvatore
Riflessione (traccia) domenica delle Palme A
HÁGIOS O THEÓS.SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO? IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna, t’ho fatto entrare in terra feconda e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara e la mia sete hai spento con l’aceto, hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti, tu mi hai portato davanti al Sinedrio e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS. SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS. SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.
Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice
La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.
Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).
L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).
Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.
LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO
Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.
I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE
«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA
La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.
Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.
Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici
Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile. Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.
Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.
I molti nomi di Sukkot
I riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.
Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?
Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.
Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo
Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.
Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).
Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.
Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.
E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?
Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.
Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].
Cosa simboleggiano le quattro specie?
Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.
Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.
Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.
Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.
Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico
Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?
Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…
Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]
La Cena Pasquale in ebraico si chiama Seder di Pesach. Seder significa “ordine” in quanto si consuma secondo un ben preciso ordine rituale, che – in estrema sintesi – è il seguente: Kadesh – la Benedizione sul Vino, Karpas – “l’Antipasto”, Yachatz: si spezza la matzà. Si intingono le erbe, si prende l’uovo, si usa l’acqua salata e poi l’agnello: tutto ha un significato.
La Pasqua Ebraica si celebra al tramonto del 14^ giorno del mese di Nissan del calendario ebraico (luni-solare)
Pesach, la memoria della Pasqua ebraica tramandata a tavola
Ci dice il Vangelo: “Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua ebraica, i discepoli dissero a Gesù: dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?”. Tutti noi, quando si parla della cena pasquale, abbiamo in mente le bellissime opere d’arte che nei secoli l’hanno rappresentata, prima fra tutte l’Ultima Cena di Leonardo.
Gesù fece l’ultima cena non come viene comunemente raffigurata, tutti seduti attorno ad una tavola imbandita, con una tovaglia ben stirata, bicchieri e bottiglie di vetro e così via. Dobbiamo tenere presente infatti che Gesù ed i suoi discepoli erano dei girovaghi, l’equivalente di senza fissa dimora di oggi, che transitando a piedi nel deserto, si presentavano sporchi, polverosi ed accaldati. Venivano allora messi dei tappeti per terra ove si sedevano distesi sulla sinistra.
Secondo il rito ebraico infatti i commensali si adagiavano sul lato sinistro, per evidenziare il fatto che erano uomini liberi. Nei tempi antichi infatti, soltanto le persone libere potevano adagiarsi mentre mangiavano. Ma andiamo avanti con il Vangelo: “Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua. Seguitelo. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta: là preparate per noi”.I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro il Maestro e prepararono per la Pasqua”. Gesù viene così a trovarsi in mezzo alla fiera del bestiame, condotto a Gerusalemme dalle colline circostanti ed alle spezie portate dalle carovane fin dalla Mesopotamia.
I pellegrini che venivano ospitati da famiglie del luogo, consumavano nelle case la cena. Tutti gli altri per strada, nelle piazze od in campagna. Quando scendeva la sera, migliaia di agnelli venivano arrostiti nei cortili delle case, nelle vie, intorno alle tende. E mangiavano tutti insieme, ricchi e poveri, uomini e donne, servi e padroni. La Pasqua ebraica si chiama “Pesach”, che significa “passaggio” ed in Israele dura 7 giorni. Si celebra la notte in cui l’Angelo Sterminatore passò sull’Egitto, uccidendo tutti i suoi primogeniti, uomini e animali. Era la decima piaga, quella che dette il colpo di grazia all’ottusa chiusura del faraone e lo costrinse a lasciar andare gli ebrei per la loro strada. Era l’inizio della loro liberazione.
Scrive Renzo Infante (esperto in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico, con dottorato alla Pontificia Università Gregoriana) “Nei testi sulla Pasqua, Giuseppe Flavio sottolinea la dimensione di grande festa popolare, che radunava folle immense in Gerusalemme. Egli stimò che il numero dei giudei saliti a Gerusalemme per l’ultima Pasqua al tempo di Nerone fosse di circa 2.500.000”. La Pasqua ebraica non va però confusa con la Festa degli Azzimi (si festeggia infatti il giorno dopo), vuol essere un ricordo della fuga dall’Egitto, quando gli Ebrei furono costretti a scappare con urgenza e non ebbero così il tempo per lasciare lievitare il pane per il viaggio. Il pane azzimo infatti è un pane che non è stato fermentato ed al quale non è stato aggiunto lievito.
