SULLA DIGNITÀ E VOCAZIONE DELLA DONNA
Meditazioni Anno Mariano Mese Maggio di Maria
Un segno dei tempi
1. LA DIGNITÀ DELLA DONNA e la sua vocazione – oggetto costante della riflessione umana e cristiana – hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più recenti. Ciò è dimostrato, tra l’altro, dagli interventi del Magistero della Chiesa, rispecchiati in vari documenti del Concilio Vaticano II, il quale afferma poi nel Messaggio finale: «Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. E’ per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere» [1]. Le parole di questo Messaggio riassumono ciò che aveva già trovato espressione nel Magistero conciliare, specie nella Costituzione pastorale Gaudium et spes [2] e nel Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem [3].
Simili prese di posizione si erano manifestate nel periodo preconciliare, per esempio in non pochi Discorsi del Papa Pio XII [4] e nell’Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII[5]. Dopo il Concilio Vaticano II, il mio Predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo «segno dei tempi», attribuendo il titolo di Dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena [6], ed istituendo, altresì, su richiesta dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita Commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la «promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne» [7]. In uno dei suoi Discorsi Paolo VI disse tra l’altro: «Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti (…); appare all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità» [8].
I Padri della recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 1987), dedicata a «la vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II», si sono di nuovo occupati della dignità e della vocazione della donna. Essi hanno auspicato, tra l’altro, l’approfondimento dei fondamenti antropologici e teologici necessari a risolvere i problemi relativi al significato e alla dignità dell’essere donna e dell’essere uomo. Si tratta di comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio. Solo partendo da questi fondamenti, che consentono di cogliere la profondità della dignità e della vocazione della donna, è possibile parlare della sua presenza attiva nella Chiesa e nella società.
E’ quanto intendo trattare nel presente Documento. L’Esortazione post-sinodale, che verrà resa pubblica dopo di esso, presenterà le proposte di indole pastorale circa il posto della donna nella Chiesa e nella società, sulle quali i Padri sinodali hanno fatto importanti considerazioni, avendo anche vagliato le testimonianze degli Uditori laici – donne e uomini – provenienti dalle Chiese particolari di tutti i continenti.
L’Anno Mariano
2. L’ultimo Sinodo si è svolto durante l’Anno Mariano, che offre un particolare impulso ad affrontare questo tema, come indica anche la Enciclica Redemptoris Mater [9]. Questa Enciclica sviluppa e attualizza l’insegnamento del Concilio Vaticano II, contenuto nel capitolo VIII della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium. Tale capitolo reca un titolo significativo: «La beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa». Maria – questa «donna» della Bibbia (cf. Gen 3, 15; Gv 2, 4; 19, 26) – appartiene intimamente al mistero salvifico di Cristo, e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero della Chiesa. Poiché «la Chiesa è in Cristo come un sacramento (…) dell’intima unione con Dio e della unità di tutto il genere umano» [10], la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare all’eccezionale legame tra questa «donna» e l’intera famiglia umana. Si tratta qui di ciascuno e di ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere umano, nei quali si realizza nel corso delle generazioni quella fondamentale eredità dell’intera umanità che è legata al mistero del «principio» biblico: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27) [11].
Questa eterna verità sull’uomo, uomo e donna – verità che è anche immutabilmente fissata nell’esperienza di tutti – costituisce contemporaneamente il mistero che soltanto nel «Verbo incarnato trova vera luce (…). Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione», come insegna il Concilio [12]. In questo «svelare l’uomo all’uomo» non bisogna forse scoprire un posto particolare per quella «donna», che fu la Madre di Cristo? Il «messaggio» di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, non può forse dire molto alla Chiesa e all’umanità circa la dignità e la vocazione della donna?
Proprio questa vuol essere la trama del presente Documento, che si inquadra nel vasto contesto dell’Anno Mariano, mentre ci si avvia al termine del secondo millennio dalla nascita di Cristo e all’inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a questo testo lo stile e il carattere di una meditazione.
DONNA – MADRE DI DIO
(THEOTÓKOS)
Unione con Dio
3. Quando «venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna». Con queste parole della Lettera ai Galati (4, 4) l’apostolo Paolo unisce tra loro i momenti principali che determinano in modo essenziale il compimento del mistero «prestabilito in Dio» (cf. Ef 1, 9). Il Figlio, Verbo consostanziale al Padre, nasce come uomo da una donna, quando viene «la pienezza del tempo». Questo avvenimento conduce al punto chiave della storia dell’uomo sulla terra, intesa come storia della salvezza. E’ significativo che l’apostolo non chiami la Madre di Cristo col nome proprio di «Maria», ma la definisca «donna»: ciò stabilisce una concordanza con le parole del Protovangelo nel Libro della Genesi (cf. 3, 15). Proprio quella «donna» è presente nell’evento centrale salvifico, che decide della «pienezza del tempo»: questo evento si realizza in lei e per mezzo di lei.
Così inizia l’evento centrale, l’evento chiave nella storia della salvezza, la Pasqua del Signore.
Tuttavia, vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla storia spirituale dell’uomo intesa nel modo più ampio, così come si esprime attraverso le diverse religioni del mondo. Appelliamoci qui alle parole del Concilio Vaticano II «Gli uomini si attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano: che cosa sia l’uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano il bene e il peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via per raggiungere la vera felicità, che cosa siano la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» [13]. «Dai tempi più antichi fino ad oggi, presso i vari popoli si trova una certa percezione di quella forza arcana che è presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si ha riconoscimento della suprema Divinità o anche del Padre» [14].
Sullo sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello spirito umano in cerca di Dio – a volte quasi «andando come a tentoni» (cf. At 17, 27) -, la «pienezza del tempo», di cui parla Paolo nella sua Lettera, mette in rilievo la risposta di Dio stesso, di colui «in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (cf. At 17, 28). E’ questi il Dio che«aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, e ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1-2). L’invio di questo Figlio, consostanziale al Padre, come uomo «nato da donna», costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un carattere salvifico, come insegna in un altro passo il Concilio Vaticano II: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf. Ef 2, 18; 2 Pt 1, 4)»[15].
La donna si trova al cuore di questo evento salvifico. L’autorivelazione di Dio, che è l’imperscrutabile unità della Trinità, è contenuta nelle sue linee fondamentali nell’annunciazione di Nazareth. «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo». «Come avverrà questo? Non conosco uomo». «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio (…). Nulla è impossibile a Dio» (cf. Lc 1, 31-37) [16].
