Responsabilità
Il primo valore è la responsabilità. Gli studenti sono portati ad assumersi la responsabilità del proprio apprendimento. Quando diciamo apprendimento, ci riferiamo in particolare al costruttivismo, per cui il sapere non si trasmette, ma è frutto dell’azione intenzionale del soggetto che interviene sia sulle sue strutture cognitive che nell’ambiente. Gli studenti sono coinvolti con i docenti a strutturare, progettare, revisionare la situazione dall’ambiente formativo, ovvero le attività didattiche. I bambini costruiscono, insieme ai propri insegnanti, le regole della convivenza. I docenti svolgono un ruolo prevalente di incoraggiatori e facilitatori. Essi non solo insegnano, ma apprendono con gli alunni, per cui la scuola assomiglia ad una comunità di ricercatori e ad un laboratorio. La responsabilità così intesa promuove comportamenti improntati alla cittadinanza attiva (Orsi, 1998) e il conseguimento effettivo delle competenze previste dagli obiettivi nazionali.
Comunità
Il secondo valore è la comunità. L’apprendimento si determina nelle relazioni e non individualisticamente. Si vede la scuola come una comunità di apprendimento, di ricerca e di pratiche dove ci si pongono domande e problemi, si condividono i percorsi di studio e di approfondimento, si scambiano le risorse cognitive e le pratiche di lavoro, si vive insieme. Tutto questo riguarda non solo gli alunni, ma anche i docenti, favorendo sia il cooperative learning che il cooperative teaching. La comunità implica, inoltre, un pieno coinvolgimento dei genitori visti anche come partecipi nell’attività didattica.
Ospitalità
Il terzo valore è l’ospitalità. Nel senso che un ambiente ospitale e ben organizzato favorisce l’apprendimento per il gruppo e per la persona; bisogna ospitare le diversità dei soggetti in formazione. Il sapere, ovvero la scoperta del mondo, avviene se il mondo stesso è contrassegnato dall’ospitalità e dall’accoglienza: materiali comuni di cancelleria, arredi colorati e funzionali, spazi adatti per accogliere sia il gruppo che la persona, per riconoscere e stimolare la pluralità delle intelligenze, per accompagnare e sostenere gli apprendimenti.
Qual è la qualità più importante che la scuola dovrebbe sviluppare nei suoi studenti?
La scuola deve saper ascoltare, prima di agire. La scuola, oggi, deve formare persone che sappiano affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri, persone resilienti, quindi capaci di adattarsi e reinventarsi in ogni momento della propria esistenza.
Come dovrebbe essere la scuola del futuro?
Nelle scuole del futuro tutti verranno trattati equamente senza discriminazioni, indipendentemente dalla storia personale e dal rendimento scolastico; uomini e tecnologia andranno di pari passo e i percorsi scolastici saranno strutturati in modo tale da incentivare l’intraprendenza e la passione per l’innovazione sin …
Che ruolo ha oggi la scuola?
La scuola è un osservatorio importante per cogliere i bisogni, le risorse e le difficoltà delle nuove generazioni. La scuola è anche un luogo su cui le famiglie attuali, spesso disorientate nelle scelte educative da compiere, riversano attese di aiuto nel crescere i figli.
Scuola: la classe è luogo di umanità, prima che di apprendimento
Antonella Bonavoglia
Insegnare è una vocazione?
Me lo domando spesso che cosa significa essere insegnante. E’ davvero una vocazione, come si dice spesso? Una sorta di “chiamata”, di missione che si compie nei confronti delle nuove generazioni? Credo, invece, che si possa definire, più che altro, una sfida, un impegno, soprattutto oggi.
E’ un lavoro che può essere migliorato quotidianamente, che cambia insieme al tempo, alla società, al contesto storico. Un “mestiere” che viene plasmato, smussato dai continui cambiamenti e dalle situazioni specifiche in cui è chiamato ad operare. Essere un buon docente non vuol dire solo “stare in classe”: la scuola è un universo talmente complesso ed esteso che non basta più essere un bravo oratore o trasmettitore di conoscenze.