La Pasqua Ebraica si celebra al tramonto del 14^ giorno del mese di Nissan del calendario ebraico (luni-solare), dunque con l’arrivo del 15 di Nissan, come stabilito dalla Torah: “Nel primo mese, il giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete azzimi“. Ma qual’è il Mese di Nissan? Ce lo dice la Bibbia:“Sarà per voi il capo dei mesi, sarà il primo fra i mesi dell’anno”. La parola Nissan ha un’origine dal termine “Nes”, Miracolo, in quanto in tutto il mese si celebra l’evento più miracoloso della storia del popolo d’Israele: l’uscita dall’Egitto con la conseguente acquisizione della libertà assoluta. Il mese di Nissan è definito dalla tradizione talmudica il mese della redenzione, in quanto, come il popolo di Israele è stato redento dalla schiavitù in Egitto al tempo di Mosè, così sarà redenta l’intera Umanità durante questo mese. Comunemente cade nei mesi di marzo-aprile ed è a data variabile.
La Cena Pasquale in ebraico si chiama Seder di Pesach. Seder significa “ordine” in quanto si consuma secondo un ben preciso ordine rituale, che – in estrema sintesi – è il seguente:
Si inizia con Kadesh – la Benedizione sul Vino. I quattro bicchieri di vino che si bevono durante il Seder, secondo il Talmud, sono il simbolo delle seguenti quattro promesse di riscatto date da Yahvè (Dio) a Mosè: vehotzetì – vi sottrarrò dalle tribolazioni dell’Egitto; vehitzaltì – vi salverò dal loro servaggio; vegaaltì – vi libererò con braccio disteso; velakachtì – vi prenderò quale Popolo, a Me. Si usa il vino perché è simbolo di gioia e di felicità. Dopo Kadesh vi è Urchatz, il Lavaggio Rituale delle mani. Si lavano le mani, versando acqua tre volte sulla mano destra e poi tre volte sulla mano sinistra. Questo è uno dei primi atti che vengono compiuti, anche allo scopo di attirare la curiosità dei bambini presenti.
Segue Karpas: “l’Antipasto”. Si intinge un piccolo pezzo di cipolla, patata o sedano nell’acqua salata e prima di mangiarlo si recita la benedizione sulle verdure. L’acqua salata rappresenta le lacrime amare degli antenati ebrei in Egitto.
C’è poi Yachatz: si spezza la matzà (il pane azzimo) in due, in ricordo di quando Yahvè divise in due il Mar Rosso, per consentire ai Figli di Israele di attraversarlo all’asciutto. A questo punto, venivano invitati i poveri ad unirsi al Seder.
Durante il pasto Pasquale si prendono le erbe amare e si intingono nel charoset, pasta di colore scuro fatto di frutta e noci, che ricorda l’argilla fatta dagli ebrei in Egitto, per la fabbricazione di mattoni. Le erbe amare ricordano l’amarezza della schiavitù in Egitto. E si mangia, a seguire, un uovo sodo intinto nell’acqua salata. L’uovo sodo, non avendo spigoli, evidenzia che non c’è né un inizio, né una fine. E’ quindi il simbolo dell’eternità della vita. E poi c’e’ l’agnello pasquale, che va mangiato in ricordo di quanto avvenne alla vigilia della fuga dall’Egitto: “Ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne”.
Ci sono poi le benedizioni, gli inni e le lodi , nella certezza che il Seder sia ben accetto dall’Onnipotente. Il seder finisce, per gli ebrei della diaspora, in esilio, dicendo: “Leshanà habaà biYrushalayim” tradotto: “L’anno prossimo a Gerusalemme!”
Benedizione del pasto
Benedetto Colui dei cui beni abbiamo mangiato e per la cui grande bontà viviamo!
Adattamento della traduzione di Dante Lattes
realizzata da David Pacifici
testo ebraico
(chi benedice)
Maestri! Signori! Benediciamo Colui dei cui beni abbiamo mangiato!
(i presenti)
Benedetto Colui dei cui beni abbiamo mangiato e per la cui grande bontà viviamo!
