Meditazione Cristiana

Meditazione Cristiana

meditazione

Per meditare non serve nulla… perché già abbiamo tutto quel che serve dentro di noi. Perché dentro abbiamo già la scintilla di Dio, il suo Spirito

woman meditating on rock in bank of lake

la meditazione profonda

La meditazione profonda è una preghiera antica. Già insegnata dagli antichi Padri della Chiesa nei primi secoli del cristianesimo, è stata riscoperta nel corso del XX secolo da chi cercava nella meditazione orientale un aiuto alla preghiera.

San Giovanni Cassiano, monaco della Provenza del IV secolo, dice che oltre la preghiera sublime del Padre Nostro ce n’è un altra di più sublime che è la meditazione profonda.

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Sono solo alcuni dei consigli, e sicuramente la meditazione richiede un allenamento. Non serve molto, se non un Vangelo, un luogo tranquillo (perché non una visita in chiesa?) e soprattutto il tempo…

Per meditare non serve nulla, ma ci dona tutto, Dio stesso!

Gesù come pregava?

Era ebreo e come buon ebreo partecipava alle liturgie e momenti di preghiera della sua comunità. Questo è ben testimoniato dalla sua frequentazione nelle sinagoghe della Galilea e nel Tempio di Gerusalemme. Ma il Vangelo ce lo mostra molto spesso in preghiera da solo, in luoghi appartati in comunicazione profonda con Dio Padre, e con nessun particolare schema liturgico, ma nel dialogo diretto con Dio.

Nel Vangelo di Matteo al capitolo 6 (il discorso della montagna) Gesù insegna il Padre Nostro ai suoi discepoli e usa anche un’immagine molto efficace di preghiera: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Matteo 6,6). La stanza di cui parla Gesù non è solo un luogo fisico, ma prima di tutto un luogo simbolico, il proprio cuore. Dentro di noi abbiamo una stanza profonda, la coscienza, nella quale solo noi e Dio possiamo entrare, anzi dove già Dio abita con la scintilla del suo amore.
Gesù aggiunge: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Matteo 6,7), e così ricorda ai discepoli che non è la quantità di parole usate che ci fa incontrare Dio, ma l’ascolto della sua Parola. La preghiera è prima di tutto ascolto di Dio, e in questo la meditazione profonda è un valido aiuto.

San Paolo scrive nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Corinti 3,15). Ecco che Dio abita già dentro di noi, e noi dobbiamo solo entrare là dove lo Spirito già è presente.

Anche Sant’Agostino diceva ai suoi cristiani che non serve cercare fuori quella Verità che già abbiamo dentro.

La scintilla di Dio va cercata con attenzione dentro il nostro cuore, superando i rumori e le distrazioni che spesso ci portano a vivere in superficie anche il  rapporto con Dio così come spesso viviamo anche il rapporto con gli altri. Entrare nel profondo è difficile ma è essenziale per scoprire quella bellezza che già abita in noi, e che Dio ha messo, che è Dio stesso!

Nel Vangelo di Luca si racconta di Gesù che sale sulla barca di Pietro e lo invita a prendere il largo per gettare le reti, e dopo averlo fatto le reti inizialmente desolatamente vuote si riempiono! Siamo al capitolo 5 del Vangelo, e l’espressione usata per “prendere il largo”, sia in latino che nell’originale greco (lingua con la quale è scritto il Vangelo) non indica solo una distanza fisica ma anche una profondità. Si potrebbe dire “vai nel profondo”, con l’indicazione spirituale di “gettare le reti” della preghiera nel profondo della nostra vita e soprattutto del cuore. La meditazione ci aiuta ad andare in profondità di noi stessi e della Parola di Dio. Meditare è pescare la vita di Dio dentro di noi, facendo l’esperienza di una pesca miracolosa e inaspettata.

L’Avvento è il tempo dell’attesa, ma non una attesa rassegnata e immobile. Attendere il Natale con la preghiera, significa darsi il tempo giusto per imparare a scendere dentro di noi, verso quella mangiatoia povera che è il cuore dove Dio si manifesta.  La meditazione richiede silenzio e pazienza, e non è affatto facile, specialmente per noi che vogliamo tutto e subito in ogni cosa, anche quella spirituale. La meditazione è l’occasione di rallentare i ritmi del tempo per ritrovare il ritmo giusto anche nella vita quotidiana, rimettendola al ritmo del Vangelo.

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consigli sulla meditazione profonda cristiana

La pratica consiste nello stare seduti immobili, con gli occhi chiusi, ripetendo mentalmente una parola sacra, con semplicità, sul ritmo del respiro. Le distrazioni che si presentano alla mente, pensieri, immagini, ricordi, emozioni, vanno lasciati andare riportando dolcemente l’attenzione sul respiro e la parola sacra. La nostra mente tende a distrarsi, a vagare e il lavoro della meditazione consiste nel riportare sempre l’attenzione al respiro e alla parola sacra. Il silenzio del corpo e della mente richiede una disciplina paziente e quotidiana, che nel tempo consente di progredire in termini di consapevolezza, lucidità e serenità in ogni aspetto della vita.

group of women sitting on chair while listening

Articolo ripreso dalla Parrocchia di S Martino Diocedi di Verona
don Giovanni Berti

E il Verbo si fece carne…

E il Verbo si fece carne…

Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia”. Queste parole di Papa Francesco racchiudono in poche parole il compito dell’arte sacra chiamata a svelare la verità della Buona Notizia attraverso la bellezza. Ogni giorno dell’Ottava di Natale i Musei Vaticani e Vatican News propongono un capolavoro delle collezioni pontificie accompagnato dalle parole dei Papi
La corona dell’Avvento

La corona dell’Avvento

4 Settimane fino al Natale

E’ tempo di accendere le candele della Corona d’Avvento in chiesa e a casa. Siamo entrati in quel periodo dell’anno che più di tutti per i cristiani simboleggia l’attesa trepidante della venuta di Cristo, del rinnovarsi della Sua nascita miracolosa, ma anche la speranza per il Suo ritorno, alla fine dei tempi. Non si tratta solo di celebrare l’avvicinarsi del Natale. L’Avvento è più di una tradizione natalizia: è un periodo liturgico ben definito che, come tutti i tempi liturgici, richiede un atteggiamento particolare da parte di chi crede, che deve predisporre il proprio animo per vivere nel migliore dei modi questo particolare momento di fede e speranza.
Vediamo brevemente tutto quello che è opportuno sapere riguardo all’Avvento e in particolare alla Corona d’Avvento in chiesa e a casa.

La Corona dell’Avvento è nello stesso tempo un addobbo natalizio che abbellisce la casa in occasione delle Feste e un oggetto di grande valore sacro per i credenti. Infatti la Corona dell’Avvento accompagna i fedeli per quattro settimane fino al Natale. È composta da molti elementi dal forte carattere simbolico: i rami verdi e le bacche richiamano alla stagione invernale, la corona è simbolo di unità, comunione e eternità e richiama il sole e la terra, mentre le quattro candele simboleggiano la luce di salvezza offerta a tutti gli uomini in occasione del Natale.

Una candela viene accesa per ogni domenica dell’Avvento, e tutte e quattro hanno un valore preciso.

La prima candela è quella “del Profeta”: ricorda le profezie sulla venuta del Messia.

La seconda candela è quella “di Betlemme”, in memoria del luogo in cui Gesù ha visto la luce.

La terza candela è quella “dei pastori”, gli umili tra gli umili, i primi a vedere e adorare il Messia.

La quarta candela è quella “degli Angeli”, che annunciarono a tutto il mondo la nascita miracolosa di Nostro Signore.

Le quattro candele rappresentano anche la progressiva vittoria della Luce contro le Tenebre, che conosce la sua apoteosi nella nascita di Gesù. In quest’ottica le candele simboleggiano SperanzaPaceGioia e Amore, il messaggio portato dal Bambino al mondo.

La Corona dell’Avvento nasce a metà del XIX secolo da un’idea del pastore protestante Johann Hinrich Wichern, che volle con questo addobbo rischiarare le notti dei fanciulli orfani e bisognosi di Berlino.  In un primo tempo essa prese piede soprattutto negli oratori, negli orfanotrofi e nelle scuole, ma ben presto l’usanza si diffuse e si affermò anche nelle case private. Ancora oggi regalare una Corona dell’Avvento è un gesto di affetto e devozione.