E’ facile pensare a questo evento nella prospettiva della storia d’Israele, il popolo eletto di cui Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi nella prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali l’umanità da sempre cerca risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più l’assillano. Non si trova forse nell’annunciazione di Nazareth l’inizio di quella risposta definitiva, mediante la quale Dio stesso viene incontro alle inquietudini del cuore dell’uomo? [17] Qui non si tratta solo di parole di Dio rivelate per mezzo dei Profeti, ma, con questa risposta, realmente «il Verbo si fa carne» (cf. Gv 1, 14). Maria raggiunge così un’unione con Dio tale da superare tutte le attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto Israele e, in particolare, delle figlie di questo popolo eletto, le quali, in base alla promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe un giorno divenuta madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre che il Messia promesso sarebbe stato il «Figlio dell’Altissimo»? A partire dalla fede monoteista vetero-testamentaria ciò era difficilmente ipotizzabile. Solamente in forza dello Spirito Santo, che «stese la sua ombra» su di lei, Maria poteva accettare ciò che è «impossibile presso gli uomini, ma possibile presso Dio» (cf. Mc 10, 27).
Theotókos
4. In tal modo «la pienezza del tempo» manifesta la straordinaria dignità della «donna». Questa dignità consiste, da una parte, nell’elevazione soprannaturale all’unione con Dio in Gesù Cristo, che determina la profondissima finalità dell’esistenza di ogni uomo sia sulla terra che nell’eternità. Da questo punto di vista, la «donna» è la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano: rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne. D’altra parte, però, l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo alla «donna», Maria: l’unione tra madre e figlio. La Vergine di Nazareth diventa, infatti, la Madre di Dio.
Questa verità, accolta sin dall’inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione nel Concilio di Efeso (a. 431)[18]. Contrapponendosi all’opinione di Nestorio, che riteneva Maria esclusivamente madre di Gesù-uomo, questo Concilio mise in rilievo l’essenziale significato della maternità di Maria Vergine. Al momento dell’annunciazione, rispondendo col suo «fiat», Maria concepì un uomo che era Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque, è veramente la Madre di Dio, poiché la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, e neppure solo la «natura» umana. In questo modo il nome «Theotókos» – Madre di Dio – divenne il nome proprio dell’unione con Dio, concessa a Maria Vergine.
La particolare unione della «Theotókos» con Dio, che realizza nel modo più eminente la predestinazione soprannaturale all’unione col Padre elargita ad ogni uomo (filii in Filio), è pura grazia e, come tale, un dono dello Spirito. Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede Maria esprime la sua libera volontà, e dunque la piena partecipazione dell’«io» personale e femminile all’evento dell’incarnazione. Col suo «fiat», Maria diviene l’autentico soggetto di quell’unione con Dio, che si è realizzata nel mistero dell’incarnazione del Verbo consostanziale al Padre. Tutta l’azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell’«io» umano. Lo stesso avviene nell’annunciazione a Nazareth.
«Servire vuol dire regnare»
5. Questo evento possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo comprendiamo pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra l’Angelo e Maria nel saluto: «piena di grazia»[19]. L’intero dialogo dell’annunciazione rivela l’essenziale dimensione dell’evento: la dimensione soprannaturale (kecaritoméne)
Ma la grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona e nobilita. Pertanto, quella «pienezza di grazia», concessa alla Vergine di Nazareth, in vista del suo divenire «Theotókos», significa allo stesso tempo la pienezza della perfezione di ciò «che è caratteristico della donna», di «ciò che è femminile». Ci troviamo qui, in un certo senso, al punto culminante, all’archetipo della personale dignità della donna.
Quando Maria risponde alle parole del celeste messaggero col suo «fiat», la «piena di grazia» sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo al dono che le è stato rivelato, dicendo: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1, 38). Questa frase non può essere privata né sminuita del suo senso profondo, estraendola artificialmente da tutto il contesto dell’evento e da tutto il contenuto della verità rivelata su Dio e sull’uomo. Nell’espressione «serva del Signore» si fa sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere creatura in rapporto a Dio. Tuttavia, la parola «serva», verso la fine del dialogo dell’annunciazione, si inscrive nell’intera prospettiva della storia della Madre e del Figlio. Difatti, questo Figlio, che è vero e consostanziale «Figlio dell’Altissimo», dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante della sua missione: «Il Figlio dell’uomo (…) non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10, 45).
Cristo porta sempre in sé la coscienza di essere «servo del Signore», secondo la profezia di Isaia (cf. 42, 1; 49, 3. 6; 52, 13), in cui è racchiuso il contenuto essenziale della sua missione messianica: la consapevolezza di essere il Redentore del mondo. Maria sin dal primo momento della sua maternità divina, della sua unione col Figlio che «il Padre ha mandato nel mondo, perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (cf. Gv 3, 17), si inserisce nel servizio messianico di Cristo[20]. E’ proprio questo servizio a costituire il fondamento stesso di quel Regno, in cui «servire (…) vuol dire regnare»[21]. Cristo, «servo del Signore», manifesterà a tutti gli uomini la dignità regale del servizio, con la quale è strettamente collegata la vocazione d’ogni uomo.
Così, considerando la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno nella presente meditazione dell’Anno Mariano. Tale realtà determina anche l’essenziale orizzonte della riflessione sulla dignità e sulla vocazione della donna. Nel pensare, dire o fare qualcosa in ordine alla dignità e alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il cuore e le opere da questo orizzonte. La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva nell’unione con Dio. Maria – la donna della Bibbia – è la più compiuta espressione di questa dignità e di questa vocazione. Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della dimensione di questa immagine e somiglianza.
IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO
Libro della Genesi
6. Dobbiamo collocarci nel contesto di quel «principio» biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come «immagine e somiglianza di Dio» costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana[22]. «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche fondamentali: l’uomo è l’apice di tutto l’ordine del creato nel mondo visibile – il genere umano, che prende inizio dalla chiamata all’esistenza dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione -; ambedue sono esseri umani, in egual grado l’uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio. Questa immagine e somiglianza con Dio, essenziale per l’uomo, dall’uomo e dalla donna, come sposi e genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela» (Gen 1, 28). Il Creatore affida il «dominio» della terra al genere umano, a tutte le persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità e vocazione dal comune «principio».
