Povertà è una parola complessa. Ha accezioni negative e positive al tempo stesso: viene associata a mancanza e privazione, ma anche a beatitudine e aspirazione di vita. Il povero è da commiserare, è colpevole della propria condizione, oppure è un santo, che ha compreso il segreto di una vita felice. È una persona da aiutare, oppure un esempio da imitare. L’economista iraniano Majid Rahnema, nel suo libro Quando la povertà diventa miseria individua cinque forme di povertà:
«Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale» (2005, Einaudi).
Cinque forme di povertà, ma non tutte maledizioni; alcune addirittura vie di felicità. C’è infatti povertà e… povertà. Il titolo originale del libro dell’economista iraniano è molto più eloquente della sua traduzione italiana: Quand la misère chasse la pauvreté, cioè Quando la miseria scaccia la povertà. In certe circostanze, infatti, la miseria è talmente grave da rendere impossibile il vivere la povertà intesa come virtù liberamente scelta: se non ho il denaro per nutrire i miei figli, o per curarli, è impossibile scegliere una vita sobria e generosa. «Per l’uomo con lo stomaco vuoto, il cibo diventa Dio», diceva Gandhi; e quando l’uomo è in una tale condizione, diventa facilmente schiavo di chi gli promette quel cibo. Anche l’economista Alfred Marshall così si esprimeva nel 1890: «È vero che persino un uomo povero può raggiungere nella religione, negli affetti famigliari e nell’amicizia la felicità più alta. Ma le condizioni che caratterizzano la povertà estrema tendono ad uccidere questa felicità». Potremmo dunque dire che la povertà è una benedizione e la miseria invece una maledizione. La miseria va dunque combattuta, la povertà può diventare un’ideale di vita, che porta alla felicità. Quest’ultimo nesso è difficile da comprendere: perché privarsi volontariamente di beni e ricchezze può renderci felici? “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli” (Lc. 6,20). I poveri sperimentano il regno dei cieli già su questa terra: «Un regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano: la provvidenza è per Lucia, non per don Rodrigo. Le feste più belle sono le feste di poveri: forse sulla terra non ci sono cose più gioiose di matrimoni e nascite celebrate da poveri in mezzo ai poveri» (Luigino Bruni, «Avvenire» 2015).
Donne e povere: una doppia marginalità
Purtroppo, anche quando parliamo di miseria e di costrizione ad una vita povera, dobbiamo constatare che esistono differenze tra uomini e donne: neanche la miseria livella i generi. Ho recentemente incontrato una donna che per 13 anni ha lavorato come badante senza tutele: ora è senza lavoro, senza possibilità di pensione, in cerca disperata di un’opportunità, e quindi pronta a rimanere invisibile pur di avere di che mangiare. Qui si apre il tema della minore autonomia finanziaria delle donne che le espone ad una maggiore fragilità di fronte a eventi sfortunati. La maggioranza delle donne non possiede un conto bancario, se sposate non hanno la titolarità dei conti, e, avendo meno pratica, sono anche meno competenti in questi ambiti. E purtroppo esiste una correlazione ben documentata tra autonomia finanziaria e violenza domestica: le donne più soggette a violenze domestiche sono quelle che non hanno la libertà e l’autonomia per allontanarsi da mariti violenti. Quello della violenza è ormai un fenomeno conosciuto, ma ci sono tanti altri ambiti in cui le donne non sono conosciute e riconosciute, soprattutto quando rischiano impoverimento ed esclusione.
A volte, infatti, i dati che raccogliamo distorcono la realtà, spesso perché pensati da uomini e avendo l’uomo come norma. È la tesi di Caroline Criado Perez, che nel suo libro Invisible women: exposing data bias in a world designed for men (Chatto & Windus, London 2019) cita tanti esempi di come le statistiche non vedano lo specifico e le esigenze delle donne, e quindi restituiscono un quadro deformato della realtà. E se poi le politiche si basano su questi dati, va da sé che le donne abbiano vita più difficile. Secondo l’autrice le donne sono invisibili nella vita quotidiana: pensiamo al lavoro domestico (associato alle donne) che viene visto come un fenomeno normale; nella progettazione delle città: quanti piani urbanistici tengono conto di chi si sposta normalmente per fare la spesa?; sul lavoro: il divario salariale tra uomo e donna per lo svolgimento di mansioni identiche è ormai noto; nella tecnologia: solo per citare un esempio, il software di Google ideato per la dettatura decifra il linguaggio maschile con una probabilità del 70 per cento superiore rispetto a quello femminile; in campo medico: prendere il corpo maschile come paradigma e oggetto di studio porta, ancora oggi, ad un maggior numero di diagnosi sbagliate per le donne, e limita la ricerca su patologie tipicamente femminili.
Se ci ricordassimo più spesso che l’essere umano è maschio e femmina, anche le azioni di contrasto alla miseria sarebbero più efficaci.
