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Sostenibilità. Come usiamo i beni che Dio ha donato a tutta l’umanità?
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Vivere La Quaresima aspettando la Pasqua attraversando il Triduo Pasquale
La Donna de Paradiso di Jacopone da Todi Donna de paradiso è una poesia religiosa atribuita a Iacopone da Todi. Si tratta di un componimento in volgare, una lauda drammatica, chiamato anche Il pianto della Madonna, ed è pensato come un dialogo ai piedi della croce, nel quale Maria mostra tutto il suo dolore per la perdita di suo figlio.
«Donna de Paradiso
lo tuo figliolo è priso
Iesù Cristo beato.
Accurre, donna e vide
che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ho flagellato.»
(Donna de Paradiso, 1-7)
Rappresenta un concitato dialogo tra il nunzio (san Giovanni Evangelista), Gesù, la Madonna e la folla durante gli ultimi momenti della vita di Cristo. Il metro utilizzato è quello della ballata sacra con quartine di settenari rimati AAAY e una ripresa rimata XXY. Il componimento è diviso in una terzina iniziale oltre a 33 quartine che rappresentano il numero degli anni che aveva Cristo alla sua morte e le strofe dedicate alla passione sono tre, simbolo della Trinità.
Ha una grande rilevanza storico-linguistica per il particolare uso del volgare: si alterna un registro basso (il cosiddetto sermo cotidianus) per i personaggi Maria e Gesù, a un registro colto e latineggiante per la folla e il nunzio.
Cristo si rivolge alla Madonna chiamandola mamma le tre volte che si rivolge a lei direttamente, e mate quando parla di lei a Giovanni.
La lauda drammatica
Donna de Paradiso è l’esempio più famoso di lauda drammatica, nonché in assoluto la prima lauda drammatica costruita interamente sotto forma di dialogo (Gesù-Maria-il nunzio).
Il carattere polifonico, di poesia a più voci, è strettamente associato a una concitazione narrativa che esprime i sentimenti drammatici e contrastanti da cui la scena è dominata: stupore, dolore, odio, amore. Fino a distendersi nell’ultima e più lunga battuta pronunciata da Maria, in una sofferta e quasi ininterrotta invocazione, dove si sommano il più tenero affetto e il dolore più straziante.
All’interno della lauda il personaggio di Maria assume particolare rilievo e viene rappresentata essenzialmente nella sua umanità di madre. La Madonna appare come una donna disperata per la vicenda del figlio, la cui condanna e morte le sono del tutto incomprensibili, dal momento che Cristo «non fece follia», «a torto è accusato», «non ha en sé peccato». La madre vede il proprio figlio martirizzato, «ensanguinato» e vuole allora morire con lui, salendo sulla stessa croce sul quale Cristo è riposto. La sua disperazione compare nel famoso corrotto, lamento funebre, nel quale con i più dolci appellativi si rivolge alla sua creatura che non è riuscita a sottrarre al martirio.
La Madonna non coglie nella sua morte l’esperienza necessaria per la redenzione dell’umanità dal peccato originale, ma solo l’aspetto terreno di terribile sofferenza.
Anche Cristo rivela attenzioni da figlio nei confronti della madre, che affida alle cure amorevoli di Giovanni, esortandola a restare in vita per servire i «compagni ch’al mondo» ha «acquistato», ma c’è in Cristo quella consapevolezza della sua missione salvifica che manca alla semplice donna del popolo.
Compito del nunzio è quello di riferire alla donna tutto quanto accade intorno alla croce; svolge con scrupolo il suo compito di cronista, non risparmiando alla madre nessuna delle torture inflitte al figlio e senza una sua partecipazione emotiva al dramma.
Due soli sono gli interventi del popolo presente alla scena ed entrambi con la funzione di affermare che in nome della legge Gesù deve essere punito, condannato.
Lo stile ha una notevole forza espressiva: scansione rapida delle frasi e prevalenza della coordinazione nella sintassi; l’uso dell’anafora (la parola figlio). Le frasi esclamative hanno il verbo all’infinito e la forma interrogativa è piena d’incertezza e di tensione. L’uso del tempo verbale al presente conferisce sia immediatezza sia eternità all’evento della passione.