Le Corone dell’Avvento sono belle, decorate oltre che con rami verdi anche con bacche, nastri, addobbi natalizi d’oro e d’argento. Possono fungere da eleganti centritavola per le Feste oltre che da oggetti liturgici, e portano luce, calore e bellezza a tutta la casa.


Cosa simboleggia l’Avvento?

L’Avvento è il periodo che precede il Natale, durante il quale i cristiani attendono (dal latino adventus, “attesa”) con penitenza, preghiera e fede la nascita di Gesù. Ogni settimana dell’Avvento è simboleggiata da una delle candele che troviamo nella Corona d’Avvento, una decorazione natalizia che non può mancare in una casa cristiana. Di solito è costituita da un cerchio di rami sempreverdi, che richiamano la stagione invernale, ma anche la vita eterna e l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e da quattro candele, simbolo della salvezza e della luce che scaccia le tenebre e il peccato. La forma circolare della corona dell’Avvento rimanda all’eternità, all’unità del tutto. Nasce da una tradizione di origine germanica, che risale ai primi dell’Ottocento.

Qual è il colore dell’Avvento?

Il colore liturgico dell’Avvento è il viola, che richiama la penitenza, il digiuno e l’attesa, oltre che il lutto.

Come si chiamano le 4 domeniche d’Avvento?

nomi delle domeniche di Avvento sono tratti dalle prime parole dell’introito, l’antifona che apre la celebrazione della messa nelle suddette domeniche:

  1. Domenica d’Avvento: Ad te levavi (Ad te levavi animam meam, “A te, Signore, innalzo l’anima mia”), dal salmo 24/25;
  2. Domenica d’Avvento: Populus Sion (Populus Sion, ecce Dominus veniet ad salvandas gentes, “Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare i popoli!”), dal salmo 79/80;
  3. Domenica d’Avvento: Gaudete (Gaudete in Domino semper, “Rallegratevi nel Signore sempre”), dal salmo 84/85;
  4. Domenica d’Avvento: Rorate (Rorate, coeli desuper, et nubes pluant iustum, “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi piovano il Giusto”), dal libro di Isaia (45,8[12])

Quando inizia la prima domenica dell’Avvento?

Il tempo dell’Avvento dura quattro settimane, sei nel rito Ambrosiano: comincia con i vespri della prima domenica 3 dicembre e si conclude con i vespri di Natale, il 24 dicembre.

Quando si accendono le candele dell’Avvento?

Ogni domenica di Avvento si accende una candela, fino ad averle accese tutte e quattro alla Vigilia di Natale.

Come si accende la corona dell’Avvento?

L’ideale sarebbe che tutta la famiglia partecipasse all’accensione di ogni candela, magari accompagnandola con un momento di preghiera comune. La tradizione vuole che siano i bambini di casa ad accendere le candele della corona di Avvento. Per quanto riguarda la corona d’Avvento in chiesa essa viene posizionata in un posto ben visibile a tutti i fedeli e il sacerdote si preoccupa di coinvolgere l’intera assemblea nell’accensione di ogni singola candela, spiegandone il significato e guidando i fedeli nella preghiera comune appropriata.

Quali sono i nomi delle candele dell’Avvento?

Ogni candela ha un nome e un significato simbolico particolare:

  • Prima candela d’Avventocandela del Profeta, fa riferimento alle profezie riguardo la nascita di Gesù. È la candela della Speranza;
  • Seconda candela d’Avventocandela di Betlemme, ricorda la città in cui Lui è nato. È la candela della Salvezza;
  • Terza candela d’Avvento: candela dei Pastori, ricorda coloro i quali per primi adorarono Gesù. È la candela della Gioia;
  • Quarta candela d’Avvento: candela degli Angeli, celebra i messaggeri che portarono nel mondo la notizia della nascita miracolosa.

Quali sono i quattro colori delle candele dell’Avvento?

Il colore delle candele dell’Avvento può essere sempre il viola, ma sono accettati anche il bianco, simbolo di purezza e luce, e il rosso, colore natalizio per eccellenza, che esprime anche l’amore di Gesù per noi tutti.

Come si usano le candele dell’Avvento?

Le candele dell’Avvento simboleggiano SperanzaPaceGioia e Amore, il messaggio portato dal Bambino al mondo. Vengono accese una per volta per esprimere l’idea della luce di Gesù che diventa sempre più forte e splendente man mano che ci si avvicina al Natale.

Quando spegnere la prima candela dell’Avvento?

Le candele della corona d’Avvento devono arrivare accese alla Vigilia di Natale. Si consumeranno lentamente e in autonomia, accompagnando l’attesa della Festa.

Cosa fa Dio in Vacanza?

Cosa fa Dio in Vacanza?

Ciò che Dio ha fatto durante le mie vacanze estive e probabilmente anche le tue( Tratto da un racconto)

parco nazionale delle montagne

Il peccato riporta le sue piccole vittorie, ma il Dio dell’amore è molto più grande..

Non sono riuscito a dormire l’ultima notte del nostro soggiorno di agosto al campeggio KOA fuori dal Glacier National Park, dove la nostra famiglia stava festeggiando una riunione. È stata una settimana da capogiro. Seguendo il consiglio di amici, avevamo guidato dal Kansas attraverso il Wyoming fino al Montana e avevamo alloggiato nei campeggi dei parchi nazionali Grand Tetons e Yellowstone.

Così sono andato a fare una passeggiata alle 4 del mattino e ho pensato a cosa Dio ha fatto durante le mie vacanze estive. 

Innanzitutto, ho visto l’amore di Dio nel mondo naturale. 

La vacanza è arrivata dopo che ho registrato l’episodio del mio podcast Extraordinary Story incentrato sulle parole di Gesù sui gigli del campo, che un autore chiama “una passeggiata attraverso il Giardino dell’Eden al fianco del meraviglioso Creatore, una passeggiata curativa intesa a apri i nostri occhi e cura l’inquietudine del nostro cuore attraverso la contemplazione del mondo naturale che ci circonda”.

Quel giorno, ho capito cosa intendeva sulla Going-to-the-Sun Road del Montana, con scogliere a strapiombo che torreggiano su di noi da un lato e precipitano in un abisso dall’altro. Le nebbie si muovevano al rallentatore oltre i sempreverdi e l’acqua bianca scendeva a cascata lungo scogliere frastagliate. Continuava a venirmi in mente una frase, così l’ho detta ad alta voce nel furgone: “Dio ha creato tutto questo pensando a noi”. 

Questo è innegabilmente vero. 

Dio ha dato agli esseri umani la capacità unica di apprezzare la bellezza – e poi ha reso la terra straordinariamente bella perché ci ama. O meglio, poiché Egli è fuori dal tempo, ciò a cui assistiamo in ogni momento è il suo atto creativo originale, che travolge noi e tutti nella storia con la verità della sua bellezza e bontà.

In secondo luogo, ho visto l’amore di Dio nella mia famiglia.

In realtà, Dio non solo ci benedice con il suo atto creativo, ma ci invita a farlo. Insieme alla bellezza della natura nel Giardino dell’Eden, Dio ha donato al suo popolo l’amore sponsale che doveva “essere fecondo e moltiplicarsi”.

Per me, ciò significava che mentre camminavo per il campeggio di notte, passavo davanti a figli, figlie, nipoti, zii, cugini e suoceri addormentati. 

Alla cena di riunione di famiglia di quel giorno, avevo visto parenti in magliette Harley-Davidson chiacchierare con gli amministratori della scuola Montessori, guardalinee chiacchierare con dirigenti aziendali e adolescenti giocare con entusiasmo al “mostro di lava” nel parco giochi con nipoti e nipoti.

La famiglia passa in secondo piano per gran parte dell’anno, ma durante le vacanze si vede quanto sia potente.

Terzo: ho visto quanto è fragile tutto ciò.

Bisogna ammettere che mentre assistevo alla maestosità della bellezza della montagna, la vedevo attraverso i finestrini sporchi di un furgone disseminato di involucri di snack alla frutta, bottiglie d’acqua, tovaglioli e il contenuto di borse per pannolini rovesciate. I boschi erano disseminati di una raccolta meno concentrata dello stesso tipo di cose, incluso almeno un involucro di snack che è esploso fuori dalla mia porta e in aria, più velocemente di quanto potessi correre.