(chi benedice)
Benedetto sii Tu, Eterno, Dio nostro, Re del mondo, Colui che alimenta tutto l’universo: con la Sua bontà, con grazia, con pietà e con misericordia dà cibo ad ogni creatura, poiché la Sua pietà è infinita. Per la Sua grande bontà non ci mancò mai né mai ci mancherà alimento, per virtù del Suo Nome grande, poiché Egli alimenta, nutre e benefica tutti e procura il cibo per tutte le Sue creature che Egli creò. Benedetto sii Tu, o Eterno, che dai alimento a tutto il creato.
Ti ringraziamo, o Eterno Dio nostro, perché concedesti ai nostri padri una terra attraente, feconda e spaziosa, perché ci traesti, o Eterno, dalla terra d’Egitto e ci liberasti dal luogo della schiavitù; per il Tuo patto che suggellasti nella nostra carne, per la tua Torà che ci insegnasti, per le Tue norme che ci rendesti note, per la vita, per l’amore, per la pietà che ci accordasti, per il cibo con cui Tu ci alimenti e ci nutri, di continuo, ogni giorno, in ogni stagione, in ogni ora.
Per tutte queste cose, o Eterno, Dio nostro, noi Ti rendiamo grazie e Ti benediciamo, sia benedetto il Nome Tuo dalla bocca di ogni essere vivente, ogni giorno, in perpetuo, come è scritto nella Torà: “Mangerai e ti sazierai e benedirai l’Eterno tuo Dio per il bel paese che ti ha dato”. Benedetto sii Tu, o Eterno, per la terra e per il cibo.
Abbi pietà, o Eterno, Dio nostro, d’Israel tuo popolo, di Jerushalaim tua città, del monte Sion che è sede della Tua maestà, del regno del casato di David Tuo Mashiah, della grande e sacra Casa dedicata al Tuo Nome! Dio nostro, Padre nostro, sii Tu il nostro pastore, sii Tu a darci il cibo, a porgerci il nutrimento, a fornirci l’alimento, a provvedere ai nostri bisogni. Liberaci presto, o Eterno, Dio nostro, da tutte le nostre ansie. Fa che non abbiamo bisogno, o Eterno, Dio nostro, né dei doni degli esseri mortali né dei loro prestiti, ma soltanto della Tua mano piena, aperta, santa e generosa sì che non abbiamo mai a vergognarci né a rimanere mortificati.
Se è sabato si dice: Fa, o Eterno, Dio nostro, che attingiamo un senso di vigore e di pace dall’adempimento dei Tuoi precetti e dall’osservanza del settimo giorno, di questo Sabato grande e sacro, poiché esso è per Te giorno grande e sacro, destinato alla cessazione del lavoro ed al riposo, con sentimento di amore, secondo il comandamento della Tua volontà. Concedi noi, o Eterno, Dio nostro, il sereno riposo che Tu desideri in modo che la sventura, il dolore e l’ansia non turbino il nostro giorno di pace. Concedi a noi di vedere Sion, la Tua città, riconfortata, e Jerushalaim, Tua santa città, ricostruita poiché Tu sei il Signore della salvezza, il Signore della consolazione.
Ricostruisci Jerushalaim, città santa, presto ai giorni nostri.
Benedetto sii Tu, o Eterno, che con un atto di pietà ricostruisci Jerushalaim. Così sia.
Benedetto sii Tu, o Eterno, Dio nostro, Re del mondo; Tu che sei l’unico Dio, il padre nostro, il nostro Re, il nostro onnipotente Signore, il nostro creatore, il nostro redentore, il nostro autore, il nostro santo, il santo di Giacobbe, il nostro pastore, il pastore di Israel, il Re buono e benefico verso ogni essere,Colui che quotidianamente ci ha dimostrato, ci dimostra e ci dimostrerà la Sua benevolenza, che ci ha colmato, ci colma e ci colmerà sempre di grazia, di amore, di pietà, di sollievo, di salvezza, di prosperità, di benedizione, di salute, di conforto, di nutrimento, di alimento, di pietà, di vita, di pace e di ogni bene. Egli non ci privi d’alcun bene.
Il Misericordioso regni sopra di noi in perpetuo.