È evidente da queste osservazioni che l’alta materia della Passione dal piano teologico è scesa a quello umano e spettacolarizzato; questo consente al pubblico, a cui è destinata la lauda, di identificarsi nel dramma della madre e del figlio e di parteciparvi. Iacopone nel descrivere la Passione di Cristo segue fedelmente i testi sacri della tradizione cristiana (le Sacre Scritture ed i Vangeli); inoltre la drammaticità che permea la sua opera è analoga a quella presente in alcune opere dell’arte figurativa contemporanea, come dimostra l’osservazione, ad esempio, della Crocifissione di Cimabue, conservata nella basilica superiore di San Francesco d’Assisi. La poesia viene citata da Fabrizio De André (Le nuvole) nel brano Ottocento.
(Laude, 70)
È il più celebre testo di Jacopone, uno dei primi esempi (se non il primo in assoluto) di “lauda drammatica” in quanto propone un dialogo tra più personaggi sulla crocifissione di Cristo, al centro della quale vi è il dolore di Maria per il martirio del proprio figlio (gli altri interlocutori sono Gesù stesso, la folla degli ebrei e un fedele che descrive le fasi del supplizio, probabilmente l’apostolo Giovanni). Il mistero dell’incarnazione di Cristo è espresso attraverso la pena tutta umana della madre per le sofferenze a Lui inflitte, per cui il racconto della Passione diventa un dramma concreto e naturalissimo accentuato dal movimento drammatico delle voci che si susseguono. Jacopone ha affrontato il tema del dolore della Vergine per la morte di Cristo anche nell’inno latino “Stabat Mater”, a lui generalmente attribuito.
«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso Iesù Cristo beato.Accurre, donna e vide che la gente l’allide; credo che lo s’occide, tanto l’ò flagellato».«Come essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?».«Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll’à venduto; trenta denar’ n’à auto, fatto n’à gran mercato».«Soccurri, Madalena, ionta m’è adosso piena! Cristo figlio se mena, como è annunzïato».«Soccurre, donna, adiuta, cà ’l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; òlo dato a Pilato».«O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch’eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato».«Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo la nostra lege contradice al senato».«Prego che mm’entennate, nel meo dolor pensate! Forsa mo vo mutate de que avete pensato». «Traiàn for li latruni, che sian soi compagnuni; de spine s’encoroni, ché rege ss’è clamato!». «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me’ angustïato? Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si lattato?». «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce, ove la vera luce déi essere levato». «O croce, e que farai? El figlio meo torrai? E que ci aponerai, che no n’à en sé peccato?». «Soccurri, plena de doglia, cà ’l tuo figliol se spoglia; la gente par che voglia che sia martirizzato». «Se i tollit’el vestire, lassatelme vedere, com’en crudel firire tutto l’ò ensanguenato». «Donna, la man li è presa, ennella croc’è stesa; con un bollon l’ò fesa, tanto lo ’n cci ò ficcato. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è plu multiplicato. Donna, li pè se prènno e clavellanse al lenno; onne iontur’aprenno, tutto l’ò sdenodato». «Et eo comenzo el corrotto; figlio, lo meo deporto, figlio, chi me tt’à morto, figlio meo dilicato? Meglio aviriano fatto ch’el cor m’avesser tratto, ch’ennella croce è tratto, stace descilïato!». «O mamma, o’ n’èi venuta? Mortal me dà’ feruta, cà ’l tuo plagner me stuta, ch’el veio sì afferato». «Figlio, ch’eo m’aio anvito, figlio, pat’e mmarito! Figlio, chi tt’à firito? Figlio, chi tt’à spogliato?». «Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve mei compagni, ch’êl mondo aio aquistato». «Figlio, questo non dire! Voglio teco morire, non me voglio partire fin che mo ’n m’esc’ el fiato. C’una aiàn sepultura, figlio de mamma scura, trovarse en afrantura mat’e figlio affocato!». «Mamma col core afflitto, entro ’n le man’ te metto de Ioanni, meo eletto; sia to figlio appellato. Ioanni, èsto mea mate: tollila en caritate, àginne pietate, cà ’l core si à furato». «Figlio, l’alma t’è ’scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossecato! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, e a ccui m’apiglio? Figlio, pur m’ài lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, perché t’à el mondo, figlio, cusì sprezzato? Figlio dolc’e placente, figlio de la dolente, figlio àte la gente mala mente trattato. Ioanni, figlio novello, morto s’è ’l tuo fratello. Ora sento ’l coltello che fo profitizzato. Che moga figlio e mate d’una morte afferrate, trovarse abraccecate mat’e figlio impiccato!». | Fedele: «Donna del cielo, tuo figlio, Gesù Cristo beato, è catturato. Accorri, donna e vedi che la gente lo colpisce; credo che lo stiano uccidendo, tanto lo hanno flagellato.» Maria: «E come potrebbe essere che abbiano catturato Cristo, la mia speranza, visto che non ha commesso peccato?» Fedele: «Madonna, egli è stato tradito; Giuda l’ha venduto, avendone in cambio trenta denari; ne ha tratto un gran guadagno». Maria: «Aiutami, Maddalena, mi è arrivata addosso la pena! Mio figlio Cristo è portato via, come è stato annunciato». Fedele: «Soccorrilo, donna, aiutalo, poiché sputano addosso a tuo figlio e la gente lo sta portando via; lo hanno consegnato a Pilato». Maria: «O Pilato, non fare torturare mio figlio, poiché io ti posso dimostrare che è accusato a torto». Folla: «Crocifiggilo, crocifiggilo! Un uomo che si proclama re, secondo la nostra legge, contravviene ai decreti del senato». Maria: «Vi prego di ascoltarmi, pensate al mio dolore! Forse ora cambiate idea rispetto a ciò che avete pensato». Folla: «Tiriamo fuori [liberiamo] i ladroni, che siano suoi compagni di pena; lo si incoroni di spine, visto che si è proclamato re!». Maria: «O figlio, figlio, figlio, figlio, giglio amoroso! Figlio, chi dà conforto al mio cuore angosciato? Figlio dagli occhi che danno gioia, figlio, perché non mi rispondi? Figlio, perché ti nascondi dal petto dove sei stato allattato?». Fedele: «Madonna, ecco la croce che è portata dalla folla, ove Cristo (la vera luce) dovrà essere sollevato». Maria: «Croce, cosa farai? Prenderai mio figlio? E di cosa lo accuserai, visto che non ha commesso alcun peccato?». Fedele: «Soccorrilo, o tu che sei piena di dolore, poiché il tuo figliolo è spogliato; sembra che la folla voglia che sia martirizzato». Maria: «Se gli togliete i vestiti, lasciatemi vedere come lo hanno tutto insanguinato, infliggendogli crudeli ferite». Fedele: «Donna, gli hanno preso una mano e l’hanno stesa su un braccio della croce; l’hanno spaccata con un chiodo, tanto gliel’hanno conficcato. Gli prendono l’altra mano e la stendono sull’altro braccio della croce, e il dolore brucia, ancora più accresciuto. Donna, gli prendono i piedi e li inchiodano al legno; aprendogli ogni giuntura, lo hanno tutto slogato». Maria: «E io inizio il lamento funebre; figlio, mia gioia, figlio, chi ti ha ucciso [togliendoti a me], figlio mio delicato? Avrebbero fatto meglio a strapparmi il cuore, visto che è posto anch’esso in croce e sta lì straziato!». Cristo: «Mamma, dove sei venuta? Mi infliggi una ferita mortale, poiché il tuo pianto, che vedo così angosciato, mi uccide». Maria: «Figlio, io ne ho ben ragione, figlio, padre e marito! Figlio, chi ti ha ferito? Figlio, chi ti ha spogliato?». Cristo: «Mamma, perché ti lamenti? Voglio che tu rimanga qui, che assisti i miei compagni che ho acquistato nel mondo». Maria: «Figlio, non dire questo! Voglio morire con te, non voglio andarmene finché mi esce ancora voce. Possiamo noi avere un’unica sepoltura, figlio di mamma infelice, trovandoci nella stessa sofferenza, madre e figlio ucciso!». Cristo: «Mamma col cuore afflitto, ti affido nelle mani di Giovanni, il mio discepolo prediletto; sia tuo figlio acquisito. Giovanni, ecco mia madre: prendila con affetto, abbine pietà, poiché ha il cuore così trafitto». Maria: «Figlio, l’anima ti è uscita dal corpo, figlio della smarrita, figlio della disperata, figlio avvelenato [ucciso]! Figlio bianco e rosso, figlio senza pari, figlio, a chi mi rivolgo? Mi hai davvero abbandonata! Figlio bianco e biondo, figlio dal volto gioioso, figlio, perché il mondo ti ha così disprezzato? Figlio dolce e bello, figlio di una donna addolorata, figlio, la gente ti ha trattato in malo modo. Giovanni, figlio acquisito, tuo fratello è morto. Ora sento il coltello [la pena del martirio] che fu profetizzato. Che la madre muoia insieme al figlio, afferrati dalla stessa morte, trovandosi abbracciati, madre e figlio entrambi crocifissi!» |
da indirizzare a Dio per mettersi in contatto poco prima di dormire, riflettere sulle cose che abbiamo vissuto e pensare come diventare persone migliori.