E, a parte il mio unico commento su Dio, la nostra conversazione familiare era per lo più fatta di forti lamentele per i piedi puzzolenti, valutazioni rabbiose dell’egoismo degli altri e discussioni su ciò che qualcuno diceva e su come lo diceva .

Per quanto il nostro viaggio abbia evocato il Giardino dell’Eden, ha anche reso molto chiaro che il Giardino dell’Eden è scomparso, scambiato con il peccato.

Quarto: ho visto il cielo.

A nord, dove eravamo noi, il sole resta alto fino a molto tardi in agosto. Durante la mia passeggiata alle 4 del mattino, mi sono reso conto che era la prima volta che ero uscito nel buio più totale, ho alzato lo sguardo e ho visto il vasto cielo pieno di stelle.

Aristotele guardò queste stelle e decise di voler vivere la sua vita in armonia con il logos, l’ordine dell’universo, la logica al centro delle cose. Ma voleva farlo attraverso il miglioramento personale, non il dono di sé.

San Giovanni guardò questo cielo e scrisse “il Verbo si fece carne” – il Logos si fece uomo. Dopo che abbiamo distrutto il Giardino che ci ha donato, Gesù ha fatto per noi la via del ritorno riversandosi sulla croce e nei sacramenti. Ora, unendo la nostra donazione alla sua, possiamo risorgere dai nostri peccati e unirci all’Amore che è alla radice di tutto.

Dante guardò le stesse stelle al termine del suo lungo viaggio e disse: “Qui la mia visione esaltata perdette la sua potenza e il mio desiderio fu trascinato dall’Amore che muove le stelle”.

Il peccato ottiene le sue piccole vittorie, ma il Dio dell’amore è molto più grande e combatte al nostro fianco per la bellezza, la verità e la bontà in ogni passo del cammino. Questo è ciò che Dio ha fatto durante le mie vacanze estive.

Papa Francesco a Dubai

Papa Francesco a Dubai

Dal 1° al 3 dicembre per la Cop28”

“Accogliendo l’invito di Sua Altezza lo Sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, Presidente degli Emirati Arabi Uniti”, Papa Francesco si recherà, “come annunciato”, a Dubai, dal 1° al 3 dicembre, in occasione della prossima Conferenza degli Stati Parte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP-28). A dichiararlo ai giornalisti è il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni.

Il Papa alla Cop28 di Dubai per rilanciare l’appello ad un’azione urgente per il clima

Per la prima volta alla “Conferenza delle Parti”, per la seconda negli Emirati Arabi Uniti dopo il viaggio del 2019 ad Abu Dhabi, Francesco sarà presente dall’1 al 3 dicembre tra i leader del mondo per ribadire appelli, aspettative e speranze già espressi nella Laudate Deum

Il “grido” di Francesco perché il mondo si impegni a dare una risposta alla crisi climatica, il grido, cioè, lanciato nella Laudato si’ e poi cristallizzato nella Laudate Deum, risuonerà a dicembre a Dubai. Nel futuristico emirato, città di opulenza e architetture ultra moderne, tra i maggiori esportatori di energia fossile ma, al contempo, grande investitore in energie rinnovabili, si svolgerà la Cop28, il più importante appuntamento dell’anno organizzato dall’Onu in cui i leader mondiali dovranno fare il punto su progressi e ritardi in quella che il Papa, mutuando San Francesco, definisce “la cura della nostra Casa comune”.

La partecipazione del Papa 

“Laudate Deum”, il grido del Papa per una risposta alla crisi climatica

“Laudate Deum”, il grido del Papa per una risposta alla crisi climatica

La “Conferenza delle Parti” aprirà i battenti il prossimo 30 novembre fino al 12 dicembre e questa ventottesima edizione vedrà per la prima volta la partecipazione di un Pontefice, Francesco, al suo secondo viaggio negli Emirati Arabi Uniti, dopo la trasferta ad Abu Dhabi del febbraio 2019 che è stata occasione della firma della storica Dichiarazione sulla Fratellanza Umana.

Il viaggio internazionale, il 45.mo del pontificato e il sesto del 2023, è stato confermato oggi dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. “Accogliendo l’invito di Sua Altezza lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti, Sua Santità Papa Francesco si recherà, come annunciato, a Dubai, dal 1° al 3 dicembre 2023, in occasione della prossima Conferenza degli Stati Parte alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP-28)”, si legge nel comunicato, senza ulteriori informazioni sul programma.

L’annuncio di Francesco

Già il Papa stesso aveva annunciato la sua presenza nella recente intervista al Tg1: “Sì, andrò a Dubai. Credo che partirò il 1° dicembre fino al 3 dicembre. Starò tre giorni lì”, ha detto Francesco ricordando che proprio una Cop, la numero 21 del 2015 svoltasi a Parigi, aveva dato l’impulso per la stesura dell’enciclica sociale Laudato si’.

“Io ricordo che quando sono andato a Strasburgo, al Parlamento europeo, e il presidente Hollande ha mandato la ministra dell’ambiente Ségolène Royal a ricevermi e lei mi ha chiesto: ‘Ma lei sta preparando qualche cosa sull’ambiente? Lo faccia prima dell’incontro di Parigi’. Io ho chiamato alcuni scienziati qui, che si sono affrettati, è uscito Laudato si’ che è uscito prima di Parigi. E l’incontro di Parigi è stato il più bello di tutti. Dopo Parigi tutti sono andati indietro e ci vuole coraggio per andare avanti in questo”, ha raccontato Jorge Mario Bergoglio.

Aspettative e speranze

Laudate Deum e la COP28

Ora, alla luce della Laudate Deum pubblicata il 4 ottobre scorso, giorno della memoria liturgica del Santo d’Assisi dal quale ha preso il nome e la missione, Francesco vuole farsi presente anche fisicamente a questo importante consesso internazionale sul quale, peraltro, gravano le recenti tensioni in Europa e in Medio Oriente.

Il Papa ha dedicato uno intero capitolo della esortazione apostolica all’appuntamento di Dubai: “Cosa ci si aspetta dalla Cop28 di Dubai?” è il titolo e in esso si condensano le attese e le speranze del Vescovo di Roma che guarda alla realtà di Dubai dove, afferma, “le compagnie petrolifere e del gas ambiscono lì a nuovi progetti per espandere ulteriormente la produzione”. “Dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico”, scrive.

Punto di svolta

“Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la Cop28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente”, si legge ancora nella esortazione papale. “Questa Conferenza può essere un punto di svolta, comprovando che tutto quanto si è fatto dal 1992 era serio e opportuno, altrimenti sarà una grande delusione e metterà a rischio quanto di buono si è potuto fin qui raggiungere”.

L’apprezzamento del presidente della Cop28 

Il presidente di COP28: "Ridurre 22 gigatonellate di emissioni entro il 2030"

Il presidente di COP28: “Ridurre 22 gigatonellate di emissioni entro il 2030”

Le preoccupazioni del Papa erano state condivise anche da Sultan Al Jaber, ministro dell’Industria e della tecnologia avanzata degli Emirati Arabi e presidente della Cop28., che Papa Francesco ha ricevuto l’11 ottobre scorso nel Palazzo Apostolico. In una intervista con i media vaticani, Al Jaber esprimeva l’apprezzamento degli Emirati Arabi Unirti per il “fermo sostegno” del Papa “a un’azione positiva per il clima al fine di promuovere il progresso umano” e ribadiva pure l’impegno del suo Paese “a fare tutto il possibile per unire le parti, garantire l’inclusività, ottenere impegni e azioni chiari e fornire un’azione climatica ambiziosa per le persone in tutto il mondo”. Quindi delineava il “punto fermo” che guida i partecipanti alla Conferenza, “mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi Celsius”, e l’obiettivo principale: “Ridurre 22 gigatonnellate di emissioni entro il 2030”. “Il cambiamento climatico ci sta già influenzando”, diceva il ministro, “dobbiamo adattarci a questo cambiamento”. 