Il Misericordioso Sia benedetto in cielo ed in terra.
Il Misericordioso
Altra Benedizione cibo testo ebraico
Ti ringraziamo, o Eterno Dio nostro, perché concedesti ai nostri padri una terra attraente, feconda e spaziosa, perché ci traesti, o Eterno, dalla terra d’Egitto e ci liberasti dal luogo della schiavitù; per il Tuo patto che suggellasti nella nostra carne, per la tua Torà che ci insegnasti, per le Tue norme che ci rendesti note, per la vita, per l’amore, per la pietà che ci accordasti, per il cibo con cui Tu ci alimenti e ci nutri, di continuo, ogni giorno, in ogni stagione, in ogni ora.
Per tutte queste cose, o Eterno, Dio nostro, noi Ti rendiamo grazie e Ti benediciamo, sia benedetto il Nome Tuo dalla bocca di ogni essere vivente, ogni giorno, in perpetuo, come è scritto nella Torà: “Mangerai e ti sazierai e benedirai l’Eterno tuo Dio per il bel paese che ti ha dato”. Benedetto sii Tu, o Eterno, per la terra e per il cibo.
Abbi pietà, o Eterno, Dio nostro, d’Israel tuo popolo, di Jerushalaim tua città, del monte Sion che è sede della Tua maestà, del regno del casato di David Tuo Mashiah, della grande e sacra Casa dedicata al Tuo Nome! Dio nostro, Padre nostro, sii Tu il nostro pastore, sii Tu a darci il cibo, a porgerci il nutrimento, a fornirci l’alimento, a provvedere ai nostri bisogni. Liberaci presto, o Eterno, Dio nostro, da tutte le nostre ansie. Fa che non abbiamo bisogno, o Eterno, Dio nostro, né dei doni degli esseri mortali né dei loro prestiti, ma soltanto della Tua mano piena, aperta, santa e generosa sì che non abbiamo mai a vergognarci né a rimanere mortificati.
Fa, o Eterno, Dio nostro, che attingiamo un senso di vigore e di pace dall’adempimento dei Tuoi precetti e dall’osservanza del settimo giorno, di questo Sabato grande e sacro, poiché esso è per Te giorno grande e sacro, destinato alla cessazione del lavoro ed al riposo, con sentimento di amore, secondo il comandamento della Tua volontà. Concedi noi, o Eterno, Dio nostro, il sereno riposo che Tu desideri in modo che la sventura, il dolore e l’ansia non turbino il nostro giorno di pace. Concedi a noi di vedere Sion, la Tua città, riconfortata, e Jerushalaim, Tua santa città, ricostruita poiché Tu sei il Signore della salvezza, il Signore della consolazione.
Ricostruisci Jerushalaim, città santa, presto ai giorni nostri.
Benedetto sii Tu, o Eterno, che con un atto di pietà ricostruisci Jerushalaim. Così sia.
Benedetto sii Tu, o Eterno, Dio nostro, Re del mondo; Tu che sei l’unico Dio, il padre nostro, il nostro Re, il nostro onnipotente Signore, il nostro creatore, il nostro redentore, il nostro autore, il nostro santo, il santo di Giacobbe, il nostro pastore, il pastore di Israel, il Re buono e benefico verso ogni essere, Colui che quotidianamente ci ha dimostrato, ci dimostra e ci dimostrerà la Sua benevolenza, che ci ha colmato, ci colma e ci colmerà sempre di grazia, di amore, di pietà, di sollievo, di salvezza, di prosperità, di benedizione, di salute, di conforto, di nutrimento, di alimento, di pietà, di vita, di pace e di ogni bene. Egli non ci privi d’alcun bene.
Il Misericordioso regni sopra di noi in perpetuo.
Il Misericordioso Sia benedetto in cielo ed in terra.
Il Misericordioso sia lodato in tutte le generazioni e sia glorificato in noi per l’eternità e sia esaltato in noi, sempre, in perpetuo.
Il Misericordioso ci alimenti con decoro.
Il Misericordioso spezzi il giogo che ci sta sul collo e ci riconduca a fronte alta, alla nostra terra.
Il Misericordioso mandi una copiosa benedizione in questa casa e su questa mensa, alla quale abbiamo mangiato.
