"Gridatelo dai tetti...."

POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO?
IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Io t’ho guidato fuori dall’Egitto
e hai preparato la croce al tuo Salvatore

Riflessione (traccia) domenica delle Palme A

HÁGIOS O THEÓS. SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS.
SANCTUS FORTIS. HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS.
SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.POPOLO MIO, CHE MALE TI HO FATTO?
IN CHE T’HO CONTRISTATO? RISPONDIMI. Per quarant’anni nel deserto
io t’ho condotto e sfamato donandoti la manna,
t’ho fatto entrare in terra feconda
e hai preparato la croce al tuo Redentore. Io t’ho piantato con amore
come scelta e florida vigna e ti sei fatta amara
e la mia sete hai spento con l’aceto,
hai trafitto con una lancia il tuo Salvatore. Per te ho spiegato il mio braccio
e ho percosso l’Egitto nei suoi primogeniti,
tu mi hai portato davanti al Sinedrio
e hai consegnato ai flagelli il tuo Redentore. HÁGIOS O THEÓS.
SANCTUS DEUS.HÁGIOS ISCHYRÓS.
SANCTUS FORTIS.HÁGIOS ATHÁNATOS, ELEISON HYMÁS.
SANCTUS IMMORTALIS, MISERERE NOBIS.

Con questa festa si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù accolto dalla folla che lo acclama come re agitando fronde e rami presi dai campi. Una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli salivano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice

La Domenica delle Palme ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per andare incontro alla morte, inizia la Settimana Santa durante la quale si rievocano gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo e vengono celebrate la sua Passione, Morte e Risurrezione.

Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti e quattro i Vangeli, ma con alcune varianti: quelli di Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non ne fa menzione mentre solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).

L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo).

Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.

LA SCELTA DELL’ASINA AL POSTO DEL CAVALLO

Gesù, quindi, fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo.

I Vangeli narrano che Gesù arrivato con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito. Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma».
I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme.
Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».

LA LITURGIA CON LA LETTURA DELLA PASSIONE

«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!».

La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli si radunano e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli, quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa. Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di San Giovanni.

Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.

Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.

LA DATA È MOBILE E LEGATA ALLA PASQUA

La Domenica delle Palme è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti, e cade durante la Quaresima, che termina il Giovedì Santo, primo giorno del cosiddetto “Triduo Pasquale”.

Questa festa non cade sempre nello stesso giorno perché è legata direttamente alla Pasqua, la cui data cambia ogni anno. La festa è mobile e viene fissata in base alla prima luna piena successiva all’equinozio di primavera del 21 marzo. La data della Pasqua per i cattolici oscilla quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Se, per esempio, la luna piena si verifica un sabato 21 marzo, la Pasqua cade il 22 marzo, ovvero la domenica immediatamente successiva all’equinozio.

Per gli ortodossi la data oscilla tra il 4 aprile e l’8 maggio perché utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano come i protestanti e i cattolici

Sukkot fa parte dei shalosh regalim, le tre feste di pellegrinaggio per le quali la Bibbia stabilisce che si debba rendere grazie a Dio recandosi a Gerusalemme con il frutto del proprio raccolto. A partire da Levitico, 23,33, leggiamo:

“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle capanne, durerà sette giorni, in onore del Signore. E sempre il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto il frutto della terra, osserverete una festa per la durata di sette giorni. Il primo giorno e l’ottavo giorno saranno come Shabbat; non farete alcuna opera servile.  Il primo giorno vi procurerete il frutto dell’albero maestoso, i rami della palma, le fronde degli alberi rigogliosi, i salici di riviera… dimorerete in capanne per sette giorni…così che la vostra generazione possa sapere che ho fatto dimorare i figli d’Israele in capanne quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”.

Questo testo su Sukkot, in maniera affascinante, fornisce due ragioni per la sua celebrazione: una agricola, con i festeggiamenti per il raccolto, e una teologica, che vuole ricordarci la nostra dipendenza da Dio durante (e dopo) l’esodo dall’Egitto.

I molti nomi di Sukkot

riferimenti biblici su Sukkot sono effettivamente molteplici e di diverso tipo. Il libro dell’Esodo la chiama ripetutamente Hag haAsif, “la festa del raccolto”; Levitico e il Deuteronomio la chiamano Hag haSukkot, “la festa delle capanne”; nel Libro dei Re, nelle Cronache e in Ezechiele è chiamata semplicemente HeHag, “LA festa”; e nel Levitico, nel testo sopracitato è chiamata Hag Adonai, “la festa di Dio”. Le prime due denominazioni hanno chiaramente un’origine agricola: si riferiscono alle attività del raccolto e del dimorare in piccole capanne nei campi durante la stagione della mietitura e delle nascite del bestiame. La terza e la quarta sono invece più teologiche e specifiche per il popolo ebraico. Per la tradizione rabbinica Sukkot rimane HeHag, la festa per eccellenza. E c’è ancora un altro nome, sempre derivante dal già citato brano del Levitico: Zman Simchatenu, “Il tempo della nostra gioia”.