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-11/papa-francesco-viaggio-dubai-cop28-clima.html

Messaggio Giornata Mondiale dei Poveri

Messaggio Giornata Mondiale dei Poveri

«Ognuno è nostro prossimo» sottolinea Papa Francesco nel parlare della VII Giornata Mondiale dei Poveri in programma domenica 19 novembre 2023.

«I poveri, non immagini per commuoversi ma persone che chiedono dignità»: nel messaggio per la settima Giornata mondiale dei poveri di domenica 19 novembre 2023 Papa Francesco esorta a non distogliere lo sguardo da chi è in difficoltà come i bambini che vivono in zone di guerra – Medio Oriente, Ucraina, Sud Sudan, America latina -; su chi non riesce ad arrivare a fine mese; su chi è sfruttato sul lavoro: «Ognuno è nostro prossimo» e per battere la povertà non basta un decreto ma serve un serio ed efficace impegno politico, legislativo, sociale.

SEGUIRE LO SGUARDO DEL POVERO

Il messaggio esordisce con un pensiero penetrante: lo sguardo di un povero cambia direzione alla vita di chi lo incrocia «ma bisogna avere il coraggio di restare su quegli occhi e poi agire aiutando in base a quello che serve all’altro»: è il concetto base del messaggio sul tema «Non distogliere lo sguardo dal povero» come richiama il libro di Tobia 4,7. Nel povero si riflette il fragile «volto del Signore Gesù», al di là del colore della pelle, della condizione sociale e della provenienza. Una lettura che nasce dal «fiume di povertà che attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare. Quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte e ampio».

SOCIETÀ DEL BENESSERE E POVERTÀ

Un’altra immagine bergogliana possente: la realtà è segnata «dal volume troppo alto del richiamo al benessere che silenzia le voci dei poveri. Si trascura tutto ciò che non rientra nei modelli di vita destinati soprattutto ai più giovani, che sono i più fragili davanti al cambiamento culturale». E tra parentesi si mette ciò che fa soffrire; si esalta la fisicità; si confonde la realtà virtuale con la vita reale. E così i poveri «diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada allora subentrano il fastidio e l’emarginazione». La parabola del buon samaritano interpella il presente. Il Pontefice argentino richiama la «Pacem in terris» emanata da Giovanni XXIII 60 anni fa, l’11 aprile 1963: c’è ancora tanto lavoro da fare per assicurare una vita dignitosa a molti, «anche attraverso un serio ed efficace impegno politico e legislativo!».

I NUOVI POVERI

Lo sguardo si allarga ai nuovi poveri: bambini che vivono nell’orrore e terrore della guerra – «Manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo» -; coloro che, a causa del «drammatico aumento dei costi» sono costretti a scegliere tra cibo e medicine; lavoratori sottoposti a un trattamento disumano – paga misera, peso della precarietà, troppe vittime di incidenti sul lavoro perché si preferisce il profitto immediato alla sicurezza -; giovani «frustrati e suicidi, illusi da una cultura che li porta a sentirsi “inconcludenti e falliti”. Aiutiamoli a reagire a queste istigazioni nefaste, perché ciascuno acquisisca un’identità forte e generosa».

TUTTI HANNO DIRITTO A ESSERE ILLUMINATI DALLA CARITÀ

Francesco esorta a condividere con i poveri la mensa della propria casa nel segno della fraternità; a dedicarsi ai «vicini di casa che non sono superuomini ma persone».  In conclusione, citando Santa Teresa di Gesù Bambino a 150 anni dalla nascita, Bergoglio ricorda: «Tutti hanno diritto a essere illuminati dalla carità» e chiede di mantenere lo sguardo fisso «sul volto umano e divino di Gesù».

GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Ricordiamo il messaggio della Domenica XXXIII del Tempo Ordinario in data del Novembre 2022 ma sempre attuale per ogni tempo e per ogni situazione in cui si vive questa grande indigenza.

Gesù Cristo si è fatto povero per voi (cfr 2 Cor 8,9)
 

1. «Gesù Cristo […] si è fatto povero per voi» (cfr 2 Cor 8,9). Con queste parole l’apostolo Paolo si rivolge ai primi cristiani di Corinto, per dare fondamento al loro impegno di solidarietà con i fratelli bisognosi. La Giornata Mondiale dei Poveri torna anche quest’anno come sana provocazione per aiutarci a riflettere sul nostro stile di vita e sulle tante povertà del momento presente.

Qualche mese fa, il mondo stava uscendo dalla tempesta della pandemia, mostrando segni di recupero economico che avrebbe restituito sollievo a milioni di persone impoverite dalla perdita del lavoro. Si apriva uno squarcio di sereno che, senza far dimenticare il dolore per la perdita dei propri cari, prometteva di poter tornare finalmente alle relazioni interpersonali dirette, a incontrarsi di nuovo senza più vincoli o restrizioni. Ed ecco che una nuova sciagura si è affacciata all’orizzonte, destinata ad imporre al mondo un scenario diverso.

La guerra in Ucraina è venuta ad aggiungersi alle guerre regionali che in questi anni stanno mietendo morte e distruzione. Ma qui il quadro si presenta più complesso per il diretto intervento di una “superpotenza”, che intende imporre la sua volontà contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Si ripetono scene di tragica memoria e ancora una volta i ricatti reciproci di alcuni potenti coprono la voce dell’umanità che invoca la pace.

2. Quanti poveri genera l’insensatezza della guerra! Dovunque si volga lo sguardo, si constata come la violenza colpisca le persone indifese e più deboli. Deportazione di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, per sradicarle e imporre loro un’altra identità. Ritornano attuali le parole del Salmista di fronte alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio dei giovani ebrei: «Lungo i fiumi di Babilonia / là sedevamo e piangevamo / ricordandoci di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre, / perché là ci chiedevano parole di canto, / coloro che ci avevano deportato, / allegre canzoni i nostri oppressori. / […] Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?» (Sal 137,1-4).

Sono milioni le donne, i bambini, gli anziani costretti a sfidare il pericolo delle bombe pur di mettersi in salvo cercando rifugio come profughi nei Paesi confinanti. Quanti poi rimangono nelle zone di conflitto, ogni giorno convivono con la paura e la mancanza di cibo, acqua, cure mediche e soprattutto degli affetti. In questi frangenti la ragione si oscura e chi ne subisce le conseguenze sono tante persone comuni, che vengono ad aggiungersi al già elevato numero di indigenti. Come dare una risposta adeguata che porti sollievo e pace a tanta gente, lasciata in balia dell’incertezza e della precarietà?

3. In questo contesto così contraddittorio viene a porsi la VI Giornata Mondiale dei Poveri, con l’invito – ripreso dall’apostolo Paolo – a tenere lo sguardo fisso su Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). Nella sua visita a Gerusalemme, Paolo aveva incontrato Pietro, Giacomo e Giovanni i quali gli avevano chiesto di non dimenticare i poveri. La comunità di Gerusalemme, in effetti, si trovava in gravi difficoltà per la carestia che aveva colpito il Paese. E l’Apostolo si era subito preoccupato di organizzare una grande colletta a favore di quei poveri. I cristiani di Corinto si mostrarono molto sensibili e disponibili. Su indicazione di Paolo, ogni primo giorno della settimana raccolsero quanto erano riusciti a risparmiare e tutti furono molto generosi.

Come se il tempo non fosse mai trascorso da quel momento, anche noi ogni domenica, durante la celebrazione della santa Eucaristia, compiamo il medesimo gesto, mettendo in comune le nostre offerte perché la comunità possa provvedere alle esigenze dei più poveri. È un segno che i cristiani hanno sempre compiuto con gioia e senso di responsabilità, perché nessun fratello e sorella debba mancare del necessario. Lo attestava già il resoconto di San Giustino, che, nel secondo secolo, descrivendo all’imperatore Antonino Pio la celebrazione domenicale dei cristiani, scriveva così: «Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei profeti finché il tempo lo consente. […] Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli elementi consacrati e attraverso i diaconi se ne manda agli assenti. I facoltosi e quelli che lo desiderano danno liberamente, ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il sacerdote. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, i carcerati, gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno» (Prima Apologia, LXVII, 1-6).

