"Gridatelo dai tetti...."

A colloquio con il francescano padre Paolo Benanti, autore del libro “Tecnologia per l’uomo” in uscita con il numero di Famiglia Cristiana dal 21 ottobre in edicola e in parrocchia: “Occorre uno sviluppo nel rispetto dei biosistemi, che però non accadrà naturalmente, ma solo se l’innovazione avrà a cuore il bene comune”.

Stefano Stimamiglio

Frate francescano del Terzo Ordine Regolare, 48 anni, padre Paolo Benanti è uno dei massimi esperti nella Chiesa degli aspetti etici e bioetici di tematiche di punta e quanto mai attuali: dalla gestione dell’innovazione a quello dell’impatto di internet e del Digital Age sul mondo contemporaneo, dalle biotecnologie e la biosicurezza alle neuroscienze e le neurotecnologie. Alla vigilia della 49^ edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani di Taranto (21-24 ottobre 2021) intitolata “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso” e di fronte alla prospettiva di ingenti investimenti con il PNRR, il tema della tecnologia e del suo uso in chiave di futuro e ambiente è particolarmente interessante.

Padre Paolo, parlando di tecnica e di futuro, se una causa della crisi ambientale può esserci stato con il contributo della tecnologia, che cosa può fare essa per ovviare al futuro?

«Occorre non rimanere in un orizzonte ristretto e, pensando alla rivoluzione industriale, al consumo eccessivo di risorse e all’inquinamento di questi decenni – di cui oggi tanto si parla – vedere solo un problema legato alla tecnologia. Essa è presente fin dagli arbori dell’uomo, siamo in effetti l’unica specie che cambia l’habitat in cui vive usando la tecnica. La medusa, tanto per fare un esempio, e ogni altra specie vivente, non fa altrettanto ma si adatta all’ambiente attraverso successive mutazioni genetiche del DNA, che permettono in questo modo la sua sopravvivenza. Tutto questo lo capiamo meglio se riconosciamo che gli altri esseri viventi hanno tutto quello che serve per vivere, ma l’uomo no. L’uomo presenta un’eccedenza…».

Cosa intende per “eccedenza”?

«Intendo dire che l’uomo vive un “di più” rispetto alla sua costituzione biologica. Tale condizione è quella, per esempio, che ci fa prendere appunti durante una conferenza. La nostra condizione biologica – cioè la nostra memoria – non basta per contenere quanto ascoltiamo e abbiamo quindi bisogno di alcuni artefatti tecnologici, come la penna e il quaderno o un pc, per trattenere, esprimere e trasmettere quanto ascoltato. L’uomo, dunque, non si rapporta alla realtà in maniera solo biologica, ma anche attraverso le mediazioni offerte dagli artefatti tecnologici. La tecnologia è il modo con cui l’uomo trattiene, incanala ed esprime la sua eccedenza rispetto alla sua condizione biologica. È grazie all’artefatto tecnologico se, come specie, siamo diventati un fenomeno globale. Infatti, stando a quanto osservano gli antropologi, la nostra specie si è spostata dall’Africa meridionale, la culla della nostra origine, verso nord, colonizzando così tutto il mondo. Abbiamo raggiunto in questo modo ogni luogo in una maniera unica, dando mostra di quella che è una nostra unicità come specie. Fino a quel momento, infatti, ogni specie biologica abitava in un clima particolarmente adatto ad essa».

La tecnologia è, dunque, un fenomeno antico quanto l’uomo…

«Si, proprio perché questa eccedenza fa parte dell’unica dignità dell’uomo da sempre. La tecnologia, che accompagna l’eccedenza dell’umano rispetto alla sua mera biologia fin dall’inizio, è un’esperienza antica ma è sempre il cuore dell’uomo che ne decide l’utilizzo. La clava, ad esempio, poteva essere utile per aprire le noci di cocco ma anche per uccidere. Ogni utensile può essere utilizzato per il bene o per il male. Tutto passa – ripeto – attraverso il filtro del cuore dell’uomo: è, quindi, fondamentalmente una questione etica».