La notte della Pasqua i cristiani la celebrano attorno alla mensa dell’agnello, mangiano il pane della vita e devono il calice della salvezza, nutriti quindi del corpo e del sangue di Cristo.
Pane azzimo dell’ostia e calice del vino sono nel segno della continuità dell’eucarestia con il banchetto pasquale ebraico pur nella novità della presenza reale del Signore Gesù.
Perciò la liturgia della Veglia pasquale canta così: “Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti del Cristo dall’oscurità del peccato e della corruzione del mondo, li consacra all’amore del padre e li unisce alla comunione dei santi.. Questa è la notte in cui Cristo , spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro.
Nel dialogo tra padre e figlio (Es.13,14) seduti intorno alla mensa del Pessach risuona una domanda : “ Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti ?”
Perché si fa memoria della schiavitù di Egitto , ci si dispone a gustare il sapore della libertà bevendo alle quattro coppe della salvezza.
Quattro, come le tipologie di figli, e di benedizioni, identificate dal midrash e che rappresentano la varietà di posizioni raggiunta nel tempo dalle generazioni, alla quale il genitore deve adeguatamente rispondere: il saggio, il malvagio, il semplice, colui che non sa porre domande. Il figlio saggio, che non esclude se stesso dall’obbligo di eseguire i comandamenti di Dio e che riconosce le sue radici; il malvagio, che considera quei “riti” irrilevanti per lui, autoescludendosi dalla comunità (secondo l’Haggadah è l’unico non meritevole della liberazione dalla schiavitù, l’unico che sarebbe stato lasciato in Egitto); il semplice, il quale domanda “che significato ha tutto questo?”, merita una risposta altrettanto semplice, lineare, elementare sulle ragioni dell’Esodo; infine il figlio che non sa porre domande: è disinteressato, non ribelle, e quindi — a differenza del malvagio — secondo la Torah è meritevole lo stesso della ritrovata libertà anche solo per la semplice appartenenza (non rinnegata) al popolo ebraico.
La notte di Pessach è la notte che rivela le innumerevoli meraviglie di salvezza che l’altissimo ha operato: quattro, dalle quali derivano tutte le altre e tutte e quattro si sono compiute nella notte e nel buio del cuore, la luce è venuta a salvarci.
Il racconto delle quattro notti è riferito nella tradizione ebraica in rapporto alla benedizione ( o qiddush) delle quattro coppe in un antico documento che ne parla ed è il TARGUM ONKELOS a Es. 12,42.”In realtà quattro notti sono scritte nel libro del memoriale. LA PRIMA NOTTE fu quando il Signore si manifestò nel mondo per crearlo: il mondo era deserto vuoto e la tenebra si estendeva sulla superficie nell’abisso ma il Verbo del Signore era la luce e illuminava. Ed egli la chiamò notte prima (QIDDUSH della prima coppa) .
LA SECONDA NOTTE fu quando il Signore si manifestò ad Abramo dell’età di cento anni,mentre Sara sua moglie ne aveva novanta,affinché si compisse ciò che dice la scrittura : certo Abramo genera all’età di cento anni e Sara partorisce all’età di novant’anni. Isacco aveva trentasette anni quando fu offerto sull’altare. I cieli si abbassarono e discesero e Isacco ne contemplò la perfezione e i suoi occhi rimasero abbagliati per le loro perfezioni. Ed egli la chiamò : notte seconda (QIDDUSH della seconda coppa).
LA TERZA NOTTE fu quando il Signore si manifestò contro gli egiziani durante la notte : la sua mano uccideva i primogeniti di Egitto e la sua destra proteggeva i primogeniti di Israele per compiere la parola della Scrittura : Israele è il mio primogenito (Es. 4,22) Ed egli la chiamò : la notte terza ( QIDDUSH della terza coppa).