La povertà è una scelta solo quando si è superata la miseria
Tornando alla differenza tra povertà e miseria, è importante riconoscere un legame tra queste due condizioni: solo chi sceglie liberamente uno stile di vita povero, solo chi rinuncia ai beni e sperimenta la condizione di povertà, può aiutare i miseri a risollevarsi. Tutto ciò che, invece, arriva dall’alto in basso, e vede la condizione di deprivazione solo come un problema da risolvere, non avrà mai le chiavi giuste per combattere efficacemente la miseria. Luisa de Marillac, Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Giovanni Battista Scalabrini (fatto santo il 9 ottobre da Papa Francesco), Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Calabria, Francesca Cabrini, Giovanni Bosco, Madre Teresa, scegliendo la via della povertà, hanno ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei vergognosi, nei derelitti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di grande e di bello per cui valse di spendere la loro vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguirono, attratti e ispirati dal loro esempio. In questa scia di precursori e profeti, le figure di donne spiccano per coraggio e capacità di andare controcorrente, considerato il fatto che sono state generalmente relegate in secondo piano. Purtroppo l’esempio e le gesta di queste donne, molte delle quali fondatrici di Istituti e ordini religiosi, è meno conosciuto rispetto a quello dei loro “colleghi” uomini. Anche oggi molti istituti religiosi femminili sono sulla frontiera di quella che potremmo chiamare miseria nella miseria di molte donne: traffico di esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne, alfabetizzazione ed educazione finanziaria, soprattutto nei Paesi in cui alle donne non è dato accesso a percorsi ordinari di istruzione, aiuto alla maternità, laddove si può facilmente morire nel dare alla luce una creatura.
Il lavoro delle consacrate non è quello di una ong
In che cosa il lavoro di tante donne consacrate a favore di altre donne si differenzia da quello di tante agenzie internazionali? Innanzitutto lo scopo: rendere vive le parole di Gesù «sono venuto a portare vita e vita in abbondanza» (Gv. 10,10). Portare la tenerezza di Dio per ogni creatura, soprattutto per gli emarginati e gli esclusi. In secondo luogo c’è un come, che è un già e un non ancora. Una proposta cristiana perché non ci siano esclusi, quella della comunione dei beni. Nella prima Comunità cristiana, leggiamo negli Atti degli Apostoli: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e poi veniva distribuito secondo il bisogno» [At. 4, 34-35]. La messa in comune era libera e spontanea, e i beni venivano ripartiti secondo le necessità. La conseguenza della messa in comune è che nella Comunità “non c’erano bisognosi”. Quando in una Comunità si dona con gioia e si condivide tutto, non ci sono bisognosi. Una scelta di sobrietà individuale condivisa tra tanti genera comunità inclusive. L’apostolo Paolo, in ogni piccola chiesa da lui fondata, provvedeva a organizzare le collette e nelle sue lettere spiega come realizzarle, per questo insiste, richiama e ringrazia. Da san Paolo impariamo che si condividono i beni, ma anche il proprio lavoro, perché tutti abbiano qualcosa da dare e che la Provvidenza è un attore fondamentale nella condivisione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore… Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente» [2 Cor. 9, 7.10].
La Provvidenza e il centuplo non si manifestano sempre sullo stesso piano dei doni e dei beni che vengono messi in comunione. Ad un privarsi di beni materiali, ad esempio, può corrispondere una inaspettata fecondità del lavoro, e viceversa. A questo proposito è significativo un passo della Lettera ai Romani: «La Macedonia e l’Acaia hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella Comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito per rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (cf. Rm 15,20-27). Comunione di beni spirituali e materiali, dunque.
Il cammino della comunione dei beni dipende dall’impegno di tutti e dal contributo di ciascuno. Non è un caso che il primo dissidio nella prima Comunità cristiana sia l’episodio di Anania e Saffira. [At. 5, 1-11 ] Essi, pur condividendo i beni, cercano anche di trattenere qualcosa per se stessi, mentendo a Pietro. Il primo problema di corruzione della Comunità non riguarda la dottrina o la fede, ma la comunione dei beni. È forse a causa di questo episodio, e dei tanti episodi in cui gli interessi personali prevalgono sul bene comune, che oggi si parla poco della comunione dei beni come un ideale e un modo di vivere che risolverebbe alla radice il problema degli scartati? Eppure tanti istituti religiosi, tante comunità cristiane e movimenti, senza fare troppo rumore, stanno vivendo questo ideale e sono germi, bozzetti di come potrebbe essere il mondo se lo pensassimo con gli occhi di è scartato e tutti comprendessimo la beatitudine della povertà.