Nella Genesi troviamo ancora un’altra descrizione della creazione dell’uomo – uomo e donna (cf. 2, 18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d’ora, tuttavia, bisogna affermare che dalla notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell’essere umano. L’uomo è una persona, in eguale misura l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l’uomo simile a Dio è il fatto che – diversamente da tutto il mondo delle creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi (animalia) –l’uomo è anche un essere razionale (animal rationale)[23]. Grazie a questa proprietà l’uomo e la donna possono «dominare» sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1, 28).
Nella seconda descrizione della creazione dell’uomo (cf. Gen 2, 18-25) il linguaggio in cui viene espressa la verità sulla creazione dell’uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo senso è meno preciso, è – si potrebbe dire – più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due testi. Il testo di Genesi 2, 18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo nel passo conciso di Genesi 1, 27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente ad esso, aiuta a comprendere in modo ancora più profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio come uomo e donna.
Nella descrizione di Genesi 2, 18-25 la donna viene creata da Dio «dalla costola» dell’uomo ed è posta come un altro «io», come un interlocutore accanto all’uomo, il quale nel mondo circostante delle creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un «aiuto» adatto a sé. La donna, chiamata in tal modo all’esistenza, è immediatamente riconosciuta dall’uomo come «carne della sua carne e osso delle sue ossa» (cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: ‘is – ‘issah, cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna (‘issah), perché dall’uomo (‘is) è stata tolta» (Gen 2, 23).
Il testo biblico fornisce sufficienti basi per ravvisare l’essenziale uguaglianza dell’uomo e della donna dal punto di vista dell’umanità[24]. Ambedue sin dall’inizio sono persone, a differenza degli altri esseri viventi del mondo che li circonda. La donna è un altro «io» nella comune umanità. Sin dall’inizio essi appaiono come «unità dei due», e ciò significa il superamento dell’originaria solitudine, nella quale l’uomo non trova «un aiuto che gli sia simile» (Gen 2, 20). Si tratta qui solo dell’«aiuto» nell’azione, nel «soggiogare la terra»? (cf. Gen 1, 28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l’uomo può unirsi divenendo con lei «una sola carne» e abbandonando per questo «suo padre e sua madre» (cf. Gen 2, 24). La descrizione biblica, dunque, parla dell’istituzione, da parte di Dio, del matrimonio contestualmente con la creazione dell’uomo e della donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita alle nuove generazioni degli uomini, alla quale il matrimonio e l’amore coniugale per loro natura sono ordinati: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela» (Gen 1, 28).
III Persona – Comunione – Dono
7. Penetrando col pensiero l’insieme della descrizione di Genesi 2, 18-25, ed interpretandola alla luce della verità sull’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 26-27), possiamo comprendere ancora più pienamente in che cosa consista il carattere personale dell’essere umano, grazie al quale ambedue – l’uomo e la donna – sono simili a Dio. Ogni singolo uomo, infatti, è ad immagine di Dio in quanto creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo, inoltre, che l’uomo non può esistere «solo» (cf. Gen 2, 18); può esistere soltanto come «unità dei due», e dunque in relazione ad un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all’altro «io». Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
All’inizio della Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l’Antico Testamento è soprattutto la rivelazione della verità circa l’unicità e l’unità di Dio. In questa fondamentale verità su Dio il Nuovo Testamento introdurrà la rivelazione dell’imperscrutabile mistero della vita intima di Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità nella Trinità: è unità nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce anche su quella somiglianza ed immagine di Dio nell’uomo, di cui parla il Libro della Genesi. Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come «unità dei due» nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano nell’intimo mistero dell’unica vita divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l’unità della divinità, esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf. 1 Gv 4, 16).
L’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime pertanto anche l’«unità dei due» nella comune umanità. Questa «unità dei due», che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina («communio»). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell’essere personale di tutt’e due, dell’uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito. Sull’immagine e somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal «principio», è radicato il fondamento di tutto l’«ethos» umano: l’Antico e il Nuovo Testamento svilupperanno tale «ethos», il cui vertice è il comandamento dell’amore [25].
Nell’«unità dei due» l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad esistere «uno accanto all’altra» oppure «insieme», ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente «l’uno per l’altro».
Viene così spiegato anche il significato di quell’«aiuto», di cui si parla in Genesi 2, 18-25: «Gli darò un aiuto simile a lui». Il contesto biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve «aiutare» l’uomo – e a sua volta questi deve aiutare lei – prima di tutto a causa del loro stesso «essere persona umana»: il che, in un certo senso, permette all’uno e all’altra di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità. E’ facile comprendere che – su questo piano fondamentale – si tratta di un «aiuto» da ambedue le parti e di un «aiuto» reciproco. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2, 18-25 indica che il matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però non è l’unica. Tutta la storia dell’uomo sulla terra si realizza nell’ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere «per» l’altro, nella «comunione» interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è «maschile» e di ciò che è «femminile». I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci permettono costantemente di ritrovare il terreno in cui si radica la verità sull’uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti mutamenti dell’esistenza umana.
Questa verità riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel capitolo sulla «comunità degli uomini» della Costituzione pastorale Gaudium et spes leggiamo: «Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché “tutti siano una cosa sola” (Gv 17, 21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé» [26].
Con queste parole il testo conciliare presenta sinteticamente l’insieme della verità sull’uomo e sulla donna – verità che si delinea già nei primi capitoli del Libro della Genesi – come la stessa struttura portante dell’antropologia biblica e cristiana. L’uomo – sia uomo che donna – è l’unico essere tra le creature del mondo visibile che Dio Creatore «ha voluto per se stesso»: è dunque una persona. L’essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla del «ritrovarsi»), che non può compiersi se non «mediante un dono sincero di sé».
Modello di una tale interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di Persone. Dire che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l’uomo è chiamato ad esistere «per» gli altri, a diventare un dono.
Ciò riguarda ogni essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità propria dell’una e dell’altro. Nell’ambito della presente meditazione circa la dignità e la vocazione della donna, questa verità sull’essere umano costituisce l‘indispensabile punto di partenza. Già il Libro della Genesi permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale della relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la verità sulla maternità, nonché quella sulla verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla luce della Rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più alta espressione all’avvento della «pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4) nella figura della «donna» di Nazareth: Madre-Vergine.