4. Tornando alla comunità di Corinto, dopo l’entusiasmo iniziale il loro impegno cominciò a venire meno e l’iniziativa proposta dall’Apostolo perse di slancio. È questo il motivo che spinge Paolo a scrivere in maniera appassionata rilanciando la colletta, «perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi» (2 Cor 8,11).

Penso in questo momento alla disponibilità che, negli ultimi anni, ha mosso intere popolazioni ad aprire le porte per accogliere milioni di profughi delle guerre in Medio Oriente, in Africa centrale e ora in Ucraina. Le famiglie hanno spalancato le loro case per fare spazio ad altre famiglie, e le comunità hanno accolto con generosità tante donne e bambini per offrire loro la dovuta dignità. Tuttavia, più si protrae il conflitto, più si aggravano le sue conseguenze. I popoli che accolgono fanno sempre più fatica a dare continuità al soccorso; le famiglie e le comunità iniziano a sentire il peso di una situazione che va oltre l’emergenza. È questo il momento di non cedere e di rinnovare la motivazione iniziale. Ciò che abbiamo iniziato ha bisogno di essere portato a compimento con la stessa responsabilità.

5. La solidarietà, in effetti, è proprio questo: condividere il poco che abbiamo con quanti non hanno nulla, perché nessuno soffra. Più cresce il senso della comunità e della comunione come stile di vita e maggiormente si sviluppa la solidarietà. D’altronde, bisogna considerare che ci sono Paesi dove, in questi decenni, si è attuata una crescita di benessere significativo per tante famiglie, che hanno raggiunto uno stato di vita sicuro. Si tratta di un frutto positivo dell’iniziativa privata e di leggi che hanno sostenuto la crescita economica congiunta a un concreto incentivo alle politiche familiari e alla responsabilità sociale. Il patrimonio di sicurezza e stabilità raggiunto possa ora essere condiviso con quanti sono stati costretti a lasciare le loro case e il loro Paese per salvarsi e sopravvivere. Come membri della società civile, manteniamo vivo il richiamo ai valori di libertà, responsabilità, fratellanza e solidarietà. E come cristiani, ritroviamo sempre nella carità, nella fede e nella speranza il fondamento del nostro essere e del nostro agire.

6. È interessante osservare che l’Apostolo non vuole obbligare i cristiani costringendoli a un’opera di carità. Scrive infatti: «Non dico questo per darvi un comando» (2 Cor 8,8); piuttosto, egli intende «mettere alla prova la sincerità» del loro amore nell’attenzione e premura verso i poveri (cfr ibid.). A fondamento della richiesta di Paolo sta certamente la necessità di aiuto concreto, tuttavia la sua intenzione va oltre. Egli invita a realizzare la colletta perché sia segno dell’amore così come è stato testimoniato da Gesù stesso. Insomma, la generosità nei confronti dei poveri trova la sua motivazione più forte nella scelta del Figlio di Dio che ha voluto farsi povero Lui stesso.

L’Apostolo, infatti, non teme di affermare che questa scelta di Cristo, questa sua “spogliazione”, è una «grazia», anzi, «la grazia del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Cor 8,9), e solo accogliendola noi possiamo dare espressione concreta e coerente alla nostra fede. L’insegnamento di tutto il Nuovo Testamento ha una sua unità intorno a questo tema, che trova riscontro anche nelle parole dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,22-25).

7. Davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno. A volte, invece, può subentrare una forma di rilassatezza, che porta ad assumere comportamenti non coerenti, quale è l’indifferenza nei confronti dei poveri. Succede inoltre che alcuni cristiani, per un eccessivo attaccamento al denaro, restino impantanati nel cattivo uso dei beni e del patrimonio. Sono situazioni che manifestano una fede debole e una speranza fiacca e miope.

Sappiamo che il problema non è il denaro in sé, perché esso fa parte della vita quotidiana delle persone e dei rapporti sociali. Ciò su cui dobbiamo riflettere è, piuttosto, il valore che il denaro possiede per noi: non può diventare un assoluto, come se fosse lo scopo principale. Un simile attaccamento impedisce di guardare con realismo alla vita di tutti i giorni e offusca lo sguardo, impedendo di vedere le esigenze degli altri. Nulla di più nocivo potrebbe accadere a un cristiano e a una comunità dell’essere abbagliati dall’idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare.

Non si tratta, quindi, di avere verso i poveri un comportamento assistenzialistico, come spesso accade; è necessario invece impegnarsi perché nessuno manchi del necessario. Non è l’attivismo che salva, ma l’attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto. Pertanto, «nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. […] Nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 201). È urgente trovare nuove strade che possano andare oltre l’impostazione di quelle politiche sociali «concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli» (Enc. Fratelli tutti, 169). Bisogna tendere invece ad assumere l’atteggiamento dell’Apostolo che poteva scrivere ai Corinzi: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,13).         

8. C’è un paradosso che oggi come nel passato è difficile da accettare, perché si scontra con la logica umana: c’è una povertà che rende ricchi. Richiamando la “grazia” di Gesù Cristo, Paolo vuole confermare quello che Lui stesso ha predicato, cioè che la vera ricchezza non consiste nell’accumulare «tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano» (Mt 6,19), ma piuttosto nell’amore vicendevole che ci fa portare i pesi gli uni degli altri così che nessuno sia abbandonato o escluso. L’esperienza di debolezza e del limite che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice. Il messaggio di Gesù ci mostra la via e ci fa scoprire che c’è una povertà che umilia e uccide, e c’è un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni.

La povertà che uccide è la miseria, figlia dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse. È la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d’uscita. È la miseria che, mentre costringe nella condizione di indigenza estrema, intacca anche la dimensione spirituale, che, anche se spesso è trascurata, non per questo non esiste o non conta. Quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento.

La povertà che libera, al contrario, è quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull’essenziale. In effetti, si può facilmente riscontrare quel senso di insoddisfazione che molti sperimentano, perché sentono che manca loro qualcosa di importante e ne vanno alla ricerca come erranti senza meta. Desiderosi di trovare ciò che possa appagarli, hanno bisogno di essere indirizzati verso i piccoli, i deboli, i poveri per comprendere finalmente quello di cui avevano veramente necessità. Incontrare i poveri permette di mettere fine a tante ansie e paure inconsistenti, per approdare a ciò che veramente conta nella vita e che nessuno può rubarci: l’amore vero e gratuito. I poveri, in realtà, prima di essere oggetto della nostra elemosina, sono soggetti che aiutano a liberarci dai lacci dell’inquietudine e della superficialità.

Un padre e dottore della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, nei cui scritti si incontrano forti denunce contro il comportamento dei cristiani verso i più poveri, scriveva: «Se non puoi credere che la povertà ti faccia diventare ricco, pensa al Signore tuo e smetti di dubitare di questo. Se egli non fosse stato povero, tu non saresti ricco; questo è straordinario, che dalla povertà derivò abbondante ricchezza. Paolo intende qui con “ricchezze” la conoscenza della pietà, la purificazione dai peccati, la giustizia, la santificazione e altre mille cose buone che ci sono state date ora e sempre. Tutto ciò lo abbiamo grazie alla povertà» (Omelie sulla II Lettera ai Corinzi, 17,1).

9. Il testo dell’Apostolo a cui si riferisce questa VI Giornata Mondiale dei Poveri presenta il grande paradosso della vita di fede: la povertà di Cristo ci rende ricchi. Se Paolo ha potuto dare questo insegnamento – e la Chiesa diffonderlo e testimoniarlo nei secoli – è perché Dio, nel suo Figlio Gesù, ha scelto e percorso questa strada. Se Lui si è fatto povero per noi, allora la nostra stessa vita viene illuminata e trasformata, e acquista un valore che il mondo non conosce e non può dare. La ricchezza di Gesù è il suo amore, che non si chiude a nessuno e a tutti va incontro, soprattutto a quanti sono emarginati e privi del necessario. Per amore ha spogliato sé stesso e ha assunto la condizione umana. Per amore si è fatto servo obbediente, fino a morire e a morire in croce (cfr Fil 2,6-8). Per amore si è fatto «pane di vita» (Gv 6,35), perché nessuno manchi del necessario e possa trovare il cibo che nutre per la vita eterna. Anche ai nostri giorni sembra difficile, come lo fu allora per i discepoli del Signore, accettare questo insegnamento (cfr Gv 6,60); ma la parola di Gesù è netta. Se vogliamo che la vita vinca sulla morte e la dignità sia riscattata dall’ingiustizia, la strada è la sua: è seguire la povertà di Gesù Cristo, condividendo la vita per amore, spezzando il pane della propria esistenza con i fratelli e le sorelle, a partire dagli ultimi, da quanti mancano del necessario, perché sia fatta uguaglianza, i poveri siano liberati dalla miseria e i ricchi dalla vanità, entrambe senza speranza.