LA QUARTA NOTTE sarà quando il mondo giungerà alla sua fine per essere redento. Le sbarre di ferro saranno spezzate e le generazioni degli empi saranno distrutte.E Mosè salirà dal deserto e il Re dall’alto: e il Verbo camminerà in mezzo a loro ed essi cammineranno insieme., E’ la notte di Pasqua nel nome del Signore ,notte predestinata e preparata per la redenzione di tutti i figli d’Israele in ogni generazione (QIDDUSH della quarta coppa).”
Far memoria di queste quattro notti aiuta ad entrare intensamente nella notte di Pasqua, culmine e fonte della salvezza nostra e di tutte le creature che sono al mondo. Come quattro tappe esse scandiscono il cammino, teso a fare sempre più di noi , per tanti aspetti figli della notte, i figli della luce redenti dall’Amore.
Perché questa notte è diversa dalle altre? Perché non mangiamo pane lievitato ma solo pane azzimo non lievitato? E perché erba amara al posto delle normali verdure? Festa della libertà ritrovata (dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto), festa della primavera (Torah e Talmud collocano l’avvenimento nella stagione dal clima migliore), Pesach — la Pasqua ebraica — è anche festa dei bambini. Le loro domande, durante le due cene del Seder (rito che apre gli otto giorni di celebrazione), sono frutto dello stupore di trovarsi davanti una tavola apparecchiata in modo differente, dopo che l’intera famiglia, per giorni, ha eliminato scrupolosamente dalla casa ogni forma di alimento lievitato. Le risposte le troveranno nell’Haggadah, la raccolta di interpretazioni rabbiniche narranti gli eventi che hanno portato all’Esodo, dalle dieci piaghe d’Egitto all’apertura del Mar Rosso guidati da Mosè, dalla manna scesa dal cielo ai dieci comandamenti. È infatti quasi sempre il più giovane, generalmente un bambino, a recitare e cantare i brani più significativi.
Nishtanah (Cosa differenzia questa sera dalle altre sere?), il testo con le tradizionali “quattro domande”. In quel preciso “ordine” (traduzione italiana del termine Seder), in quella sequenza di atti di intensa partecipazione, i più giovani scoprono le origini, una parte essenziale della loro storia.
Pesach, “passare oltre”, come fece il Signore (Esodo, 12, 13) vedendo il sangue d’agnello su stipiti e architravi delle case dei figli d’Israele — era stato Dio stesso a dire a Mosè e ad Aronne di segnare le porte in questo modo — la notte in cui colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto. Ed è così che quel giorno, il quattordicesimo del mese di Nissan, è diventato per gli ebrei l’inizio, un “memoriale” (zikkaron), rito perenne da celebrare di generazione in generazione. Quest’anno, secondo il calendario ebraico, che è calcolato su base lunare, Pesach comincerà la sera del 27 marzo per concludersi il 4 aprile. La meticolosa preparazione al Seder è dunque già cominciata, preceduta dalla pulizia della casa, dalla quale deve scomparire qualsiasi residuo di lievito. Quella sera, la prima, sulla tavola imbandita compariranno piatti decorati dove non devono mancare — prodotti rigorosamente kasher — il pane non lievitato (matzot), a ricordare la precipitosa fuga dall’Egitto, un gambo di sedano, erba amara, il maror (i romani sono soliti mettere delle foglie di lattuga), a rappresentare la durezza della schiavitù, una zampa di capretto (a simboleggiare l’agnello sacrificato al posto dei primogeniti del popolo ebraico), un uovo sodo, per il lutto ma anche per la vita che ricomincia, il charoset, impasto che ricorda l’argilla per comporre i mattoni, e poi quattro bicchieri di vino.
Intorno alla tavola si riuniscono le famiglie, si invitano gli amici, anche gli ospiti di passaggio. Al termine, l’augurio “l’anno prossimo a Gerusalemme” con la speranza, anzi la certezza, di rivedersi al Pesach successivo. Dalla schiavitù alla libertà. Il testo dell’Haggadah è pieno di frasi che inducono a rinnovare questo passaggio. Una di esse si trova proprio all’inizio: «Chi ha fame venga e mangi, chi ha necessità venga e faccia Pesach (con noi)». La libertà, spiega il rabbino Giuseppe Momigliano su “Moked”, «non è un bene che si risolve nel privato, non ci autorizza a chiuderci in noi stessi; la celebrazione del Seder ci ricorda che libertà è anche “invitare a fare Pesach”, cioè condividere con chi è materialmente privo del necessario per la festa, e coinvolgere chi, per circostanze della vita, si trova in solitudine, fisica o esistenziale». Come l’arrivederci a Gerusalemme, Leshanà habbà beJerushalaim, che conclude la cerimonia, non è semplicemente un auspicio ma la promessa, il richiamo a una città, osserva ancora Momigliano, «luogo aperto e accessibile, di preghiera e di incontro per tutte le genti e per ogni fede».