L’antropomorfismo del linguaggio biblico
8. La presentazione dell’uomo come «immagine e somiglianza di Dio» subito all’inizio della Sacra Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto costituisce la chiave per comprendere la Rivelazione biblica come un discorso di Dio su se stesso. Parlando di sé sia «per mezzo dei profeti, sia per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1. 2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio umano, usa concetti e immagini umane. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo, la ragione sta nel fatto che l’uomo è «simile» a Dio: creato a sua immagine e somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura «simile» all’uomo, e, proprio in base a questa somiglianza, egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio della Bibbia è sufficientemente preciso per segnare i limiti della «somiglianza», i limiti dell’«analogia». Infatti, la rivelazione biblica afferma che, se è vera la «somiglianza» dell’uomo con Dio, è ancor più essenzialmente vera la «non somiglianza»[27], che separa dal Creatore tutta la creazione. In definitiva, per l’uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui «che abita una luce inaccessibile» (1 Tm 6, 16): è il «Diverso» per essenza, il «totalmente Altro».
Questa osservazione sui limiti dell’analogia – limiti della somiglianza dell’uomo con Dio nel linguaggio biblico – deve essere tenuta in considerazione anche quando, in diversi passi della Sacra Scrittura (specie nell’Antico Testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio qualità «maschili» oppure «femminili». Troviamo in essi l’indiretta conferma della verità che ambedue, sia l’uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c’è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia «maschili» sia «femminili».
Riportiamo qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (49, 14-15). E altrove: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati» (Is 66, 13). Anche nei Salmi Dio viene paragonato a una madre premurosa: «Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore» (Sal 131, 2-3). In diversi passi l’amore di Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una madre, Dio «ha portato» l’umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42, 14; 46, 3-4). L’amore di Dio è presentato in molti passi come amore «maschile» dello sposo e padre (cf. Os 11, 1-4; Ger 3, 4-19), ma talvolta anche come amore «femminile» della madre.
Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica anche indirettamente il mistero dell’eterno «generare», che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo «generare» in se stesso non possiede qualità «maschili» né «femminili». E’ di natura totalmente divina. E’ spirituale nel modo più perfetto, poiché «Dio è spirito» (Gv 4, 24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né «femminile» né «maschile». Dunque, anche la «paternità» in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale «maschile», che è propria della paternità umana. In questo senso l’Antico Testamento parlava di Dio come di un Padre e si rivolgeva a lui come ad un Padre. Gesù Cristo, che ha posto questa verità al centro stesso del suo Vangelo come normativa della preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio chiamandolo: «Abbà Padre» (Mc 14, 36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino. Parlava come Figlio, legato al Padre dall’eterno mistero del generare divino, e ciò faceva essendo nello stesso tempo Figlio autenticamente umano della sua Madre Vergine.
Se all’eterna generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la paternità divina possiede caratteri «maschili» in senso fisico, si deve invece cercare in Dio il modello assoluto di ogni «generazione» nel mondo degli esseri umani. In un tale senso – sembra – leggiamo nella Lettera agli Efesini: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (3, 14-15). Ogni «generare» nella dimensione delle creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo completamente divino, cioè spirituale. A questo modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni «generare» nel mondo creato. Perciò tutto quanto nel generare umano è proprio dell’uomo, come pure tutto quanto è proprio della donna, ossia la «paternità» e «la maternità» umane, porta in sé la somiglianza, ossia l’analogia col «generare» divino e con quella «paternità» che in Dio è «totalmente diversa»: completamente spirituale e divina per essenza. Nell’ordine umano, invece, il generare è proprio dell’«unità dei due»: ambedue sono «genitori», sia l’uomo sia la donna.
IV
EVA – MARIA
Il «principio» e il peccato
9. «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio»[28]. Con queste parole l’insegnamento dell’ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul peccato e, in particolare, su quel primo peccato che è quello «originale». Il biblico «principio» – la creazione del mondo e dell’uomo nel mondo – contiene in sé al tempo stesso la verità su questo peccato, che può essere chiamato anche il peccato del «principio» dell’uomo sulla terra. Anche se ciò che è scritto nel Libro della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso della descrizione della creazione dell’uomo come maschio e femmina (cf. Gen 2, 18-25), al tempo stesso svela ciò che bisogna chiamare «il mistero del peccato» e, più pienamente ancora, «il mistero del male» esistente nel mondo creato da Dio.
Non è possibile leggere «il mistero del peccato» senza fare riferimento a tutta la verità circa l’«immagine e somiglianza» con Dio, che sta alla base dell’antropologia biblica. Questa verità presenta la creazione dell’uomo come una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale sono contenuti non solo il fondamento e la fonte dell’essenziale dignità dell’essere umano – uomo e donna – nel mondo creato, ma anche l’inizio della chiamata di tutt’e due a partecipare alla vita intima di Dio stesso. Alla luce della Rivelazione creazione significa nello stesso tempo inizio della storia della salvezza. Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si configura come contrasto e negazione.
Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (c. 3) è la conferma della verità circa l’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, se questa verità significa la libertà, cioè la libera volontà, di cui l’uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche abusare scegliendo, contro la volontà di Dio, il male. Nel suo significato essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che Dio è – come creatore – in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso «come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il peccato delle origini ha la sua «misura» umana, il suo metro interiore nella libera volontà dell’uomo ed insieme porta in sé una certa caratteristica «diabolica»[29], come è messo chiaramente in rilievo nel Libro della Genesi (3, 1-5). Il peccato opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio «io», nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna («communio personarum») e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura.
La descrizione biblica del peccato originale in Genesi (c. 3) in un certo modo «distribuisce i ruoli» che in esso hanno avuto la donna e l’uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni passi della Bibbia, come, per esempio, la Lettera paolina a Timoteo: «Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna» (1 Tm 2, 1314). Non c’è dubbio, tuttavia, che, indipendentemente da questa «distribuzione delle parti» nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato dell’uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso è anche il peccato dei «progenitori» al quale è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo chiamiamo «peccato originale».
Tale peccato, come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell’essere umano – uomo e donna – a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo di tale riferimento si può capire anche il mistero di quella «non-somiglianza» con Dio, nella quale consiste il peccato e che si manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella «non-somiglianza» con Dio, che «solo è buono» (cf. Mt 19, 17) ed è la pienezza del bene. Se questa «non-somiglianza» del peccato con Dio, la stessa Santità, presuppone la «somiglianza» nel campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per questa ragione la «non somiglianza» contenuta nel peccato è tanto più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna anche ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui toccato, «offeso» e, ovviamente, offeso nel cuore stesso di quella donazione che appartiene all’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo.