di Alessandra Smerilli Figlia di Maria Ausiliatrice, economista, segretaria del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale
L’essere umano, al di là dell’appartenenza a qualche religione, può percepire la Presenza di Dio. In De André è palese, forte, profonda una voce che parte dal profondo dell’Uomo, che grida giustizia radicalmente. Quindi, al di là di ogni obiezione o considerazione, Fabrizio è a pieno titolo un testimone, portavoce della profonda coscienza, dell’energia vitale umana. Tutti noi siamo attratti dalla bellezza, dalla profondità, dalla struggente ricerca di riscatto della condizione umana. Questo è l’annuncio di Fabrizio. I suoi personaggi appaiono ricchi di una fragilità che ce li rende cari (come nel Vangelo di Gesù), personaggi capaci di coinvolgerci e di indurci a cercarli fra i vicoli della Città Vecchia e nelle periferie. Attraverso i testi delle sue canzoni, si possono esplorare quelle terre di confine dove Fabrizio De André ha seminato la sua ricerca, i suoi dubbi e raccontato i suoi “santi” senza aureola. Proprio in questa ricerca possiamo trovare il cuore, sempre attuale, del “Vangelo secondo De André”: se un Dio esiste, è nella croce dei poveri e nel cuore dei perduti, ma puri di cuore. Fabrizio De André non era un convinto credente, anzi, ma l’interrogativo sull’esistenza di una “paternità” superiore l’ha sempre accompagnato, spingendolo sul sentiero dei cercatori di verità per indagare il problema di Dio, il mistero di Gesù di Nazareth, la coscienza di chi ha fede e i dubbi dei non credenti. Ricordiamo canzoni come “Si chiamava Gesù”
Si chiamava Gesu’..E per quelli che l’ebbero odiato Nel getzemani pianse l’addio Come per chi l’adorò come Dio Che gli disse sia sempre lodato Per chi gli portò in dono alla fine Una lacrima o una treccia di spine Accettando ad estremo saluto La preghiera l’insulto e lo sputo..
Nella conclusione della canzone Città vecchia De André sintetizza quel senso di carità cristiana, di cura per il destino degli ultimi che è sempre stato al centro della sua poetica: «Se tu penserai e giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo». Fabrizio si definiva ateo, ma al tempo stesso terribilmente affascinato dalla figura di Gesù, che definì “il più grande rivoluzionario della storia”, tanto da dedicargli nel 1970, in pieno fermento post-sessantottino, un intero album, “La buona novella”, frutto di uno studio meticolosissimo dei Vangeli apocrifi. Anche in questo caso, alla perplessità degli ambienti laici si accompagnò invece il plauso di buona parte degli ambienti ecclesiastici. Molto spesso Radio Vaticana ha trasmesso brani musicali come “Preghiera in gennaio” , “Spiritual” e la canzone che chiude l’ultimo album inciso da Fabrizio De André nel 1996 “Anime salve” che si intitola “Smisurata preghiera”. Si conclude così: «Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco. Non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti. Come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere».
Dio del cielo se mi vorrai In mezzo agli altri uomini mi cercherai Dio del cielo se mi cercherai Nei campi di granturco mi troverai…Dio del cielo se mi vorrai amare Scendi dalle stelle, vienimi a cercare Oh, Dio del cielo se mi vorrai amare Scendi dalle stelle, vienimi a cercare…Senza di te non so più dove andare Come una mosca cieca che non sa più volare Senza di te non so più dove andare Come una mosca cieca che non sa più volare..Dio del cielo io ti aspetterò Nel cielo e sulla terra io ti cercherò
Ricorda Signore questi servi disobbedienti Alle leggi del branco Non dimenticare il loro volto…
(Fabrizio De André, Smisurata preghiera, 1996)
Una poesia su San Francesco, autore Fabrizio De Andrè. Lo scritto riemerge, inatteso, da un’agenda custodita presso la Facoltà di lettere di Siena. Scritta in stampatello appartiene agli ultimi mesi di vita del cantautore genovese. L’umiltà di San Francesco, la croce di Gesù. Fabrizio De Andrè ne era molto affascinato
E ancora il ritratto femminile che trapela dalla penna e dalla musica del cantautore
Il sogno di Maria.. e l’ angelo disse: “Non temere, Maria, infatti hai trovato grazia presso il Signore e per opera Sua concepirai un figlio…Lo chiameranno figlio di Dio Parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.”
“Deus Deus ti salve Maria
“Ave Maria, piena di grazia tu che di grazie sei sorgente e fonte d’acqua corrente
Dio onnipotente ti ha visitato e ti ha conservato immacolata
Prega tuo figlio per noi peccatori che tutti gli errori ci perdoni
Tantissime grazie ci doni nella vita e nella morte e un meraviglioso destino in paradiso”.
E te ne vai, Maria, fra l’altra gente che si raccoglie intorno al tuo passare, siepe di sguardi che non fanno male nella stagione di essere madre.
Sai che fra un’ora forse piangerai poi la tua mano nasconderà un sorriso: gioia e dolore hanno il confine incerto nella stagione che illumina il viso.
Tre Madri
Con troppe lacrime piangi, Maria Solo l’immagine d’un’agonia: Sai che alla vita, nel terzo giorno Il figlio tuo farà ritorno…E chi ti chiama Nostro Signore Nella fatica del tuo sorriso Cerca un ritaglio di Paradiso..