Il mondo fuori dale aule è in rapida evoluzione, sia tecnologica che sociale, i bambini e le bambine che frequentano la scuola sono ormai tutti appartenenti all’era digitale, abituati alle relazioni mediate da internet, ai tempi ristretti, alla sostituzione della creatività con l’efficienza e la competizione. E’ anche l’era della condivisione e dell’apparizione: chi guadagna più like è un vincente, chi si espone sente di esistere.
Come si trasforma, allora, la sfida dell’insegnamento in quest’ottica?
L’insegnamento deve tenere conto, innanzitutto delle cosiddette “soft skills”, competenze necessarie ricercate in ambito lavorativo moderno e futuro: la capacità di risoluzione dei problemi, la creatività, l’equilibrio, la precisione, la resistenza allo stress, la capacità decisionale, la capacità di comunicazione. Per questo, l’insegnante oggi deve allenare caratteristiche precise, deve possedere dei requisiti in accordo con le nuove competenze e con l’evolversi della società. E dunque, deve essere animatore digitale, mental-coach, organizzatore e programmatore, esperto comunicatore, leader capace di creare un gruppo di lavoro efficace; oltre che guida autorevole, sempre aggiornato in temi di psicologia e didattica e sempre in formazione.
Ma siamo certi che l’insegnamento possa essere del tutto assoggettato al mondo lavorativo, alle leggi della digitalizzazione globale o alle trasformazioni sociali? Probabilmente no. Probabilmente insegnare non è solo questo, non è solo formare bambini e ragazzi che siano in grado di destreggiarsi nel difficile mondo lavorativo, o trasmettere loro le conoscenze necessarie che li rendano teoricamente preparati e pronti ad affrontare il grado di istruzione successivo. Non dimentichiamo che la scuola vuol dire educazione. Educare vuol dire formare delle persone anche e soprattutto dal punto di vita emotivo. L’alfabetizzazione digitale deve andare di pari passo con quella affettiva, perché la classe è fatta di alunni e alunne che sono prima di tutto persone, con un tessuto emotivo unico e irripetibile.
Massimo Recalcati, psicoterapeuta, professore e autore del libro “l’ora di lezione”, ricorda un aneddoto di Safouan, efficace per spiegare, in poche e semplici parole cosa vuol dire insegnare: “un bravo maestro si distingue da come reagisce quando entrando in aula, prima di salire in cattedra, inciampa. Un bravo maestro è quello che fa dell’inciampo il tema della lezione”, perché la caduta non la teme e sa che la lezione non può e non deve essere necessariamente quella programmata.
Ecco, l’insegnamento non usa il sapere come cemento, anzi, piuttosto deve avere confidenza con la mancanza del sapere: “Il limite del sapere è ciò che custodisce il valore stesso del sapere”. E allora sì, essere insegnante diventa davvero una sfida, soprattutto oggi. Rendere gli alunni appassionati, motivati e partecipi. Direi innamorati della conoscenza. Far comprendere che la scuola non è solamente luogo di incontro con la conoscenza teorica, ma anche di conoscenza con l”altro”, con le differenze individuali, conoscenza dei propri limiti e delle proprie doti. Infondere fiducia, coraggio, empatia. Difendere lo spazio emotivo di ciascuno e valorizzare le potenzialità. Difendere le differenze, custodire l’errore, la stortura, come elemento di arricchimento, come punto di lancio. La forza di un maestro è portare luce e mantenere vivo il desiderio di conoscenza, come già sosteneva molti anni fa la pedagogista Maria Montessori: “Insegnare è portare un raggio di luce sul cammino dei propri alunni”.
Si, insegnare nell’era 2.0 è difficile, impegnativo. Conciliare progresso tecnologico e umanizzazione delle esperienze non è un lavoro semplice, eppure risulta doveroso. La lezione deve diventare soprattutto momento di vita vissuta, di esperienze concrete, prima che astratte; la classe è luogo di umanità, prima che di apprendimento. Eppure, quanta soddisfazione quando gli alunni comprendono che un “like” in più può far piacere, sì, ma mai come la stretta di mano di un amico, mai come un abbraccio, mai come un sorriso, mai come quello che si prova sentendosi parte di un gruppo “reale” di coetanei, mai come una pacca su una spalla del proprio insegnante.