Nello stesso tempo, però, anche l‘essere umano – uomo e donna – viene toccato dal male del peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi (c. 3) lo mostra con le parole che descrivono chiaramente la nuova situazione dell’uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della «fatica» con cui l’uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen 3, 17-19), nonché quella dei grandi «dolori» con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen 3, 16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla necessità della morte, che costituisce il termine della vita umana sulla terra. In questo modo l’uomo, come polvere, «tornerà alla terra, perché da essa è stato tratto»: «Polvere tu sei e in polvere tornerai» (cf. Gen 3, 19).
Queste parole trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che l’immagine e la somiglianza di Dio nell’essere umano, sia donna che uomo, è stata distrutta dal peccato; significano, invece, che è stata «offuscata»[30] e, in un certo senso, «diminuita». Il peccato, infatti, «diminuisce» l’uomo, come ricorda anche il Concilio Vaticano II[31]. Se l’uomo, già per la sua stessa natura di persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la sua dignità si realizzano nell’alleanza con Dio, nell’unione con lui, nel tendere a quella fondamentale unità che appartiene alla «logica» interiore del mistero stesso della creazione. Questa unità corrisponde alla profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza e, in particolare, dell’uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è stato sin dall’inizio elevato, mediante l’eterna elezione da parte di Dio in Gesù: «In Cristo (…) egli ci ha scelti prima della creazione del mondo (…) nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà» (cf. Ef 1, 4-6). L’insegnamento biblico nel suo insieme ci consente di dire che la predestinazione riguarda tutte le persone umane, uommi e donne, ciascuno e ciascuna senza eccezione.
«Egli ti dominerà»
10. La descrizione biblica del Libro della Genesi delinea la verità circa le conseguenze del peccato dell’uomo, come indica, altresì, il turbamento di quell’originaria relazione tra l’uomo e la donna che corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L’uomo, sia maschio che femmina, è una persona e, dunque, «la sola creatura che sulla terra Dio abbia voluto per se stessa»; e nello stesso tempo proprio questa creatura unica e irripetibile «non può ritrovarsi se non mediante un dono sincero di sé»[32]. Da qui prende inizio il rapporto di «comunione», nella quale si esprimono l’«unità dei due» e la dignità personale sia dell’uomo che della donna. Quando dunque leggiamo nella descrizione biblica le parole rivolte alla donna: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gen 3, 16), scopriamo una rottura e una costante minaccia proprio nei riguardi di questa «unità dei due», che corrisponde alla dignità dell’immagine e della somiglianza di Dio in ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all’essere un dono sincero, e perciò al vivere «per» l’altro subentra il dominio: «Egli ti dominerà». Questo «dominio» indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell’«unità dei due» possiedono l’uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l’eguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un’autentica «communio personarum». Se la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio Creatore, comporta un elemento a sfavore della donna, nello stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell’uomo. Tocchiamo qui un punto estremamente sensibile nella dimensione di quell’«ethos» che è inscritto originariamente dal Creatore già nel fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza.
Questa affermazione di Genesi 3, 16 è di una grande, significativa portata. Essa implica un riferimento alla reciproca relazione dell’uomo e della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio nato nel clima dell’amore sponsale, che fa sì che «il dono sincero di sé» da parte della donna trovi risposta e completamento in un analogo «dono» da parte del marito. Solamente in base a questo principio tutt’e due, e in particolare la donna, possono «ritrovarsi» come vera«unità dei due» secondo la dignità della persona. L’unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento della vera soggettività personale di tutti e due. La donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile. Ma le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature conseguenze nell’uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria, essi portano in sé il costante «fomite del peccato», cioè la tendenza a intaccare quell’ordine morale, che corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell’uomo come persona. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (cf. 1 Gv 2, 16). Le parole della Genesi, riportate precedentemente (3, 16), indicano in che modo questa triplice concupiscenza, quale «fomite del peccato», graverà sul reciproco rapporto dell’uomo e della donna.
Quelle stesse parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente raggiungono i diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la donna rimane svantaggiata o discriminata per il fatto di essere donna. La verità rivelata sulla creazione dell’uomo come maschio e femmina costituisce il principale argomento contro tutte le situazioni, che, essendo oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed esprimono l’eredità del peccato che tutti gli esseri umani portano in sé. I Libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l’effettiva esistenza di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal male e di liberarsi dal peccato: da ciò che reca offesa all’altro, che «sminuisce» l’uomo, non solo colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è l’immutabile messaggio della Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime l’«ethos» biblico sino alla fine[33].
Ai nostri tempi la questione dei «diritti della donna» ha acquistato un nuovo significato nel vasto contesto dei diritti della persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato e in vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità sull’«unità» dei «due», cioè su quella dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e originalità personale dell’uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò che esprimono le parole bibliche: «Egli ti dominerà» (Gen 3, 16) non può a nessuna condizione condurre alla «mascolinizzazione» delle donne. La donna – nel nome della liberazione dal «dominio» dell’uomo – non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua propria «originalità» femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si «realizzerà», ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l’esclamazione del primo uomo alla vista della donna creata è un’esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra.
Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque – come, del resto, anche l’uomo – deve intendere la sua «realizzazione» come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’«immagine e somiglianza di Dio». Solamente su questa via può essere superata anche quell’eredità del peccato che è suggerita dalle parole della Bibbia: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il superamento di questa cattiva eredità è, di generazione in generazione, compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi nei quali l’uomo è responsabile di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna, egli agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione.
Protovangelo
11. Il Libro della Genesi attesta il peccato che è il male del «principio» dell’uomo, le sue conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere umano, ed insieme contiene il primo annuncio della vittoria sul male, sul peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3, 15 solitamente dette «Protovangelo»: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». E’ significativo che l’annuncio del redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste parole, riguardi «la donna». Questa è nominata al primo posto nel Proto-vangelo come progenitrice di colui che sarà il redentore dell’uomo[34]. E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro il male, per mezzo dell’«inimicizia» tra la stirpe della donna e la stirpe di colui che, come «padre della menzogna» (Gv 8, 44), è il primo autore del peccato nella storia dell’uomo, questa sarà anche l‘inimicizia tra lui e la donna.
In queste parole si schiude la prospettiva di tutta la Rivelazione, prima come preparazione al Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto il nome della donna le due figure femminili: Eva e Maria.