Perché gioire? Per l’abbondanza dell’autunno, prima che arrivino gli stenti dell’inverno? Perché mentre lavoriamo e viviamo nei campi non siamo solo in balia della vulnerabilità, ma siamo anche forti della protezione di Dio?

Nel Talmud (Sukkà 11b) c’è un dibattito: Rabbi Eliezer e Rabbi Akiva cercano di capire il versetto “Così che la tua generazione sappia che ho fatto dimorare i Figli d’Israele in capanne [sukkot] quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto…”. Rabbi Akiva interpreta “capanne” in senso fisico, materiale, mentre Rabbi Eliezer le ritiene una metafora: le capanne sono le nubi di gloria che discendono da Dio per proteggere gli Israeliti erranti nel deserto. Seguendo il pensiero di Rabbi Eliezer, potremmo dire che la clemenza di Dio ci protegge, e in particolare, inserendo Sukkot nel contesto delle feste ebraiche autunnali, potremmo affermare che queste nubi continuano a nascondere il nostro peccare, concedendoci ancora più tempo per pentirci e fare ritorno a un Dio misericordioso. Alla luce della tradizione secondo cui ognuno può continuare il lavoro di introspezione di Rosh HaShanà e Yom Kippur fino a Hoshanah Rabbah, l’ultimo giorno di Sukkot, questa interpretazione metaforica della sukkà rappresenta una concessione di “tempi supplementari” da parte di un Dio paziente e misericordioso che attende di offrirci la sua protezione; sicuramente qualcosa per cui dovremmo gioire.

Le quattro specie e la storia di come il cedro prese il posto dell’ulivo

Il brano del Levitico, oltre a definire le ragioni agricole, teologiche e nazionali per questa festa, e comandarci di gioire di fronte a Dio (nessun’altra festività prevede questo comandamento), ci dice di procurarci quattro piante diverse, delle quali solo due – la palma e il salice di riviera – sono definite con chiarezza. Le altre – il frutto dell’albero maestoso e le fronde degli alberi rigogliosi – richiedono un’interpretazione.

Il Libro di Neemia descrive un fatto accaduto a Rosh HaShanà all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Racconta che tutti si radunarono, come una sola persona, nel grande spazio che stava di fronte alla Porta delle Acque di Gerusalemme; e che chiesero a Ezra lo scriba di portare il libro della Legge di Mosè, che Dio aveva dato a Israele. Più avanti nello stesso capitolo leggiamo: “Ecco che trovarono scritto nella Legge come l’Eterno avesse comandato ai Figli d’Israele di dimorare in capanne per la festa del settimo mese; e di annunciarlo in ogni città, e a Gerusalemme, proclamando: “Andate alla montagna, e prendete rami d’ulivo, d’ulivo selvatico, di mirto, di palma e di alberi frondosi per fare le capanne, così come è scritto”. Così tutti andarono e tornarono coi rami, e con essi si costruirono delle capanne, ognuno sopra il tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, nel grande spazio presso la Porta delle Acque e nel grande spazio presso la porta di Efraim. E tutta la comunità tornata dall’esilio fece capanne e in esse dimorò; poiché era dai giorni di Giosuè figlio di Nun che i Figli di Israele non avevano fatto ciò. E ci fu grandissima gioia” (Neemia 8: 14-17).

Questa è chiaramente una descrizione di Sukkot, tuttavia non c’è il cedro; ci sono i rami d’olivo e d’olivo selvatico, e l’albero frondoso è indicato come il mirto. Inoltre – differentemente dal brano del Levitico – non c’è riferimento a che si debba mettere insieme le quattro specie per eseguire un qualche rituale. Per i contemporanei di Neemia è evidente che questi rami servono per costruire le capanne, e a ciò rimanda anche una discussione talmudica (Talmud Babilonese, Sukkà 36b – 37a) in cui Rabbi Meir dice che una sukkà può essere costruita con qualsiasi materiale, mentre Rabbi Judah, basandosi sulla descrizione del Libro di Neemia, sostiene che può essere costruita solo col legno delle quattro specie.

Sembrerebbe anche che il frutto dell’albero maestoso debba essere, di diritto, l’oliva. Le olive erano e rimangono un prodotto primario nell’agricoltura della regione, l’olio è usato sia come cibo, sia come combustibile per la luce, come medicina e per i rituali religiosi. Il raccolto delle olive cade inoltre proprio in questo periodo. Considerando il versetto di Geremia 11:16 – “L’Eterno ti aveva dato il nome di ulivo verdeggiante, bello e con splendidi frutti”, pare chiaro che “il frutto dell’albero maestoso” dovrebbe essere l’oliva.

E invece, abbiamo questo frutto ambiguo, il cedro (etrog). Perché?

Il primo riferimento testuale è probabilmente quello del Targum Onkelos del I-II secolo e.v., la prima traduzione della Bibbia in aramaico, che tende anche a interpretare il testo e che chiaramente scrive “il frutto dell’albero del cedro”. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo romano del I secolo, descrive l’uso del cedro quando parla della festa. Il Talmud (Talmud Babilonese, Sukkot 34a) racconta la storia di re Asmon e del sommo sacerdote Alessandro Ianneo (103-76 a.e.v.) che non rispettò il rituale di Simchat Beit HaSho’eva (la cerimonia della libagione dell’acqua che si tiene nei giorni intermedi di Sukkot) e fu perciò bersagliato di cedri da fedeli furibondi. Il cedro era un importante simbolo della nazione in quel periodo, lo troviamo anche inciso sulle monete.