10. Il 15 maggio scorso ho canonizzato Fratel Charles de Foucauld, un uomo che, nato ricco, rinunciò a tutto per seguire Gesù e diventare con Lui povero e fratello di tutti. La sua vita eremitica, prima a Nazaret e poi nel deserto sahariano, fatta di silenzio, preghiera e condivisione, è una testimonianza esemplare di povertà cristiana. Ci farà bene meditare su queste sue parole: «Non disprezziamo i poveri, i piccoli, gli operai; non solo essi sono i nostri fratelli in Dio, ma sono anche quelli che nel modo più perfetto imitano Gesù nella sua vita esteriore. Essi ci rappresentano perfettamente Gesù, l’Operaio di Nazaret. Sono primogeniti tra gli eletti, i primi chiamati alla culla del Salvatore. Furono la compagnia abituale di Gesù, dalla sua nascita alla sua morte […]. Onoriamoli, onoriamo in essi le immagini di Gesù e dei suoi santi genitori […]. Prendiamo per noi [la condizione] che egli ha preso per sé […]. Non cessiamo mai di essere in tutto poveri, fratelli dei poveri, compagni dei poveri, siamo i più poveri dei poveri come Gesù, e come lui amiamo i poveri e circondiamoci di loro» ( Commenti al Vangelo di Luca, Meditazione 263). [1] Per Fratel Charles queste non furono solo parole, ma stile concreto di vita, che lo portò a condividere con Gesù il dono della vita stessa.

Questa VI Giornata Mondiale dei Poveri diventi un’opportunità di grazia, per fare un esame di coscienza personale e comunitario e domandarci se la povertà di Gesù Cristo è la nostra fedele compagna di vita.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2022, Memoria di Sant’Antonio di Padova.
 

FRANCESCO

Cos’è un piccolo oratorio

Cos’è un piccolo oratorio

Perché averne uno?

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Un piccolo oratorio sopra una libreria.

Che cos’è un piccolo oratorio?

Conosciuto anche come tavolo di preghiera, angolo delle icone, altare domestico e con altri nomi, un piccolo oratorio è semplicemente uno spazio sacro riservato nella tua casa.

Ma non deve essere complicato. Tutto ciò di cui hai bisogno è una candela e un’immagine religiosa. Se lo desideri, puoi incastonare la tua Bibbia in un posto d’onore, e un panno sotto è una bella aggiunta, ma queste cose possono essere aggiunte gradualmente. 

Il piccolo oratorio diventa un bel punto focale per la preghiera familiare , un luogo dove riunirsi o fermarsi per connettersi con Dio.

Avere lo spazio riservato aiuta a ricordarsi di fare una pausa per la preghiera.

La tradizione dell’angolo delle icone 

La tradizione di avere un’icona sulla parete o in un angolo da qualche parte nella casa è particolarmente popolare tra i cattolici orientali.

La tradizione è così popolare, infatti, che molti cattolici orientali ricevono icone di Gesù e Maria al loro matrimonio . Questi serviranno come base per l’angolo delle icone della casa.

In che modo la famiglia utilizza l’angolo delle icone? Utilizzando l’ angolo delle icone sia per pregare che per imparare. Di solito si possono dire le preghiere familiari vicino alle icone e includere icone per le feste attuali per parlare e insegnare ai figli nelle feste.

L’angolo delle icone aiuta la sua famiglia a collegare il tempo trascorso in chiesa con la vita domestica . 

“La nostra famiglia vede nel nostro angolo delle icone molte delle stesse icone che vedono in chiesa “, hanno detto alcuni. “I ragazzi spesso venereranno le icone proprio come fanno durante la Liturgia, anche al di fuori del tempo di preghiera familiare”. La famiglia ha un piccolo incensiere che usa durante la preghiera, e l’incenso aiuta anche i figli più piccoli a collegare le preghiere familiari al tempo trascorso in chiesa.

Non hai bisogno di molto spazio

Incoraggiare i genitori a creare il proprio spazio di preghiera anche se lo spazio è limitato, è molto utile!

Un angolo per icone o un altare domestico non ha bisogno di essere grande o elaborato!

Una famiglia che ha realizzato questo spazio per preghiere stile oratorio, afferma” La nostra casa è più piccola e il tavolo della cucina funge da spazio per mangiare, spazio per l’artigianato, spazio per la scuola e spazio per la preghiera. Il nostro angolo delle icone è sul muro accanto al tavolo e molte delle nostre icone sono state ritagliate dai bollettini della nostra chiesa o stampate dal computer. Avere il nostro spazio di preghiera sempre pronto è stata sicuramente una benedizione per la nostra famiglia.

Chi erano i gentili nella Bibbia?

Chi erano i gentili nella Bibbia?

Secondo la Bibbia, i gentili originariamente erano persone non legate al popolo ebraico.

Leggendo la Bibbia, specialmente il Nuovo Testamento, ti imbatterai spesso nella parola Gentile.

Cosa significa?

Parola di origine latina e solitamente impiegata al plurale. Nelle versioni inglesi di entrambi i Testamenti designa collettivamente le nazioni distinte dal popolo ebraico.

Il motivo principale per cui i gentili vengono menzionati nella Bibbia è che “come discendenti di Abramo, gli ebrei si consideravano, ed erano infatti, prima della venuta di Cristo, il popolo eletto di Dio. Poiché le nazioni non ebraiche non adoravano il vero Dio  e generalmente indulgevano in pratiche immorali, il termine  Gôyîm  “Gentili” ha spesso nelle Sacre Scritture, nel Talmud, ecc., un significato denigratorio”.

Inizialmente ci fu molta discussione tra gli apostoli sull’opportunità o meno di predicare ai gentili il Vangelo di Gesù Cristo.

Per fortuna San Paolo divenne l ‘” Apostolo dei Gentili ” e si incaricò di evangelizzare tutte le persone, sia ebrei che gentili, assicurandosi che tutti conoscessero l’opera salvifica di Gesù Cristo.

IL DONO DELLA SALVEZZA
AI GIUDEI E AI GENTILI
(Mc 6,1-8,26).