In questo canto che richiama la stazione della Madonna sotto la croce durante la Passione di Cristo, intitolato “Tre madri”, si ode il pianto e il lamento delle donne per l’imminente sorte dei figli :dalle stesse parole di De Andrè si avverte un richiamo al duecentesco Pianto della Madonna di Jacopone da Todi.
La parola Rosario significa “Corona di Rose”. La Madonna ha rivelato che ogni volta che si dice un’Ave Maria è come se si donasse a Lei una bella rosa e che con ogni Rosario completo Le si dona una corona di rose.
Il Rosario è una lunga catena che lega il cielo alla terra… con il Rosario si può ottenere tutto. (SantaTeresa di Lisieux)
Marilena cantaNiente ti turbi
Terzo mistero della gioia: Gesù, il figlio di Dio, nasce dalla Vergine Maria.
Spazio Riflessioni
Dal Vangelo secondo Luca (2,1.4a.6-7)
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per [Maria] i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
Grazie ai misteri contenuti nella recita, alle Litanie e ai versetti della Sacra Scrittura, l’autrice ha voluto dedicare al Rosario Mariano un ‘ispirazione, desiderando gettare, nel profondo, uno sguardo su questa antica devozione che tutti gli anni, nel mese di Maggio, coinvolge puntualmente la sensibilità popolare. Si è chiesta molte volte come fare per incastonare nella storia umana questa amatissima perla della tradizione, voleva cercare un modo perchè la splendida preghiera che tutti amano moltissimo non rimanesse solo un’ancora sospesa nel cielo, ma che potesse maggiormente attraccare anche alla terra!
“Gettare una luce sul sentiero della ricerca interiore che ci porti a Cristo e si rifletta anche nel tempo della nostra vita”..
“Formulando questo pensiero e seguendo il suo filo conduttore per arrivare, alla fine, alla soluzione-racconta l’autrice-piano piano ho delineato un percorso.. poi tutto, a un certo punto, è apparso chiaro, facile da intraprendere e persino incoraggiante.
Recitando il rosario, facendolo entrare nella mia realtà , mi sono accorta che ogni mistero di questa bellissima recita poteva riflettersi anche nelle mie comuni attitudini di vita…quella formula ritmata più volte non sembrava più ripetitiva, routinaria, anzi.. snocciolava mille riflessioni, punti di domanda, suggeriva in crescendo anche uno stimolo costruttivo e affascinante di vita.
Stava diventando quasi un itinerario, un iter da seguire come una strada con tanti cartelli stradali…
Ogni passo del Vangelo, ogni versetto della Parola che si appoggiava alla meditazione, recava in se un germe di vita potente, un mistero da svelare, un seme a volte anche un po’ nascosto, certe volte, che chiedeva prima di essere interiorizzato, poi sviluppato e infine donato anche agli altri!
Di questo passo, mi son detta, la vita vissuta alla luce della Parola di Dio può trovare una collocazione anche nella concretezza della storia e il Rosario con i suoi misteri rientra in questa attualizzazione che è l’esperienza concreta della vita
Ecco quello che cercavo, la sapienza divina trasferita nelle molteplici azioni di tutti i giorni che mi permettesse di capire i misteri del rosario non solo in modo intellettivo ma col cuore e in modo semplice, esperienziale e diretto!
Spirituale e pratico assieme!
Era possibile, dunque, ricercare, applicare e arrivare a questo traguardo.. altrimenti la preghiera mi sarebbe servita, certo, ad elevare il cuore a Dio, a cercare Maria, invocarla, ma quanto sarebbe durato l’effetto, la costanza del pregare sempre e incessantemente? E se, poi, il fuoco, lo zelo, si sarebbero affievoliti.. se pregare non raggiungeva anche la mia vita, non la trasformava più di tanto…che fare?
Avvalersi di strumenti di conoscenza antichi e nuovi, fondere tradizione, fedeltà al magistero e al tempo stesso liberare la vena artistica mescolandola alla componente umana, nel mio caso femminile…volevo percorrere questa strada, far risuonare quest’armonia dentro di me, farla ascoltare fuori, cercare e unire il vecchio e il nuovo, proprio come nel Vangelo si dice a proposito di quel padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
Bisognerebbe, anche, mi ripetevo spesso, fare più silenzio, lasciar molte più pause di riflessione dopo l’enunciazione di ogni mistero per riflettere e consentire al Signore, proprio in questo lasso di tempo, di portarci a Maria, lei che conosce il vino nuovo delle nozze di Cana, che sa parlarci della nuova primavera dello Spirito, che cerca, come il Figlio, adoratori di spirito e verità, lei che permette anche a noi, al nostro cuore, l’accesso a un rinnovato modo di pensare, agire, ascoltare,
Maria che resta la fedele umile ancella del Signore.