Il Misericordioso ci mandi il profeta Elia, ricordato in bene, ad annunciarci con gioia redenzioni e consolazioni.
Il Misericordioso benedica il (mio padre e mio maestro) padrone di questa casa e la (mia madre e mia maestra) padrona di questa casa; li benedica insieme con la loro famiglia, con i loro figli e con tutto ciò che essi hanno; benedica noi e tutto ciò che abbiamo; nello stesso modo in cui furono benedetti i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe, in ogni loro opera, da ogni parte
Per concludere ricordiamo che Il rito del pane e del vino è di antichissima tradizione ebraica ed è interessante evidenziare che si seguiva in particolare tutti i giorni nella Comunità degli Esseni di Qumran. Era infatti previsto che in ogni gruppo di 10 uomini vi fosse almeno un Sacerdote fra di loro e che quando si riunivano a cena si disponessero a tavola secondo la scala gerarchica.
A tavola veniva servito sia del pane che del vino. Il primo a toccarli doveva essere il Sacerdote, che li benediceva. E così si legge nei rotoli trovati nel Mar Morto: “E allorché disporranno la tavola per mangiare il pane o il vino per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano, per benedirli”. Scrive a questo proposito David Flusser: “C’è qualche influenza essena sulla Messa cristiana e sull’Eucaristia, se si guarda alla somiglianza di ordine e significato tra il pasto esseno e l’Eucaristia cristiana, con successione di pane e vino”.
David Flusser (1917 – 2000) è stato professore di Cristianesimo Primitivo e Giudaismo del Secondo Tempio, alla Hebrew University di Gerusalemme. E’ unanimamente considerato il massimo esperto mondiale in materia. Ma va sottolineato, infine, che anche Melchisedec, re di Salem (si ritiene Gerusalemme), offrì “pane e vino”, come fece Gesù nell’ultima cena. Recitano infatti così le Sacre Scritture: “Quando Abramo fu di ritorno, dopo la vittoria su Chedorlaomer e dei re che erano con lui, il re di Sodoma gli uscì incontro nella Valle di Save, cioè la Valle del re. Intanto Melchisedec, Re di Salem offrì pane e vino”.
Il piatto del Seder di Pesach (in ebraico: קערה? , ke’ara) è un piatto di specifica fattura contenente cibi simbolici che vengono consumati o solamente mostrati durante questa celebrazione. Lo scopo del piatto è quello di tramandare e valorizzare le tradizioni del popolo ebraico attraverso il cibo. Il piatto è progettato per esprimere l’unicità della celebrazione pasquale. Un altro possibile scopo è quello di tenere gli ingredienti vicini tra loro, pronti per la notte del Seder di Pesach.
I cibi simbolici
Ciascuno dei sei elementi disposti sul piatto ha un significato specifico allo scopo di ripercorrere, attraverso il pasto rituale, la storia della Pasqua ebraica e dell’esodo dall’Egitto. I tre matzos, corrispondenti al settimo elemento simbolico, non sono considerati una vera e propria parte del piatto del Seder di Pesach. I sei elementi tradizionali del piatto del Seder di Pesach sono:
Maror e Chazeret
Maror e Chazeret – Questi termini ebraici si riferiscono a erbe amare, che simboleggiano appunto la durezza e l’amarezza della schiavitù sofferta dagli ebrei in Egitto. Nella tradizione ebraica ashkenazita l’indivia, la lattuga romana fresca (entrambe rappresentanti la durezza delle invasioni romane) o il rafano possono essere consumate come Maror, per obbedire al comandamento di mangiare erbe amare durante il Seder di Pesach. Il termine Chazeret corrisponde ad altre erbe amare, tra le quali di solito figura sempre la lattuga romana, utilizzata nella preparazione del korech, un “panino” pasquale .
Charoset
Charoset – Una miscela dolce di colore marrone che rappresenta la malta e i mattoni usati dagli schiavi ebrei per costruire i granai o le piramidi d’Egitto. Nelle case degli ebreiashkenaziti, il Charoset viene tradizionalmente preparato con noci tritate, mele grattugiate, cannella e vino rosso dolce.