Le parole del Protovangelo, rilette alla luce del Nuovo Testamento, esprimono adeguatamente la missione della donna nella lotta salvifica del redentore contro l’autore del male nella storia dell’uomo.
Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede ricevuta dalla Rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi frequentemente dai Padri, dagli scrittori ecclesiastici e dai teologi[35]. Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come «madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20), è testimone del «principio» biblico, in cui sono contenute la verità sulla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo «principio» e della «creatura nuova» (cfr. 2 Cor 5, 17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è «creatura nuova»: è la «piena di grazia». E’ difficile comprendere perché le parole del Protovangelo mettano così fortemente in risalto la «donna», se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva Alleanza di Dio con l’umanità, l‘Alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con una donna, la «donna», nell’annunciazione a Nazareth. Questa è l’assoluta novità del Vangelo: altre volte nell’Antico Testamento Dio, per intervenire nella storia del suo Popolo, si era rivolto a delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua Alleanza con l’umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè. All’inizio della Nuova Alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c’è la donna: la Vergine di Nazareth. Si tratta di un segno indicativo che «in Gesù Cristo» «non c’è più uomo né donna» (Gal 3, 28). In lui la reciproca contrapposizione tra l’uomo e la donna – come retaggio del peccato originale – viene essenzialmente superata. «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù», – scriverà l’Apostolo (Gal 3, 28).
Queste parole trattano di quell’originaria «unità dei due» che è legata alla creazione dell’uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di Persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della redenzione dell’uomo in Gesù Cristo, figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all’eterno disegno di Dio Creatore. Proprio per questo, il giorno della creazione dell’uomo come maschio e femmina «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1, 31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato essenzialmente «sminuito» dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell’uomo.
La «donna» del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della «donna», il cui inizio è Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20): prima di tutto lo assume e lo abbraccia all’interno del mistero di Cristo – «nuovo ed ultimo Adamo» (cf. 1 Cor 15, 45) -, il quale ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L’essenza della Nuova Alleanza consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consostanziale all’eterno Padre, diventa uomo: accoglie l’umanità nell’unità della Persona divina del Verbo. Colui che opera la Redenzione è al tempo stesso un vero uomo. Il mistero della Redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l’umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, «escluso il peccato» (Eb 4, 15). In questo modo egli ha «svelato anche pienamente l’uomo all’uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione», come insegna il Concilio Vaticano II[36]. In un certo senso, lo ha aiutato a riscoprire «chi è l’uomo» (cf. Sal 8, 5).
In tutte le generazioni, nella tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa, l’accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con quello Eva-Maria. Se Maria è descritta anche come «nuova Eva», quali possono essere i significati di questa analogia? Sono certamente molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica «donna»: una rivelazione commisurata al mistero della Redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il Libro della Genesi (3, 16) e riandare verso quel «principio» in cui si ritrova la «donna» così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è «il nuovo principio» della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna[37].
Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall’evangelista sulle labbra di Maria dopo l’annunciazione, durante la sua visita a Elisabetta: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1, 49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è «Figlio dell’Altissimo» (Lc 1, 32), il «santo» di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la scoperta della propria umanità femminile. «Grandi cose ha fatto in me»: questa è la scoperta di tutta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l’eterna originalità della «donna», così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente «mediante un dono sincero di sé».
Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell’elargizione da parte di Dio. Il peccato già al «principio» aveva offuscato questa consapevolezza, in un certo senso l’aveva soffocata, come indicano le parole della prima tentazione ad opera del «padre della menzogna» (cf. Gen 3, 1-5). All’avvento della «pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4), mentre comincia a compiersi nella storia dell’umanità il mistero della redenzione, questa consapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica «donna» di Nazareth. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell’umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.
V
GESU’ CRISTO
“Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna”
12. Le parole del Protovangelo nel Libro della Genesi ci permettono di trasferirci nell’ambito del Vangelo. La redenzione dell’uomo, là annunciata, qui diventa realtà nella persona e nella missione di Gesù Cristo, nelle quali riconosciamo anche ciò che la realtà della redenzione significa per la dignità e la vocazione della donna. Questo significato ci viene maggiormente chiarito dalle parole di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente semplice e, proprio per questo, straordinario, se visto sullo sfondo del suo tempo: è un atteggiamento caratterizzato da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della missione di Gesù di Nazareth, e l’incontro con ciascuna di esse è una conferma della «novità di vita» evangelica, di cui già si è parlato.
E’ universalmente ammesso – persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte al messaggio cristiano – che Cristo si sia fatto davanti ai suoi contemporanei promotore della vera dignità della donna e della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provocava stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: «Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna» (Gv 4, 27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. «Si meravigliavano», anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, «pensò tra di sé: ” Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”» (Lc 7, 39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di «santo sdegno», dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole di Cristo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt 21, 31).
Colui che parlava ed agiva così faceva capire che «i misteri del Regno» gli erano noti fino in fondo. Egli anche «sapeva quello che c’è in ogni uomo» (Gv 2, 25), nel suo intimo, nel suo «cuore». Era testimone dell’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza, come uomo e donna. Era anche consapevole fino in fondo delle conseguenze del peccato, di quel «mistero d’iniquità» operante nei cuori umani come amaro frutto dell’offuscamento dell’immagine divina. Quanto è significativo il fatto che, nel fondamentale colloquio sul matrimonio e sulla sua indissolubilità, Gesù, davanti ai suoi interlocutori, che erano per ufficio i conoscitori della Legge, «gli scribi», faccia riferimento al «principio». La questione posta è quella del diritto «maschile» di «ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo» (Mt 19, 3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: «Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via» (Mt 19, 7). Gesù risponde: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu cosi» (Mt 19, 8). Gesù s’appella al «principio», alla creazione dell’uomo come maschio e femmina e a quell’ordinamento di Dio, che si fonda sul fatto che tutt’e due sono stati creati «a sua immagine e somiglianza». Perciò, quando l’uomo «lascia suo padre e sua madre» unendosi a sua moglie, così che i due diventino «una carne sola», rimane in vigore la legge che proviene da Dio stesso: «Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19, 6).
Il principio di questo «ethos», che sin dall’inizio è stato inscritto nella realtà della creazione, viene ora confermato da Cristo contro quella tradizione, che comportava la discriminazione della donna. In questa tradizione il maschio «dominava», non tenendo adeguatamente conto della donna e di quella dignità, che l’«ethos» della creazione ha posto alla base dei reciproci rapporti delle due persone unite in matrimonio. Questo «ethos» viene ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è l’«ethos» del Vangelo e della redenzione.