Cosa dire del sospetto verso la tecnica che alcuni nutrono?

«L’evoluzione tecnologica a servizio del mercato si è spinta a tal punto che per la prima volta ha cambiato la faccia del mondo, con tutti i rischi di sopravvivenza della specie umana di cui sentiamo parlare ogni giorno. L’inquinamento incontrollabile è un grosso tema legato però alla miopia che c’è stata dietro all’utilizzo degli artefatti tecnologici, nel senso di una ricerca smodata di guadagno da parte di molti agenti. Oggi abbiamo a disposizione strumenti digitali a tal punto evoluti, che ci aiutano a vedere con chiarezza l’impatto della tecnologia sull’ambiente e a orientarci bene verso una maggiore sostenibilità, garantendo uno sviluppo nel rispetto dei biosistemi. Questo processo, però, non accadrà naturalmente, ma solo se l’innovazione digitale e tecnologica avrà a cuore il bene dell’uomo, quello che nella dottrina sociale della chiesa chiamiamo “bene comune».

Dunque, innovazione e futuro sostenibile. Ma come?

«Dobbiamo idealmente metterci al posto di chi ha avviato la cosiddetta “rivoluzione industriale” nell’Ottocento. Cosa diremmo noi, che siamo i loro pronipoti, a costoro se potessimo andare indietro nella storia? Cosa consiglieremmo loro per evitare di trovarci al punto in cui siamo in termini di degrado ambientale e sfruttamento sconsiderato delle risorse? Bene, le stesse domande dobbiamo porci noi oggi, che siamo gli autori della rivoluzione digitale attualmente in atto, come se fossimo i nostri pronipoti fra un secolo: cosa fare perché la tecnologia digitale serva veramente per il bene dell’uomo? Quale sana cultura promuovere che sia in grado di orientare la risposta?».

Come è inscrivibile allora un’etica nella tecnologia? Dipende dalle leggi, dall’uso dei singoli uomini? O da cosa?

«Non basta né una legge né tanto meno un mero appello, ma un’azione di tutta la società civile. Si tratta di far partire una vera rivoluzione culturale, la stessa di cui parlano tanto le encicliche “Fratelli tutti” e “Laudato sì”. Non si può, quindi, in generale essere né “tecno-ottimisti” né “tecno-pessimisti”, ma solo “tecno-etici”. Alla base di ogni decisione c’è, infatti, quello che in latino si chiama “manicum”, l’impugnatura che fa da legame tra la mano dell’uomo e lo strumento che usa. Esso è in sé neutro, è la mano dell’uomo, che agisce per il bene o per il male, a determinare l’uso dello strumento. L’educazione, in questo senso, è fondamentale».

Qui c’entra anche la fede…

«Sì, decisamente. La fede è chiamata a dialogare con le culture umanistiche e con quelle tecniche perché l’innovazione digitale oggi si trasformi in vero sviluppo per il bene dell’uomo. I famosi algoritmi e i “big data”, cioè le grandi masse di dati da cui si possono estrapolare informazioni o risposte a singoli macro problemi, sono strumenti eccezionali sia per ridurre, ad esempio, gli sprechi di energia, necessari per la salvezza del pianeta e il bene dell’uomo, sia, al contrario, per incrementare al massimo i guadagni delle industrie elettriche. Dipende – ripeto – sempre dall’uso della mano dell’uomo».

La Chiesa quale contributo può dare in questo campo?

«Lo sta facendo ad esempio attraverso il “Call for an AI Ethics”, un documento sviluppato dalla Pontificia Accademia per la Vita, Microsoft, IBM, FAO e Ministero dell’Innovazione Italiano per supportare un approccio etico all’Intelligenza artificiale e promuovere un senso di sempre maggiore responsabilità tra organizzazioni non governative, governi, istituzioni e aziende del settore privato per creare un futuro in cui l’innovazione digitale e il progresso tecnologico siano al servizio del genio e della creatività umana, e quindi al servizio dell’uomo, e non della loro graduale sostituzione, con tutti i rischi che questo comporta


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