Karpas
Karpas – Il termine si riferisce a tipi di verdure diverse dalle erbe amare. Queste hanno lo scopo di rappresentare speranza e rinnovamento. La verdura scelta viene immersa in acqua salata all’inizio della celebrazione. Di solito vengono utilizzati prezzemolo o altre verdure di colore verde.[1] Alcuni sostituiscono il prezzemolo con cipollotto tritato (a rappresentare l’amarezza della schiavitù in Egitto) o con patate (che rappresentano la dura condizione patita dagli ebrei nei ghetti nella Germania nazista e in altri paesi europei). Le gocce che cadono dopo aver immerso le verdure nell’acqua salata sono una rappresentazione visiva delle lacrime, un ricordo simbolico del dolore provato dagli schiavi ebrei in Egitto. Di solito, in uno Shabbat o un pasto festivo, durante la celebrazione del kiddush, la prima cosa da mangiare dopo aver bevuto il vino è il pane. Durante il Seder di Pesach, invece, la prima cosa consumata dopo il kiddush è una verdura. Segue immediatamente la famosa domanda, Ma Nishtana: “Perché questa notte è diversa da tutte le altre?”
L’elemento del Karpas simboleggia anche la primavera, dato che gli ebrei celebrano la Pasqua in questa stagione.
Zeroah
Zeroah – (traslitterato Z’roa) solitamente uno stinco d’agnello arrostito. È un pezzo particolare, in quanto unico elemento di carne del piatto. Rappresenta il “Korban Pesach” (o sacrificio pasquale) di un agnello il cui sangue fu “spruzzato” dagli israeliti schiavi in Egitto sulle porte delle proprie case, in modo che Dio “passasse oltre” quelle abitazioni durante la decima piaga.[2]
Beitzah
Beitzah – Un uovo bollito, a simboleggiare il korban chagigah (il sacrificio festivo) che veniva offerto al tempio di Gerusalemme, viene poi arrostito al forno e consumato come parte del pasto del Seder. Sebbene sia il sacrificio di Pesach che quello del chagigah fossero in origine di carne, oggi per il chagigah si utilizza un uovo, simbolo del lutto (le uova sono tradizionalmente la prima pietanza servita dopo un funerale ebraico), richiamando il sentimento di dolore per la distruzione del Tempio di Gerusalemme e la conseguente impossibilità di offrire proprio lì i sacrifici ordinati nei testi sacri in occasione della Pasqua. L’uso dell’uovo nel Seder di Pesach viene attestato per la prima volta in un commento del rabbino Moses Isserles riportato nel Shulchan Aruch, testo normativo ebraico del XVI secolo, ma il periodo preciso in cui iniziò tale usanza è sconosciuto.[3] L’uovo non viene comunque utilizzato durante la parte cerimoniale “ufficiale” del Seder. Alcuni ne mangiano uno sodo immerso in acqua salata o aceto come antipasto. L’uovo è anche il simbolo del cerchio della vita: nascita, riproduzione e morte.
Piatto del Seder di Pesach
Molti dei piatti decorativi e artistici del Seder di Pesach, venduti nei negozi d’arte cerimoniale ebraica, possiedono già gli spazi separati per la suddivisione delle varie pietanze simboliche.
Tavola apparecchiata per il Seder con sopra: il tipico piatto del Seder di Pesach, acqua salata; matza; del vino kosher e una copia del testo Haggadah per ciascuno degli ospiti.
I Tre Matzot
Il sesto elemento simbolico sul tavolo Seder di Pesach è un altro piatto contenente tre matzot interi, impilati e separati l’uno dall’altro da tovaglioli. Il matzah centrale viene spezzato e una metà viene messa da parte per essere consumato successivamente come afikoman. La parte superiore e l’altra metà del matzot centrale vengono poi utilizzate per l’hamotzi (la benedizione del pane), e il matzah inferiore viene successivamente utilizzato per la preparazione del korech (“panino” di Hillel).
Acqua salata
L’acqua salata non fa tradizionalmente parte del Piatto del Seder, ma viene comunque posta sul tavolo in un recipiente a sé. Tuttavia, viene a volte utilizzata come uno dei sei elementi tradizionali al posto del chazeret. L’acqua salata sta a rappresentare le lacrime degli israeliti ridotti in schiavitù.
