Pillole dal Libro: LA BOCCA DI DIO di Marilena Marino
Siamo ormai avvolti, pervasi e imbevuti in un mondo di segni e di simboli che ci arrivano da notevoli contaminazioni elettroniche, televisive ed estetiche; ma abbiamo perso quasi del tutto la realtà a cui il significato di questi segni rimanda.
Si è come persa la dimensione di una certa sacralità, l’importanza della celebrazione liturgica dove si rende presente Gesù Cristo nella storia, venuto a santificare il tempo e lo spazio.
Gli edifici del culto cristiano sono stati da sempre gli strumenti con cui la Chiesa ha manifestato al mondo la presenza di Dio, ma con l’andar del tempo, abbiamo assistito a questa perdita di senso e le persone spesso si sono allontanate dal concetto stesso di sacralità.
Per questo, è compito del cristiano, in questo caso anche di chi è predisposto al ministero della proclamazione della Parola, di far riaffiorare il senso della Resurrezione, di rendere maggiore gloria a quello che si celebra, a quello che si legge, a quello che si trasmette oralmente, a quello che si tramanda con la Scrittura, cercando di riedificare la stessa proclamazione della parola di Dio.
Assistiamo oggigiorno ad un certo svuotamento dello stesso senso della festa, che è la parte vitale e celebrativa della collettività, in cui il popolo è chiamato a partecipare attivamente.
L’incontro dell’umanità di Cristo che si cala nella vita di tutti i giorni, nel quotidiano vivere ha perso molto della sua valenza, non soltanto nelle celebrazioni.
Uno svuotamento anche della perdita del senso del sacro, per cui è necessario rivestire di nuova luce tutto quello che è nascosto dietro la Parola, usare tutte le forme più opportune per rivitalizzare il senso cristiano della missione del lettore, del catechista, del liturgista.
Abbiamo smarrito il gusto vero della gioia partecipativa alla liturgia, perché sopraffatti, forse, da una cultura troppo edonistica, troppo volta ad un senso del piacere, e smarrito quella gioia interiore vera, profonda che si percepisce come Resurrezione; colpa della secolarizzazione e della perdita delle tradizioni che hanno bussato in questo nuovo tempo della nostra società, che, molte volte, si ritrova a vivere soltanto l’aspetto piacevole e superficiale riguardo alla gioia, viene a mancare la felicità dell’incontro con la resurrezione di Cristo Risorto la cui gioia risiede nel sentire, nel fedele stesso, la voglia spirituale di accendersi di felicità.
Abbiamo la necessità di ritrovare la partecipazione a un concetto di festa più reale che possa sensibilizzare i nostri sensi, perché la stessa vita ritrovi una vera motivazione, dando voce ai desideri dello spirito insieme ai bisogni del corpo, che coinvolga gli elementi della creazione, i linguaggi dell’arte, assieme al coinvolgimento di una gioia che impregna di calore e luce l’esistenza dell’uomo.
C’è necessità di vivere in prima persona la Resurrezione che incontriamo già nei gesti della liturgia durante l’Eucarestia, ma che hanno necessità di prolungarsi in una liturgia quotidiana, feriale, di ogni giorno, in cui l’essere umano prolunghi questa gioia che riceve nella Messa settimanale: è arrivato il momento di celebrare ogni giorno la morte, la Resurrezione, la Pasqua del Signore Nostro Gesù Cristo, rispolverando e riempiendo di senso tutti quei gesti, tutti quegli atti, tutti quei sensi di cui abbiamo parlato che hanno il potere di rianimare la stessa parola di Dio.
Affinché questa Parola come dice la Scrittura, resti viva ogni giorno, ogni minuto, ogni ora nello spirito del cristiano, c’è bisogno, veramente, di meditare, studiare e approfondire in senso profondamente spirituale questi segni, coinvolgendo tutto il nostro essere nelle Sacre Scritture e assimilandole con tutta la nostra umanità, con tutta la nostra corporeità, meditando su cosa si nascondeva dietro il gesto di Gesù quando camminava, quando guariva, quando ammaestrava le folle, quando benediceva e quando faceva i miracoli.
Occorre sentire come sentiva Gesù, quando in preghiera si ritirava ad ascoltare la voce del Padre, sentire col cuore come faceva lui quando si faceva carico dei bisogni dei poveri, di chi aveva bisogno di essere guarito, toccare come lui toccava la disperazione dei tanti bisognosi infermi che si avvicinavano per una sua parola di conforto, per sfiorare un solo lembo di mantello.
Occorre provare la sua stessa fame di vita eterna, di giustizia, di verità, la sua stessa sete quando stava sulla croce, occorre annusare la medesima voglia di cielo, d’intimità nel fare la volontà del Padre, sentire con l’udito la voce dell’infinito, la voce del silenzio, la voce della paura nel Getsemani, della solitudine, della tentazione, e del tradimento amaro dei compagni.