Tutti cerchiamo in mille modi di recitare il rosario…in tutti i tempi la storia di questa antichissima devozione ci è stata tramandata nelle più svariate forme…chi non conosce il rosario….lo si recita sempre, non solo a Maggio, in ogni ora e in ogni mese per chi lo vuole….ma se dovessi chiedermi veramente cosa sia esso per me, risponderei, anche, che corrisponde all’invito accorato di Dio e della Madonna a fermarmi, a sospendere tutti gli impegni, anche solo per un po’ per rientrare in me stessa, per chiedermi chi sono, dove vado, cosa cerco.. come se mi sussurrassero…vuoi lasciarti seriamente attraversare da quel potente fascio di luce che ti ferisce il cuore sì o no? .. Ogni grano della coroncina, scommetto che, mentre lo scorri tra le dita, vorresti ti parlasse, ti suggerisse un po’ la formula di come vivere, e magari ti desse persino la soluzione per ogni tuo problema, come la lampada di aladino, più o meno.. o quasi.. anche nella quotidianità…perche’ no…e non hai del tutto torto, anzi…molte volte non sai come fare se hai un problema, se c’è una necessità, è vero, c’è Maria che scioglie i nodi…poi la preghiera smuove le montagne, certo, domanda, chiede, ottiene...è vero anche che dal chiedere incessantemente, senza stancarsi mai, ne deriva una certa sapienza se insisti.. vivere ogni giorno con fede il quotidiano, questa è la cosa più difficile da realizzare..
Scommetto che questa dolce catena che ti rannoda come un vincolo d’amore nei momenti d’intimità col Signore, vorremmo fosse eterna e ci avvincesse anche tutti i giorni, tutti i momenti della vita, anche quando, dopo aver finito di pregare, usciamo fuori dal nostro spazio riservato e intimo e ci immergiamo nei mille problemi della vita …vogliamo sentire piu’ vicini i passi di Maria che si mette alla nostra ricerca, sempre…guidandoci verso suo figlio.. come possiamo, allora, colmare queste distanze per non sentirli lontani? Che linguaggio useremo nel rosario, quale dono delle lingue?
Entrare a pieno nel mistero di Maria e di Dio sarà sempre difficile se non impossibile, sicuramente, ma possiamo pur sempre con spirito di desiderio tentare di avvicinarci all’incontro tra Gesù e l’uomo pellegrino grazie alla preghiera del rosario che accomuna tutti nella continua ricerca del cielo mentre siamo ancora su questa terra. Invochiamo Maria che ci indichi la via e ricordiamo che il Rosario raggiungerà il suo effetto, se, pregato e incarnato, riuscirà a sviluppare in noi tutta la vita del Cristo, dal suo concepimento, alla sua missione definitiva.
CHARITAS CHRISTI URGET NOS!
Marilena Marino Vocedivina,it “Gridatelo dai tetti..”
Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Ap. “Rosarium Virginis Mariae” definisce così il Rosario: «Il Rosario è contemplare con Maria il volto di Cristo, per conformarsi sempre più a lui» (RVM 3 e 15).
Il nostro momento di preghiera della recita del Rosario vuole rendere evidente questa dimensione contemplativa, come ci suggerisce il Papa (cf. RVM 26-38), accompagnando l’enunciazione di ogni mistero con un brano della Parola di Dio corrispondente, seguita da un pensiero meditativo e da una pausa di silenzio. Particolare importanza e significato dovrà avere la recita del Padre nostro, perché dal Padre parte ogni dono di grazia. Le 10 Ave Maria poi dovranno avere un ritmo tranquillo per favorire la meditazione ed il Gloria dovrà costituire come il culmine della contemplazione e della lode. Ogni mistero si concluderà con una preghiera, volta ad invocare frutti specifici per la vita quotidiana.
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
– O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto. Gloria…
– Gesù, perdona le nostre colpe. Preservaci dal fuoco dell’inferno. Porta in cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia.
– O Maria, Madre di misericordia, prega per noi!
– O Sangue ed Acqua, che scaturisti dal Cuore di Gesù come sorgente di misericordia per noi, confido in te!
(Segue: l’enunciazione del mistero, una pausa di silenzio, 1 Padre nostro, 10 Ave Maria, 1 Gloria, l’invocazione “Gesù, perdona…”, la preghiera conclusiva. Alla fine del Rosario, si aggiunge la Salve Regina, le Litanie alla Madonna, un Padre, Ave e Gloria secondo le intenzioni del Papa e un Eterno riposo per le anime del Purgatorio.
MISTERI DELLA GIOIA (Lunedì e Sabato)
Ricordare Cristo con Maria!
“Meditare i misteri «gaudiosi» significa entrare nelle motivazioni ultime e nel significato profondo della gioia cristiana. Significa fissare lo sguardo sulla concretezza del mi-stero dell’ Incarnazione e sull’oscuro preannuncio del mistero del dolore salvifico. Maria ci conduce ad apprendere il segreto della gioia cristiana, ricordandoci che il Cristianesimo è innanzitutto evanghelion, «buona notizia», che ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cri-sto, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo” (RVM 20).