  1. GIUDEI E GENTILI NELLA CHIESA PRIMITIVA
    I primi cristiani dovettero ben presto affrontare un problema che a noi oggi può sembrare
    estraneo al discorso religioso, quello cioè che riguarda gli alimenti di cui un credente può
    nutrirsi e quelli ai quali deve rinunciare. A sua volta questo era solo un aspetto di una
    questione più grande: quale atteggiamento i credenti in Cristo devono assumere nei confronti
    della legge mosaica? Avendo ricevuto il vangelo di salvezza che si incarna nella persona di
    Gesù, come devono regolarsi nei confronti della venerabile tradizione del popolo giudaico? In
    altre parole, per essere tali i cristiani devono rimanere o diventare giudei a tutti gli effetti,
    oppure la fede in Cristo è sufficiente per la salvezza? Questo dilemma non si poneva per un
    pio ebreo, il quale, una volta diventato cristiano, non riteneva che questo fosse un motivo
    sufficiente per abbandonare la pratica della legge mosaica, che precedentemente aveva
    regolato tutta la sua vita. La questione si poneva, invece, all’interno della missione, proprio
    perché molti gentili erano disposti a convertirsi; ma non a entrare in una comunità religiosa
    che si identificava con un gruppo etnico isolato all’interno dell’impero romano. Se si fosse
    imposta l’osservanza della legge mosaica, il cristianesimo, che potenzialmente è universale,
    sarebbe diventato nella migliore delle ipotesi la religione di un piccolo gruppo all’interno del
    mondo giudaico, che a sua volta già era una piccola entità nella società di allora. Proprio la
    necessità di annunziare il vangelo ai gentili mise ben presto in crisi l’osservanza della legge
    mosaica anche se la maggior parte dei primi cristiani era di provenienza ebraica.
    Nella chiesa primitiva ci furono forti scontri su questo tema. Dai dati presenti negli scritti
    cristiani delle origini emergono sostanzialmente quattro orientamenti diversi. Anzitutto vi
    erano i giudaizzanti, che rappresentavano l’ala più conservatrice del cristianesimo primitivo:
    essi sostenevano che tutti i cristiani, provenissero essi dall’ebraismo o dal paganesimo,
    dovevano osservare la legge. Altri invece, come Giacomo, fratello del Signore, affermavano
    che, mentre i convertiti dall’ebraismo dovevano continuare ad osservare la legge, ai gentili era
    richiesta soltanto l’osservanza di alcune norme (le cosiddette «clausole di Giacomo»: cfr. Atti
    15,19-20).
    Vi erano poi coloro che, come Paolo, sostenevano che i gentili convertiti non erano tenuti
    all’osservanza della legge mosaica, mentre i giudeo-cristiani potevano regolarsi come meglio
    preferivano, in quanto la legge di Mosè non era più essenziale neppure per loro. Infine gli
    ellenisti (dei quali il rappresentante più illustre era Stefano, il protomartire) sostenevano che
  • 2 –
    nessun credente in Cristo fosse tenuto ad osservare la legge poiché questa aveva perso ogni
    significato (sembra questo il tema del discorso di Stefano in At 7).
    Il solco tra i rappresentanti di questi diversi orientamenti era molto profondo in quanto
    riguardava non solo la prassi, ma anche la fede delle prime comunità. In fondo si trattava di
    stabilire se la persona di Gesù e la fede in lui erano sufficienti per la salvezza, oppure se era
    necessario qualcos’altro, cioè la pratica di quelle norme venerande sulle quali si era fondata
    per secoli la vita del popolo che aveva dato i natali allo stesso Gesù.
  1. MARCO, UN VANGELO DI FRONTIERA
    Oggi si suppone che Marco sia il più antico dei primi tre vangeli, così simili e così diversi
    da essere chiamati «sinottici», cioè in gran parte paralleli. Di fatto i vangeli di Matteo e Luca
    possono essere considerati come due nuove edizioni, rivedute e ampliate, di Marco. Se infatti
    confrontiamo tra loro i tre sinottici, notiamo che Matteo e Luca hanno in comune molto
    materiale, costituito specialmente da detti di Gesù, che non si trova in Marco. Siccome
    utilizzano questo materiale in modi e luoghi diversi del loro scritto, si può ritenere che essi
    non si conoscessero l’un l’altro, ma abbiano ricavato questi detti da una fonte sconosciuta a
    Marco, andata poi perduta, che viene designata oggi con la sigla Q (dal tedesco Quelle,
    «fonte»). Si può dunque concludere che Matteo e Luca hanno fatto uso sostanzialmente di due
    fonti, Marco e Q. Insieme ad esse poi ciascuno di loro ha usato alcune tradizioni a lui solo
    note.
    Pur dipendendo da Marco, è possibile però che Matteo e Luca fossero ancora a contatto
    con la forma orale delle tradizioni da lui raccolte, o magari con una edizione precedente del
    suo vangelo. Solo così si spiega il fatto che a volte contengono dettagli che sembrano più
    arcaici rispetto a quelli che si trovano nel secondo vangelo.
    Marco è dunque l’evangelista che per primo ha fatto una grande raccolta delle tradizioni
    orali riguardanti Gesù di Nazaret, dando così origine a quel genere letterario che chiamiamo
    «vangelo». Probabilmente già prima esistevano collezioni di brani, usate dai catechisti per la
    formazione religiosa dei convertiti, di cui la più antica, e quindi anche la più profondamente
    rielaborata, era quella riguardante la Passione di Gesù. Marco ha unito questo materiale, che
    era ancora in gran parte allo stato fluido, in modo tale che tutto quanto gravitasse sul racconto
    della Passione. Questa constatazione ha fatto sì che un autore definisse il vangelo di Marco
    come il racconto della Passione di Gesù preceduto da una lunga introduzione.
    Lo studio dei rapporti che intercorrono tra i vangeli sinottici mostra chiaramente che né
    Matteo né Luca si sono sentiti liberi di manipolare le tradizioni a loro piacimento. Bisogna
    supporre che anche Marco, sebbene le sue fonti non siano note, sia stato molto legato alla
    tradizione. Malgrado ciò egli ha impresso la sua impronta sul materiale di cui disponeva,
    soprattutto disponendolo secondo un ordine che gli sembrava riflettesse meglio i diversi
    momenti e aspetti della predicazione di Gesù. Naturalmente per fare ciò ha dovuto operare
    alcuni ritocchi, fare collegamenti, armonizzare frammenti diversi. Questo lavoro
    «redazionale» appare chiaramente dagli studi sulla forma letteraria della sua opera.
    Lo scopo fondamentale di Marco è quello di presentare Gesù come il Messia, il Figlio di
    Dio che annunzia e inaugura il «regno di Dio» (cfr. 1,14-15). Egli però è preoccupato non
    tanto di affermare questa sua dignità trascendente, quanto piuttosto di precisare le modalità
    con cui lo ha interpretato il suo ruolo. In altre parole egli intende mostrare al lettore che la
    gloria di Gesù non si manifesta nelle grandi opere da lui compiute, specialmente nei suoi
    miracoli, ma piuttosto nella sua passione e morte. A tale scopo egli fa ricorso a un espediente
    letterario chiamato «segreto messianico»: in altre parole egli ha rielaborato il materiale a sua
    disposizione in modo da far apparire che durante tutto il periodo del suo ministero Gesù ha
  • 3 –
    rifiutato non solo l’appellativo di Messia e di Figlio di Dio, ma ha tenuto nascosto tutto ciò
    che poteva far pensare a queste prerogative, come per esempio i suoi miracoli; solo alla fine,
    nel contesto della sua passione, quando ormai non vi era più alcuna possibilità di malinteso,
    avrebbe svelato la sua dignità (14,62).
    Nel vangelo di Marco il fatto che Gesù non abbia voluto presentarsi con le prerogative del
    Messia atteso dai giudei ha anche un altro significato: secondo lui è vero che Gesù ha
    annunziato la venuta del regno di Dio ai giudei, ma ben presto ha rivolto lo stesso annunzio ai
    gentili, negando così in qualche modo le attese nazionalistiche legate alla figura del Messia.
    Inoltre sempre secondo Marco Gesù sarebbe passato sopra proprio tutte quelle norme della
    legge mosaica, riguardanti circoncisione, riti, alimenti, nelle quali i giudei trovavano la loro
    identità e quindi il motivo di separazione dai gentili. Questo punto di vista è piuttosto isolato
    nel cristianesimo primitivo: infatti secondo Matteo e Luca solo dopo la sua morte e
    risurrezione Gesù avrebbe comandato ai discepoli di rivolgersi ai gentili. Si può dunque
    supporre che Marco, per affermare la sua tesi, abbia ritoccato le tradizioni che gli sono
    pervenute; soprattutto accentuando lo scontro di Gesù con i rappresentanti ufficiali del
    giudaismo e descrivendo una sua attività al di fuori dei territori abitati prevalentemente dai
    giudei (Giudea e Galilea).
    Marco vuole così dimostrare che la missione ai gentili non ha avuto inizio dopo la
    risurrezione di Gesù, ma è stata inaugurata «direttamente» da lui; essa non rappresenta quindi