Varianti
Piatto del Seder con un’arancia.
Aceto – Gli ebrei tedeschi e persiani includono tradizionalmente l’aceto per il piatto del Seder, accanto all’elemento fondamentale del karpas . Il karpas viene dunque immerso in aceto e non in acqua salata.
Olive – Ad alcuni piatti seder viene aggiunta un’oliva per esprimere solidarietà ai palestinesi. Nel 2008, il Jewish Voice for Peace lanciò un appello per aggiungere un’oliva in ricordo delle piante d’ulivo sradicate in Palestina. L’aggiunta di questo elemento al piatto come appello alla pace tra Israele e Palestina è ben vista da alcuni ebrei.
Arancio – Alcuni ebrei includono nel piatto un’arancia. L’arancia è simbolo di fertilità e fruttuosità. La sua presenza nel piatto sta a rappresentare il concetto che tutti gli ebrei, incluse alcune categorie particolarmente emarginate.
La colazione di Pasqua: origini, tradizioni e pietanze
La tradizione della colazione di Pasqua nella cultura italiana
La tradizionalissima “colazione di Pasqua”. Si tratta, infatti, di una ricchissima colazione che vede l’unione di dolce e salato. Questa ha origini antiche ed è una tradizione ancora rispettata.
La colazione di Pasqua
La colazione di Pasqua è una tradizione antica che assume caratteristiche e forme diverse in base al territorio in cui ci troviamo. Nelle tradizioni locali ogni colazione possiede le sue peculiarità
Alcuni prodotti hanno un alto valore simbolico, sono un segno che si lega alla tradizione cristiana. La Pasqua nel calendario liturgico cade sempre a Primavera, quando la natura si sta risvegliando in tutto il suo vigore, diventando segno di rinascita. L’Uovo è l’ingrediente per eccellenza.
Fin dall’antichità aveva un forte valore simbolico (l’uovo cosmico, legato ai miti della creazione del mondo e dell’Universo), nella tradizione cristiana è il segno della Resurrezione. Il suo guscio rappresenta il sepolcro, da cui Cristo resusciterà, l’interno dell’uovo è segno di forza, di potenza, della nuova vita. Nel Medioevo nasce la tradizione di regalarsi le uova (vere), mentre la tradizione golosa dell’uovo di cioccolato è molto recente, a partire dal XIX secolo.
Poi abbiamo il Pane, Il chicco di grano se non muore non genera frutto. Evidente quindi il richiamo alla morte e resurrezione. E’ il simbolo dell’Eucaristia, il pane spezzato dell’Ultima Cena. Per il pane abbiamo molte varianti sia per cottura, sia per eventuali ingredienti aggiunti nella lievitazione o nella forma. Così da avere prodotti unici nel gusto e nell’aspetto, da essere tramandati fino ai giorni nostri.
La grande varietà di ricette locali ci porta a trovare lo stesso prodotto realizzato dolce o salato, alto o basso, con ingredienti in più o in meno, e questa diversità la si può riscontrare anche tra località limitrofe.
Nelle tradizioni locali, riscopriamo la storia, i simboli e la passione tramandata da famiglia a famiglia. Un identità unica, tutta da scoprire attraverso i luoghi e i sapori.
Il tavolo è apparecchiato e decorato a tema pasquale, con posate e piatti utilizzati per l’occasione. Su questo le portate sono miste: si passa dal dolce al salato e dal salato al dolce. Ma perché si fa la colazione e non il pranzo? La motivazione, molto antica, deriva dalla necessità di mangiare molto per celebrare la fine del digiuno compiuto durante la quaresima. E cosa si mangia esattamente? I piatti che si possono trovare sulla tavola di una colazione di pasqua variano da un tipico salame denominato corallina, le uova sode , i formaggi, le torte salate, ma anche quelle dolci. E ancora la frittata con asparagiselvatici, il latte, il the e il caffe. Per i più tradizionalisti non può mancare la coratella, ovvero interiora di abbacchio, accompagnata dai carciofi, e l’agnello. E per concludere non può non esserci la colomba e l’uovo di cioccolato.
Idea Progettazione Articolo di Marilena Marino Vocedivina.it