Primo mistero:
L’Annunciazione dell’Angelo a Maria Vergine
“L’angelo Gabriele entrò da Maria e le disse: «Ti saluto, o piena di grazia. Il Signore è con te… Darai alla luce un Figlio, che chiamerai Gesù…». Maria rispose: “Ecco la serva del Signore: avvenga di me secondo la tua Parola” – (Lc 1, 28-38).
“A questo annuncio approda tutta la storia della salvezza, anzi, in certo modo, la storia stessa del mondo, che in qualche modo è raggiunto dal divino favore con cui il Padre si china su Maria per renderla Madre del suo Figlio” (RVM 20).
PREGHIAMO.
Vergine santa, aiutaci ad accogliere la Parola di Dio come te, con fede e disponibilità.
Pater, 10 Ave Maria, Gloria al Padre e “Gesù mio…“
Secondo mistero:
La visita di Maria alla cugina Elisabetta
“In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta” (Lc 1, s9-40).
“All’insegna dell’esultanza è la scena dell’incontro con Elisabetta, dove la voce stessa di Maria e la presenza di Cristo nel suo grembo fanno ‘sussultare di gioia Giovanni (cf. Le 1, 44)” (RVM 20).
PREGHIAMO.
Vergine benedetta, ottienici di portare Cristo ai fratelli, attraverso la testimonianza della nostra fede e della nostra carità.
Pater, 10 Ave Maria, Gloria al Padre e “Gesù mio…”
Terzo mistero:
La nascita di Gesù nella grotta di Betlemme
“Ora, mentre essi si trovavano là, giunse per lei il tempo di partorire. Ed essa partorì il suo Figlio primogenito. L’avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non vi era posto nell’albergo” (Lc 2,6-7).
“Soffusa di letizia è la scena di Betlemme, in cui la nascita del Bimbo divino, il Salvatore del mondo, è cantata dagli angeli e an-nunciata ai pastori proprio come ‘una grande gioia’ (Lc 2,10)” (RVM 20).
PREGHIAMO.
Vergine purissima, ottienici un cuore capace di accogliere, noi pure, il Cristo, nostra unica “via, verità e vita”(Gv 14, 6).
Pater, 10 Ave Maria, Gloria al Padre e “Gesù mio…”
Quarto mistero:
La presentazione di Gesù al Tempio
“Quando furono giunti i giorni della purificazione, secondo la Legge, lo portarono a Gerusalemme per offrirlo al Signore” (Lc 2, 22).
“La presentazione al Tempio mentre esprime la gioia della consacrazione e immerge nell’estasi il vecchio Simeone, registra anche la profezia del ‘segno di contraddizione’ che il Bimbo sarà per Israele e della spada che trafiggerà l’anima della Madre (cf. Lc 2, a4-3s)” (RVM 20).
PREGHIAMO.
Vergine misericordiosa, aiutaci a caricarci, come te e come Gesù, delle gioie e delle sofferenze degli altri.
Pater, 10 Ave Maria, Gloria al Padre e “Gesù mio…”
Quinto mistero:
Il ritrovamento di Gesù nel Tempio
“E quando Egli ebbe dodici anni […] mentre essi se ne ritornavano a casa, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme. […] Lo ritrovarono dopo tre giorni mentre disputava nel Tempio con i dottori” (Lc 2, 42- 46).
“Gesù qui appare nella sua divina sapienza, mentre ascolta ed interroga […]. La rivelazione del suo mistero di Figlio tutto dedito alle cose del Padre è annuncio di quella radicalità evangelica, che pone in crisi anche i legami più cari dell’uomo, di fronte alle esigenze assolute del Regno” (RVM 20).
PREGHIAMO.
Vergine fedele, aiutaci a mettere le cose di Dio al di sopra di tutto; e dona a coloro che cercano Cristo, di trovarlo nella sua Parola e nei suoi Sacramenti.