Entro il II secolo, epoca della Mishnah, il cedro diventa parte del gruppo delle quattro specie. Crudo è praticamente immangiabile, ma se affondiamo un’unghia nella sua scorza emana un profumo particolarmente buono. La classica battuta sugli israeliani che vengono paragonati ai fichi d’India (sabra), perché spinosi e grezzi esternamente, ma squisitamente dolci all’interno, forse renderebbe meglio con il cedro: i cedri (e gli israeliani) appaiono risolutamente duri e intransigenti, ma se li si tocca il loro profumo è squisito. I cedri hanno anche un’altra qualità: in genere i frutti lasciati sull’albero diventano molli e poi marciscono. Il cedro no, generalmente appassisce e si indurisce, ma non marcisce e il suo profumo dura a lungo, non per niente è uno dei frutti favoriti per la composizione della scatola di spezie che si usa per la Havdalà [il rituale di fine Shabbat].

Cosa simboleggiano le quattro specie?

Secondo alcuni midrashim, le quattro specie rappresentano le diverse persone di una comunità: la palma da dattero ha sapore, ma non profumo, perciò descrive una persona che conosce bene la Torah, ma non compie buone azioni; il mirto ha profumo, ma non ha sapore, come colui che compie buone azioni ma non conosce la Torah; il salice non ha né profumo, né sapore, come la persona che non studia la Torah, né compie buone azioni; e infine il cedro ha sia sapore, sia profumo, la condizione ideale. Uniamo queste quattro specie (arba’a minim) nel rituale di Sukkot perché in ogni comunità ci sono persone di ciascun tipo, e perché ogni comunità ha bisogno di persone di ciascun tipo.

Un altro midrash dice che le quattro specie somigliano a una figura umana: le foglie del salice sembrano labbra, quelle del mirto occhi, la palma è la spina dorsale e il cedro è il cuore. Di nuovo, dobbiamo usare tutto il nostro corpo quando preghiamo.

Ma il midrash che preferisco – e che ho la sensazione sia stato il motivo dell’aggiunta del cedro alle altre tre specie – è quello che dice che le quattro specie sono profondamente diverse da un punto di vista botanico. La palma da dattero predilige un clima caldo e secco: nelle zone costiere e umide non frutta bene, nelle oasi del deserto sì. Perciò, il ramo di palma rappresenta le aree desertiche della Terra di Israele. Il mirto raggiunge la massima fioritura nella parte fredda e montagnosa del paese, mentre il salice ha bisogno di stare in prossimità dei corsi d’acqua; infine, il cedro dà il meglio di sé sulla costa e nelle vallate.

Il territorio della piccola Israele è fatto di microclimi, e così ognuna delle quattro specie rappresenta una sua zona diversa. Sukkot è la festività agricola per eccellenza, la festa della consapevolezza del bisogno della pioggia, che deve cadere nella stagione giusta e nella giusta misura. Agli occhi di chi lavora la terra, i tre alberi – salice, mirto, palma – rappresentano bene i tre diversi climi. L’ulivo non è una pianta così delicata, perciò era necessario sceglierne un’altra per rappresentare la cura che in ogni zona di Israele è richiesta per il lavoro della terra.

Ripensare il Lulav, al tempo del cambiamento climatico 

Lo sventolio del Lulav, il legame con il raccolto e con l’agricoltura, l’acqua di Simchat Beit HaSho’eva: Sukkot è una festa di ringraziamento e allo stesso tempo è una richiesta per il prossimo anno. Il tremito delle foglie della palma che si ode agitando il lulav suona come il battito della pioggia sul terreno. Che bene ci può essere se una parte della terra è ben irrigata, mentre un’altra soffre di siccità o inondazioni?

Oggi, prendendo maggiore coscienza del problema del cambiamento climatico – gli uragani, le inondazioni, i monsoni fuori stagione, gli incendi provocati dal sole che si propagano tanto rapidamente – cominciamo a comprendere fino a che punto il mondo in cui viviamo è interconnesso, fino a che punto ciò che accade nel tale posto ha un impatto su noi tutti. Dunque, quando prendiamo in mano le quattro specie, concentriamoci sulla lezione che ci danno, soprattutto riguardo la sostituzione dell’ulivo con il cedro: ricordiamoci che ogni individuo è parte di qualcosa di più grande e che abitiamo tutti la stessa terra; e facciamo quanto è in nostro potere per proteggerla, i campi, i fiumi, i deserti, le zone polari, le montagne, i ghiacciai e i mari…

Alla fine, il senso di Sukkot sta tutto in come rispettiamo l’acqua: mayim hayim, l’elemento che dona e sostiene la vita; e in come rispettiamo il mondo e il suo Creatore.

[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]

Rav Sylvia Rothschild

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"Gridatelo dai tetti...."