Le donne del Vangelo
13. Scorrendo le pagine del Vangelo, passa davanti ai nostri occhi un gran numero di donne, di diversa età e di diverso stato. Incontriamo donne colpite da malattia o da sofferenze fisiche, come la donna che aveva «uno spirito che la teneva inferma, era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo» (cf. Lc 13, 11), o come la suocera di Simone che era «a letto con la febbre» (Mc 1, 30), o come la donna «affetta da emorragia» (cf. Mc 5, 25-34), che non poteva toccare nessuno, perché si riteneva che il suo tocco rendesse l’uomo «impuro». Ciascuna di loro fu guarita, e l’ultima, l’emorroissa, che toccò il mantello di Gesù «tra la folla» (Mc 5, 27), fu da lui lodata per la grande fede: «La tua fede ti ha salvata» (Mc 5, 34). C’è poi la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita, rivolgendosi a lei con tenerezza: «Fanciulla, io ti dico, alzati!» (Mc 5, 41). E ancora c’è la vedova di Nain, alla quale Gesù fa ritornare in vita l’unico figlio, accompagnando il suo gesto con un’espressione di affettuosa pietà: «Ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”» (Lc 7, 13). E infine c’è la Cananea, una donna che merita da parte di Cristo parole di speciale apprezzamento per la sua fede, la sua umiltà e per quella grandezza di spirito, di cui è capace soltanto un cuore di madre: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri» (Mt 15, 28). La donna cananea chiedeva la guarigione della figlia.
A volte le donne, che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano, mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi, annunciando il Vangelo del Regno di Dio; e «li assistevano con i loro beni». Il Vangelo nomina tra loro Giovanna, moglie dell’amministratore di Erode, Susanna e «molte altre» (cf. Lc 8, 1-3).
A volte figure di donne compaiono nelle parabole, con le quali Gesù di Nazareth illustrava ai suoi ascoltatori la verità sul Regno di Dio. Così è nelle parabole della dramma perduta (cf. Lc 15, 8-10), del lievito (cf. Mt 13, 33), delle vergini sagge e delle vergini stolte (cf. Mt 25, 1-13). Particolarmente eloquente è il racconto dell’obolo della vedova. Mentre «i ricchi (…) gettavano le loro offerte nel tesoro (…), una vedova povera vi gettò due spiccioli». Allora Gesù disse: «Questa vedova, povera, ha messo più di tutti (…), nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere» (Lc 21, 1-4). In questo modo Gesù la presenta come modello per tutti e la difende, poiché, nel sistema socio-giuridico di allora, le vedove erano esseri totalmente indifesi (cf. anche Lc 18, 1-7).
In tutto l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata «figlia di Abramo» (Lc 13, 16): mentre in tutta la Bibbia il titolo di «figlio di Abramo» è riferito solo agli uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me» (Lc 23, 28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne, nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara «novità» rispetto al costume allora dominante.
Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l’opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere. Ecco la Samaritana, alla quale lo stesso Gesù dice: «Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito». Ed essa, sentendo che egli conosceva i segreti della sua vita, riconosce in lui il Messia e corre ad annunciarlo ai suoi compaesani. Il dialogo, che precede questo riconoscimento, è uno dei più belli del Vangelo (cf. Gv 4, 7-27).
Ecco poi una pubblica peccatrice, che, nonostante la condanna da parte dell’opinione comune, entra nella casa del fariseo per ungere con olio profumato i piedi di Gesù. All’ospite che si scandalizzava di questo fatto egli dirà di lei: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (cf. Lc 7, 37-47).
Ecco, infine, una situazione che è forse la più eloquente: una donna sorpresa in adulterio è condotta da Gesù. Alla domanda provocatoria: «Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?», Gesù risponde: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». La forza di verità, contenuta in questa risposta, è così grande che «se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani». Rimangono solo Gesù e la donna. «Dove sono? Nessuno ti ha condannata?». «Nessuno, Signore». «Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più» (cf. Gv 8, 3-11).
Questi episodi costituiscono un quadro d’insieme molto trasparente. Cristo è colui che «sa che cosa c’è nell’uomo» (cf. Gv 2, 25), nell’uomo e nella donna. Conosce la dignità dell’uomo, il suo pregio agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo pregio. Tutto ciò che dice e che fa ha definitivo compimento nel mistero pasquale della redenzione. L’atteggiamento di Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio messianico, è il riflesso dell’eterno disegno di Dio, che, creando ciascuna di loro, la sceglie e la ama in Cristo (cf. Ef 1, 1-5). Ciascuna, perciò, è quella «sola creatura in terra che Dio ha voluto per se stessa». Ciascuna dal «principio» eredita la dignità di persona proprio come donna. Gesù di Nazareth conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa un contenuto del Vangelo e della redenzione, per la quale è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del mistero pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In questo modo tutto si spiega compiutamente.
La donna sorpresa in adulterio
14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall’eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l’altro nel costume che discrimina la donna in favore dell’uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l’episodio della donna «sorpresa in adulterio» (cf. Gv 8, 3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: «Non peccare più», ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l’accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia «maschile», dei vostri abusi?
E’ questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è esposta all’opinione pubblica con «il suo peccato», mentre dietro questo «suo» peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il «peccato altrui», anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all’attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il «peccato altrui»! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell’uomo come «peccato altrui»), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose «madri nubili» delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell’uomo colpevole, «si liberano» del bambino prima della nascita. «Si liberano»: ma a quale prezzo? L’odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di «annullare» il male di questo peccato; normalmente, però, la coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal «principio».
E’ significativo l’atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni 8, 3-11. Forse in pochi momenti come in questo si manifesta la sua potenza – la potenza della verità – nei riguardi delle coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-9), non è forse in contatto col mistero del «principio», quando l’uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all’uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l’uomo fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l’uno all’altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore, dell’amore sponsale: per diventare «un dono sincero» l’uno per l’altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt’e due – uomo e donna – sin dal «principio». Dopo il peccato originale operano nell’uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, «fomite del peccato». Esse agiscono nell’uomo dal profondo. Per questo Gesù nel Discorso della montagna dirà: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 28). Queste parole, rivolte direttamente all’uomo, mostrano la verità fondamentale della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché – nell’ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo – le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all’eterna «unità dei due», questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene nello stesso tempo «data come compito» all’uomo. Coerentemente Cristo si appella alla responsabilità dell’uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente all’impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua vocazione – come, del resto, quelle dell’uomo – trovano la loro eterna sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell’esistenza umana, sono strettamente connesse con l’«unità dei due». Perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui «oggetto»: oggetto di godimento, di sfruttamento.