Un breve video per aiutare anche i più piccoli ad incominciare a conoscere questa antica tradizione e a confrontarsi con culture diverse.
https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-03/quo-067/pesach-la-liberta-onorata.html
Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Ascolta la Voce Audio -Spazio Meditativo Percorso Spirituale
La fame il digiuno la sete…..al primo istinto dei crampi che senti allo stomaco vuoi alzarti a mordere qualcosa, desideri addentare del cibo, un pezzo di pane, pensi ai più svariati piatti da mangiare..ci hai fatto mai caso? Vuoi bere, hai un bisogno prepotente di esistere, toccare degli alimenti, odorare, vedere, gustare.. sono tutti sensi che ti dicono che sei vivo, che esisti, che il tuo corpo morrà se non sfami questo vuoto…senti tutti i segnali del finito, del perduto…tu hai necessità di vivere, invece, eccome, non puoi morire…che senso ha questo soffrire, questo privare il tuo corpo che va invece curato, coccolato…perché trattarti male, perché sottoporre alla carne una tortura indicibile e disgustosa..se Dio è amore, non può volere la fine del tuo corpo..
Se Dio è amore, non può volere la fine del tuo corpo
Che senso sa ha, dunque, entrare in una privazione, in questa assurda lotta.. non siamo mica masochisti.. l’uomo è fatto per vivere, per amare, per godere delle mille sensazioni di cui la vita è piena e, allora, perché questa ostinata rinuncia, perché lo stesso Gesù è entrato in questa voluta astinenza? Vale la pena aspettare, lottare, assoggettare il nostro corpo, vincere i barbari istinti che lo costringono a partecipare all’immediata soddisfazione compulsiva.. già…sarà perché non siamo più abituati a soffrire, a rinunciare.. bisognerebbe invece domarlo, questo nostro impulso a cercare vita, sempre, e comunque, desiderando soddisfare quella immediata e spasmodica soddisfazione che altro non porta, molte volte, ad accontentare un capriccio, che ci regala sempre la consapevolezza che ricevendo un piccolo briciolo di vita possiamo allungare di un’ora la nostra esistenza! Gesù ci insegna in questo tempo speciale anche ad educare il corpo, la mente per prepararlo alla lotta contro il tempo, contro gli istinti bestiali, irruenti, come la sensualità, concupiscenza..la meta? Arrivare ad una contemplazione più alta che permette la nascita di una persona completamente nuova, leggere, luminosa..possiamo tentare con l’aiuto di Gesù di fare un piccolo esperimento, un esercizio, per fortificare tutto il nostro essere composto di sensibilità e percezione corporea al fine di arrivare un pò al traguardo della vittoria finale…sì, non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.. l’uomo è fatto per il cielo, per gustare oltre i sensi la vera pace, la vera dimensione spirituale che ci unisce a Dio.. forse, dopo aver vinto questa piccola lotta con noi stessi, potremo riprendere il viaggio.. dopo aver combattuto anche solo per un pò, potremo assaporare una nuova intensità anche spirituale.. siamo fragili creature, vero, ma unite a Cristo possiamo sperimentare che non si muore se ci priviamo momentaneamente del cibo, che si può andare oltre l’istinto, l’accanita soddisfazione del narcisistico ego.. siamo fatti per il cielo, siamo fatti per una dimensione che va oltre l’umano, lontana da quelle esigenze che la nostra carne ci impone…solo dopo aver lottato, potremo prepararci alla Pasqua, a quella liberazione definitiva delle catene che attanagliano l’uomo a questa terra, a questo deserto che è stato necessario attraversare per capire che abbiamo parlato con Dio, che Dio stesso ci è venuto a visitare nei nostri limiti per farsi conoscere da noi…finalmente…perchè “della lotta lui è il premio”!
Elaborazione Progetto Audio Voce Testi di Marilena Marino