Pater, 10 Ave Maria, Gloria al Padre e “Gesù mio…” Salve Regina…
Idea Progettazione a cura di Marilena Marino Vocedivina.it
Tratto da una esperienza vera–Racconto autobiografico
Marilena AUDIOVOCE
La Quaresima del 97 Caterina ed Elena-Due Indissolubili Amori 27 Marzo
Dedicato a Donna Elena Mia Madre 27 Marzo
“Un’apoteosi, il periodo in cui nacquero i miei bambini: difficile immaginare una conversione simile! E se vi dicessi che, nonostante questo, la sofferenza venne a bussare alla nostra porta, lasciandoci ugualmente felici?! Perché la fede, non è quando va tutto liscio e non ti accade niente di brutto per strada. Non è un talismano, un portafortuna che tieni in tasca affinché gli avvenimenti tristi della vita non ti sfiorino, lasciando che la malaugurata sorte segni solo altre persone! Definirla sciagura sembra, in verità, un appellativo forte, ma in realtà, tale, posso chiamare il tragico evento che segnò, per la mia famiglia, una tappa molto dolorosa: morì la nostra quinta figlia, Caterina, e un fiocco nero sostituì quello che poteva essere un bellissimo color rosa sul mio portone. Il nome che avevo scelto per lei mi piaceva tantissimo, sapeva di cielo.. Infatti, venendo al mondo con una serie di problematiche fisiche, non sopravvisse a lungo… aveva deciso di non vivere, o meglio, qualcuno, nella sua sapienza divina, aveva stabilito per lei tale sorte, purtroppo! Che mistero la vita… non lo avrei mai immaginato.. nel giro di soli due giorni volò in Paradiso. Il tempo di uscire dall’ospedale per farle un degno funerale, il nome di battesimo impartito in fretta in una fredda stanza d’ospedale, ruppe l’incanto che stavamo vivendo, come un’ennesima grazia del cielo. Non sapevo ciò che il domani mi riservava… Un giorno, di ritorno dal ginecologo, mi fu diagnosticato un leggero calo di peso della nascitura… la mia bambina, dopo nove mesi scarsi di gestazione, ebbe giusto il tempo di regalarmi uno tra i più teneri vagiti della storia, che, poi, si partì da me, lasciandomi esterrefatta nella sala parto, mentre l’ostetrica cercava di condurla immediatamente in rianimazione per salvarle la vita… Attaccata ai fili, in quell’incubatrice, respirava a malapena, mentre scorgevo dei bellissimi capelli neri che le infoltivano il piccolo viso… Cercavo di osservarla il più a lungo possibile per fissare alla memoria il corpicino avvolto in quell’involucro di plastica a forma di botola, avendo già intuito, dai farfugliamenti concitati dei dottori, che scarse sarebbero state le speranze di sopravvivenza. Attorniati dai nostri amici, qualche giorno dopo, io e mio marito avemmo la forza di pronunciare qualche parola di conforto, durante la funzione religiosa, come piccoli testimoni nella fede, di un evento che aveva permesso questa grande prova dolorosa. Mentre una lapide bianca, adornata dal volto di un angelo, veniva apposta per sigillare il loculo dove giaceva la piccola salma, mi ricordai, stranamente, che Caterina era nata nello stesso giorno in cui ricorreva il compleanno di mia madre! Che coincidenza! “La morte è vinta dal Risorto”, c’era scritto sulla tomba… Non riuscivo a versare una lacrima, un silenzio pesante accompagnava, a passo lento, il funerale verso il piccolo cimitero. Entrambi, io e lui, percepivamo nel cuore che lei non era morta, anzi… Caterina, come fosse rimasta lì, quasi a consolarci, sembrava riempire della sua presenza le nostre anime afflitte, di un’impercettibile, strana gioia, paragonabile ad una sordida mestizia, dall’amaro profumo di mirra. Le lacrime, allora, cominciarono a scendere, ma non per la desolazione, bensì perché avevo avvertito qualcosa di bello attraversami l’anima… sì, di bello.. Di certo, la consapevolezza che tutto non era stato invano mettere al mondo una vita… lei, Caterina, sarebbe stata, per sempre, l’angelo più luminoso della famiglia, colei che avrebbe aiutato i fratelli e la sorella, in ogni momento di pericolo, avrebbe sostenuto tutti, col suo vegliare costantemente, nelle traversie e nelle necessità della vita. Certamente io avevo bisogno di lei, in quel momento, più che mai, ma altrettanto, il cielo desiderava la sua presenza, per meglio accorgersi ciò di cui, in terra, ci sarebbe stato sicuramente bisogno! Sentivo risuonare in me questa speranza, e i nostri cuori, fiaccati un po’ dal dolore, non si sentivano assaliti dalla disperazione, anzi.. avvertivamo una strana forza che ci sosteneva, mentre dalle nostre labbra saliva, impercettibile, solo una preghiera: sia fatta, Signore, la tua volontà! Scendere all’improvviso dalla vetta della felicità su cui avevamo piazzato le nostre tende, ci sembrò un’impresa assai ardua: non seppi spiegarmi perché Dio ci avesse messo così alla prova, in un primo momento. Non sapemmo decifrare un simile avvenimento, ma, poco dopo, il sereno ricominciò a colorare le nostre vite e, assieme all’ immancabile vuoto che lasciava, pensammo che Caterina non se ne sarebbe mai andata, sarebbe stata sempre presente, molto più che se fosse stata viva! Era, ormai, un angelo custode perfetto, pronto a offrire le nostre preghiere al Signore, come incenso della sera, quelle nostre e dei nostri figli”.
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Lettera Apostolica “Patris Corde” del Santo Padre Francesco
CON CUORE DI PADRE: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]
I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.
Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.
Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).
Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).
Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]
Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.
Padre amato
La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]
San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]
Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]
In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]
La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).
Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.
Padre nella tenerezza
Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).
Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).
Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).
La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).
Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]
Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).
Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.
Padre nell’obbedienza
Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]
Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.
Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).
In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).
Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).
L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.
San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]
In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.
Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).
Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).
Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]
Padre nell’accoglienza
Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]
Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.
La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.
La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.
Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).
Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.
L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).
Padre dal coraggio creativo
Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.
Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).
A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.
Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.
Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.
Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.
Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]
Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]
Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.
Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.
6 Padre lavoratore
Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.
In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.
Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?
La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!
Padre nell’ombra
Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]
Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.
Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).
Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.
La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).
Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.
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«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.
Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.
Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).
I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.
Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.
Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]
Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.
A lui rivolgiamo la nostra preghiera:
Salve, custode del Redentore, e sposo della Vergine Maria. A te Dio affidò il suo Figlio; in te Maria ripose la sua fiducia; con te Cristo diventò uomo. O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi, e guidaci nel cammino della vita. Ottienici grazia, misericordia e coraggio, e difendici da ogni male. Amen.
Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato. Francesco
Una delle più importanti reliquie al mondo si trova in Italia, a Perugia. È davvero il Sacro Anello con cui San Giuseppe sposò Maria?
Una straordinaria reliquia arrivata in Italia dall’Oriente. Secondo la tradizione tramandata, ma non comprovata, sarebbe stato lo stesso San Giuseppe a regalarlo a Maria per il loro matrimonio. Oggi è conservato in una cappella della cattedrale di San Lorenzo, a Perugia.
Il Sacro Anello che Giuseppe donò a Maria
Tantissime sono le reliquie dei Santi, di San Giuseppe, della Vergine Maria presenti al mondo. Ma ce ne è una che è, forse la più importante, quella che segna l’unione e l’inizio della Sacra Famiglia: è il Sacro Anello. Secondo la tradizione, Giuseppe l’avrebbe donato a Maria per chiederla in sposa.
Oggi, conservato nella Cattedrale di Perugia, per poterlo visionare, ci vogliono per 14 chiavi, poiché chiuso in uno dei forzieri più antichi. Potremmo dire a “prova di ladro”. Ebbene sì: il sacro anello è stato, più volte, rubato e, in più occasioni, anche acquistato.
L’acquisto nella città di Chiusi
La sua storia parte da molto lontano. Nel 985 d.C., un orafo della cittadina di Chiusi acquistò un anello diverso dagli altri da un commerciante ebreo. Nulla da eccepire, anche perché l’anello restò in Umbria fino al 1473, l’anno del suo furto.
Un frate di Magonza lo rubò per portarla nel suo paese. Ma durante la strada fu bloccato da una nebbia prodigiosa a Perugia, e decise di lasciare in quel luogo il Santo Anello. Custodito per quasi cinque secoli a Chiusi, oggi invece si trova nella Cattedrale di San Lorenzo in Perugia. La prima volta cui vi si fa cenno ufficialmente, è all’interno di un documento che porta la data del 25 maggio 1474, redatto dall’allora cancelliere comunale di Chiusi, Leonetto Cavallini.
L’estremo valore che ha per i fedeli
Secondo alcuni primi studi fatti, il sacro anello fu ricavato da un pezzo di onice, di fattura modesta. Per i più scettici, non viene considerato una vera e propria reliquia, ma per chi crede invece lo è. Per i fedeli “è un tesoro di inestimabile valore”, perché fu proprio con questo anello che Maria andò in sposa a Giuseppe di Nazareth.
La paura che potesse, ancora una volta esser trafugato, come accaduto nel 1400, ha portato, nei secoli successivi, a custodirlo in un vero e proprio forziere, più forte anche di una cassaforte, la cui apertura è possibile soltanto con 14 chiavi.
L’esposizione alla pubblica venerazione
Ci sono delle date particolari durante le quali il sacro anello veniva mostrato alla pubblica venerazione: il lunedì di Pentecoste, il 3 luglio ed il 3 agosto (per i pellegrini di ogni parte d’Italia di ritorno da Assisi, dove si recavano per ottenere l’indulgenza). È da ricordare, inoltre, che l’Anello non uscì mai dalle mura di Chiusi.
Il duca Filippo Maria Visconti, malato ad un occhio, chiese che gli fosse inviato a Milano, ma si vide rifiutare la richiesta nonostante le preghiere, suppliche e ordini di papa Eugenio IV e della signoria di Siena.
Cattedrale di San Lorenzo a Perugia: il luogo del Sacro Anello di Maria
Gli altri anelli presenti in Europa
Ma c’è una precisazione da fare: gli anelli di San Giuseppe, in Europa, se ne contano altri due, oltre a quello di Perugia. Quello del fidanzamento con Maria, conservato nella Cattedrale di Notre Dame e quello giornaliero, conservato a Messina nella chiesa di San Giuseppe.
Una storia che intreccia fede e tradizione, ma è simbolo di unione fra Maria e Giuseppe.
L’anello di Maria citato da Don Bosco si trova a Perugia. Ma pochi lo sanno