Custodi del messaggio evangelico
15. Il modo di agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una coerente protesta contro ciò che offende la dignità della donna. Perciò le donne che si trovano vicine a Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli «insegna» e che egli «fa», anche quando questa è la verità sulla loro «peccaminosità». Da questa verità esse si sentono «liberate», restituite a se stesse: si sentono amate di «amore eterno», di un amore che trova diretta espressione in Cristo stesso. Nel raggio d’azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che Gesù parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva con una donna. L’esempio, in un certo senso più significativo al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem. Gesù – il quale sa che è peccatrice, e di questo le parla – discorre con lei dei più profondi misteri di Dio. Le parla del dono infinito dell’amore di Dio, che è come una «sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera adorazione, che il Padre ha diritto di ricevere in spirito e verità (cf. Gv 4, 24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad Israele (cf. Gv 4, 26).
E’ questo un evento senza precedenti: quella donna, e per di più «donna-peccatrice», diventa «discepola» di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4, 39-42). Un evento senza precedenti, se si tiene presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel modo di agire di Gesù di Nazareth un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: «Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro» (cf. Gv 11, 5). Maria «ascoltava la parola» di Gesù: quando va a trovarli in casa, egli stesso definisce il comportamento di Maria come «la parte migliore» rispetto alla preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cf. Lc 10, 38-42). In un’altra occasione anche Marta – dopo la morte di Lazzaro – diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le più profonde verità della rivelazione e della fede. «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» «Tuo fratello risusciterà» – «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» – «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio, che deve venire al mondo» (Gv 11, 21-27). Dopo questa professione di fede Gesù risuscita Lazzaro. Anche il colloquio con Marta è uno dei più importanti del Vangelo.
Cristo parla con le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un’autentica risonanza della mente e del cuore, una risposta di fede. E Gesù per questa risposta spiccatamente «femminile» esprime apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cf. Mt 15, 28). A volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata dall’amore: insegna, dunque, prendendo spunto da questa risposta femminile della mente e del cuore. Così avviene nel caso di quella donna «peccatrice» il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto da Gesù come punto di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei peccati: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7, 47). In occasione di un’altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in particolare davanti a Giuda, della donna e della sua azione: «Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una azione buona verso di me (…). Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» (Mt 26, 6-13).
In realtà, i Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo come, al momento della prova definitiva e determinante per tutta la missione messianica di Gesù di Nazareth, ai piedi della Croce, si siano trovate, prime fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne, invece, sono molte. Non solo c’erano la Madre di Cristo e la «sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala» (Gv 19, 25), ma «molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27, 55). Come si vede, in questa che fu la più dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate più forti degli apostoli: in questi momenti di pericolo quelle che «amano molto» riescono a vincere la paura. Prima c’erano state le donne sulla via dolorosa, «che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (Lc 23, 27). Prima ancora c’era stata la moglie di Pilato, che aveva avvertito il proprio marito: «Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua» (Mt 27, 19).
Prime testimoni della Risurrezione
16. Sin dall’inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di Lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde ad una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: «Non è qui. E risorto, come aveva detto» (Mt 28, 6). Sono le prime a stringergli i piedi (cf. Mt 28, 9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cf. Mt 28, 1-10; Lc 24, 8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16, 9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. E’ la prima ad incontrare il Cristo risorto. All’inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce solo quando egli la chiama per nome. «Gesù le disse: “Maria”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbuní!”, che significa: “Maestro”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
Per questo essa venne anche chiamata «la apostola degli apostoli»[38], Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull’affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. Si può dire che in questo modo si sono compiute le parole del Profeta: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3, 1). Nel cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una volta conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello Spirito Santo, il Paraclito (cf. At 2, 17).
Quanto è stato detto finora circa l’atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due – uomo e donna. Si deve parlare di un’essenziale «parità»: poiché tutt’e due – la donna come l’uomo – sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, tutt’e due sono suscettibili in eguale misura dell’elargizione della verità divina e dell’amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue «visite» salvifiche e santificanti.
Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell’uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell’apostolo: «Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell’ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in eguale misura al fatto che «diventano profeti i vostri figli», e che lo diventano anche «le vostre figlie». «Profetizzare» significa esprimere con la parola e con la vita «le grandi opere di Dio» (cf. At 2, 11), conservando la verità e l’originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L’«eguaglianza»evangelica, la «parità» della donna e dell’uomo nei riguardi delle «grandi opere di Dio», quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazareth, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle «grandi opere di Dio», delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.
VI
MATERNITA’ – VERGINITA’
Due dimensioni della vocazione della donna
17. Dobbiamo ora rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile. Alla luce del Vangelo, esse acquistano la pienezza del loro senso e valore in Maria, che come Vergine divenne Madre del Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono in lei incontrate e congiunte in modo eccezionale, così che l’una non ha escluso l’altra, ma l’ha mirabilmente completata. La descrizione dell’annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò sembrava impossibile alla Vergine di Nazareth. Quando si sente dire: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù», ella subito chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1, 31. 34). Nell’ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca «conoscenza» dell’uomo e della donna nell’unione matrimoniale. Maria, ferma nel proposito della propria verginità, pone la domanda al divino messaggero, e ne ottiene la spiegazione: «Lo Spirito Santo scenderà su di te»; la tua maternità non sarà conseguenza di una «conoscenza» matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito Santo, e la «potenza dell’Altissimo» stenderà la sua «ombra» sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio. Come Figlio dell’Altissimo egli ti viene dato esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha mantenuto il suo verginale «Non conosco uomo» (cf. Lc 1, 34) e, al tempo stesso, è diventata Madre. La verginità e la maternità coesistono in lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei limiti. Anzi, la persona della Madre di Dio aiuta tutti – specialmente tutte le donne – a scorgere in quale modo queste due dimensioni e queste due strade della vocazione della donna, come persona, si spieghino e si completino reciprocamente.
https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1988/documents/hf_jp-ii_apl_19880815_mulieris-dignitatem.html