C’è bisogno di gustare come Gesù quella fame delle Beatitudini:
di assaggiare con ansia il cibo di vita eterna dell’Eucarestia, dell’ultima ultima cena che aveva mangiato con i suoi discepoli; occorre vedere davanti agli occhi il deserto, l’amarezza, lo sconforto, ma anche la meta fissata di bere il calice fino alla fine, il colore del vino nelle giare alle nozze di Cana, incrociare lo sguardo della Madre, delle pie donne.
C’è necessità di assaggiare con tutti i sensi possibili la precarietà, la povertà, ripercorrere tutte le realtà che aveva davanti a lui, scrutare con la vista interiore dentro l’anima delle donne, degli uomini, dei reietti; annusare l’ipocrisia dei capi del popolo, la dolcezza dei fanciulli, sfiorare con la profondità del cuore tutte le sfumature dei sentimenti, la tenerezza, l’odio, l’amore, la rabbia, la supplica, l’arroganza, la saccenza dei dotti, la povertà negli ultimi, la disperazione delle donne, l’ingiustizia sociale, l’amore per la lealtà, la verità, l’amore per la libertà dell’uomo, il coraggio di lavare i piedi facendosi ultimi.
Bisogna fare esperienza, sperimentare, attraverso i nostri sensi, i sensi che Gesù stesso ha avuto come essere umano,
“Lui che essendo di natura Divina, non tenne conto della sua uguaglianza con Dio, ma annullò se stesso e si fece ultimo, si fece uomo, assumendo la condizione di servo. Lui, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce” (Lettera ai Filippesi 2,6.8).
Bisogna dare “corpo” a questa Parola.
La parola di Dio non può adeguatamente esprimersi solo con delle parole. Quando Dio ha voluto parlare agli uomini ha mandato suo Figlio.
La Parola è proclamata perché poi prenda corpo, s’incarni nella nostra vita. Altrimenti resta una parola del passato, al massimo un poema e non una parola per noi di oggi.
Questo esige anche che chi è ministro della Parola nell’Assemblea liturgica lo sia anche fuori di questo contesto: diventi cioè animatore di gruppi di ascolto della parola di Dio, catechista, ecc.
Solo se riusciremo a percepire il coinvolgimento corporeo e a entrare con tutto il nostro essere nella Scrittura, saremo veramente servitori della Parola, riusciremo ad attualizzare ciò che leggiamo, a entrare più profondamente in quella che è la Parola viva, incarnata di un Dio che per amore all’uomo, si fa piccolo e viene spezzato oltre che nell’Eucaristia, anche nella Parola.
Attraverso i ministri ordinati, attraverso i laici, attraverso i fedeli che mostrano amore e impegno nel carisma loro affidato dalla madre Chiesa, è possibile svolgere questo bellissimo ministero a beneficio di tutti.
“Il mondo è uno, il mondo spirituale, nella sua totalità, si manifesta nella totalità del mondo sensibile”, diceva Massimo il confessore, “ed è misticamente espresso mediante immagini simboliche per coloro che hanno occhi per vedere”,
così come parla l’apostolo in Romani 1,20 “Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”.
Cioè da sempre le cose poco comprensibili di Dio sono riconosciute dall’uomo attraverso le sue stesse creature.
San Bernardo di Chiaravalle commentando lo stesso passo scriveva:
“Questo mondo sensibile è come un libro aperto a tutti, e legato da una catena così che vi si possa leggere la sapienza di Dio qualora lo si desideri”.
Quindi, se lo desideri veramente, c’è una sapienza nascosta internamente alla Creazione che bisogna saper penetrare: i ministri della Parola e coloro che sono predisposti a tale servizio dovrebbero capire l’importanza di rendere, dunque, visibile e accessibile tutto quello che la sapienza divina nasconde ma che vuol essere manifestata agli uomini.
“Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (Prima lettera di Giovanni cap. 1,1-4).
Per concludere “dare corpo alla Parola” vuol dire che il lettore per proclamare la parola di Dio deve “impegnare” la sua vita, e questo esige una formazione biblica e liturgica, anche atteggiamenti spirituali e disponibilità al servizio, ma richiede anche un giusto comportamento fisico per una migliore efficacia del ministero esercitato.
E questo deve essere visibile anche durante la liturgia; la coerenza del comportamento del ministro della parola inizia già dal momento in cui si reca all’ambone o al luogo dove svolge il suo ufficio.
Non è consigliabile che il ministro lasci il suo posto prima che sia terminata l’azione liturgica precedente. Mentre il celebrante conclude la preghiera comune, non è bello vedere i lettori che si recano verso l’ambone, quasi fossero estranei all’Amen finale della colletta.
Le monizioni da premettere alla lettura, al salmo o alla preghiera e al canto, vanno fatte dal commentatore, ma nel caso che mancasse e il compito toccasse al lettore, questi avrà l’accorgimento di cambiare tono di voce e di fare una pausa vera perché non sembri che la monizione sia già parte della lettura o la lettura sia ancora la monizione.
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Questo articolo è stato estratto dal libro “La Bocca di Dio” di Marilena Marino.
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