    uno sviluppo successivo del suo messaggio, ma ne costituisce un aspetto primario e
    qualificante. In altre parole Marco vuole dimostrare che Gesù stesso ha già indicato in
    partenza l’atteggiamento che i cristiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della legge
    mosaica: dal non aver saputo accettare questo insegnamento del Maestro proverrebbero quindi
    le difficoltà sorte in seguito nella comunità cristiana, già anticipate nel comportamento dei
    discepoli.
  1. LA SEZIONE DEI PANI
    Affrontiamo ora la sezione che abbiamo scelto come tema di questa ricerca. La
    chiamiamo per intenderci «sezione dei pani», perché in essa il termine «pane» ritorna ben
    sedici volte a partire da 6,8 fino a 8,20; però diciamo subito che si tratta di una indicazione di
    comodo, spesso utilizzata ma molto discutibile, in quanto non è sufficiente per metterne in
    luce tutti gli aspetti. Il primo passo da fare è quello di delimitare la sezione stessa e poi di
    identificarne le articolazioni interne. Ovviamente non si tratta di una questione secondaria,
    perché è necessario conoscere l’estensione di un insieme di testi e il modo in cui essi sono
    collegati per capire che tipo di discorso l’autore intende fare.
    Anzitutto è chiaro che la sezione termina con la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-
    26): subito dopo questo episodio infatti è riportata la confessione di Pietro, seguita dal primo
    annunzio della passione, che rappresenta chiaramente l’inizio di una nuova sezione. Gli
    esegeti sono invece incerti circa il punto di inizio della sezione. Secondo molti di loro, esso
    coincide con la prima moltiplicazione dei pani (6,30), secondo altri con il racconto
    dell’esecuzione di Giovanni Battista da parte di Erode (6,14-29), secondo altri ancora con la
    missione dei Dodici (6,7). In ogni caso la visita di Gesù a Nazaret (6,1-6) apparterrebbe
    ancora alla sezione precedente.
    A mio avviso, invece, la sezione inizia prima, con la visita di Gesù a Nazaret e con il suo
    rifiuto da parte dei nazaretani (6,1-6a): infatti apparirà soprattutto che, in base alla logica
    interna che presiede a tutta la sezione, questo episodio non si può staccare da quello seguente,
    l’invio dei discepoli (vv. 6b-13) che termina con il loro ritorno presso Gesù (cfr. 6,30).
  • 4 –
    Le articolazioni interne della sezione sono abbastanza chiare. Una prima arco narrativo è
    quello appunto che va dall’episodio di Nazaret fino al ritorno dei discepoli (6,1-30): in esso è
    inclusa una lunga parentesi sulla morte di Giovanni Battista (vv. 14-29).
    Dopo il ritorno dei discepoli da Gesù ha inizio un secondo blocco narrativo caratterizzato
    da due moltiplicazioni dei pani, una in Galilea (6,30-44) e l’altra nella Decapoli (8,1-10).
    Dopo il primo di questi due miracoli si situano l’episodio di Gesù che cammina sulle acque
    (6,45-52), un sommario circa la sua attività in Galilea (6,53-56) e infine una discussione con
    gli scribi e i farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). Al termine di quest’ultimo episodio Gesù
    si reca nel territorio di Tiro e Sidone, dove opera la guarigione della figlia di una donna sirofenicia (7,24-30) e poi di un sordomuto (7,31-37). Dopo la seconda moltiplicazione dei pani è
    riportata la richiesta di un segno da parte dei farisei (8,11-13). Conclude il tutto una
    discussione di Gesù con i discepoli circa il lievito dei farisei e di Erode (8,14-21) e infine la
    guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26).
    Nello sviluppo della sezione è importante soprattutto la discussione con gli scribi e i
    farisei circa il puro e l’impuro (7,1-23). La presenza di questo lungo brano sorprende il lettore
    perché il vangelo di Marco contiene solo due raccolte un po’ estese di detti, il discorso
    parabolico (c. 4) e il discorso escatologico (c. 13). Dunque se Marco ha riportato proprio qui
    questa raccolta, ciò significa che gli serviva ai fini della composizione di questa sezione.
    Subito dopo questa discussione (7,24) Gesù esce dal territorio di Israele e si reca in terra
    pagana, nel territorio di Tiro e Sidone (Fenicia). Già in precedenza aveva compiuto una
    veloce sortita fuori di Israele, quando si era recato sull’altra sponda del lago di Galilea e aveva
    guarito l’indemoniato geraseno (5,1-20), ma era subito rientrato. Invece, da questo momento
    in poi Gesù si trova sostanzialmente «all’estero», come appare all’inizio della sezione
    successiva, quando si trova solo con i suoi discepoli nei pressi di Cesarea di Filippo e chiede
    loro: «Voi chi dite che io sia?» (cfr. 8,27-33). È vero che in singole occasioni Gesù appare
    ancora, sebbene in modo fugace, in Galilea o in Giudea, tuttavia è probabile che in questi casi
    l’indicazione di luogo non sia dovuta dall’evangelista, ma facesse parte delle tradizioni da lui
    utilizzate. Quindi, secondo Marco, Gesù resta fuori dal territorio di Israele finché riappare a
    Gerico, per procedere poi verso Gerusalemme, dove avrà luogo la sua passione e morte.
    Il miracolo compiuto da Gesù nel territorio di Tiro e Sidone in favore di una donna sirofenicia (7,24-30), rappresenta, a parer mio, la chiave interpretativa di questa sezione. Ad esso
    quindi rivolgiamo anzitutto la nostra attenzione, per poter poi studiare, alla sua luce, le due
    parti che la compongono.
  1. GUARIGIONE DELLA FIGLIA DI UNA SIRO-FENICIA
    (7,24-30)
    Il miracolo narrato in questo brano ha luogo mentre Gesù si trova dalle parti di Tiro e
    Sidone, in un territorio abitato quasi esclusivamente da gentili. Egli vi si trova quasi in
    incognito, perché non vuole che alcuno lo sappia. Ma subito si reca da lui una donna che ha
    una figlioletta posseduta da uno «spirito immondo» e, gettandosi ai suoi piedi, gli chiede di
    guarirla.
    Nel corso del suo vangelo Marco dà grande importanza alla liberazione degli indemoniati
    perché in queste persone vede il focalizzarsi di una potenza avversa a Dio. È vero che per lui,
    come per Gesù e per tutto il mondo giudaico, il male risiede nel cuore degli uomini e di lì esce
    e si propaga (cfr. 7,21-23). Tuttavia questo male era visto come qualcosa di oggettivo che
    contamina i rapporti fra le persone e veniva facilmente identificato con un’entità personale di
    carattere mitologico, il demonio, l’angelo decaduto, che si oppone a Dio. Esso poi veniva
    visto all’opera specialmente in persone che avevano gravi disagi di carattere psichico, la cui
  • 5 –
    origine era altrimenti incomprensibile. In realtà, secondo la percezione moderna, l’alienazione
    mentale dipende in gran parte proprio da quelle strutture ingiuste che regolano negativamente
    i rapporti sociali. L’evangelista non esplicita questo ragionamento, ma considera la
    liberazione di un indemoniato come il segno per eccellenza che attesta la venuta del regno di
    Dio: tant’è vero che il primo miracolo compiuto da Gesù nel secondo vangelo è proprio la
    guarigione di un ossesso (1,21-28). Perciò la donna che chiede a Gesù la guarigione della
    figlioletta posseduta da uno spirito immondo, esige senza saperlo un segno di quella salvezza
    piena e definitiva che coincide con la venuta del Regno.
    L’evangelista sottolinea di proposito che «quella donna che lo pregava di scacciare il
    demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia». Per lui è importante che il lettore si
    renda ben conto che si tratta di una donna non ebrea a tutti gli effetti. Ella cerca dunque di
    forzare il principio secondo cui la salvezza è per i giudei. Perciò Gesù le dice: «Lascia prima
    che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Per i giudei
    i cani erano i gentili; il pane dei figli simboleggiava la salvezza che, essendo destinata al
    popolo ebraico, non poteva essere data ai gentili. La durezza di questa affermazione è appena
    attenuta dal diminutivo «cagnolini» con cui i gentili vengono designati. Ma la donna replica:
    «Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli». Con
    queste parole ella riconosce che effettivamente non avrebbe diritto a tale miracolo, perché è
    fuori discussione che la salvezza appartiene ai giudei, ma gli chiede semplicemente di fare
    un’eccezione. Allora egli le dice: «Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia».
    E ciò si attua puntualmente.
    Per capire il discorso di Marco è utile confrontare il suo racconto con quello di Matteo
    (15,21-28). Anche secondo questo vangelo Gesù si è recato dalle parti di Sidone e Tiro, dove
    gli viene incontro la donna cananea; questa si mette a gridare verso di lui, «ma egli non le
    rivolse neppure una parola». Allora i discepoli gli chiedono di esaudirla, se non altro per
    evitare che li segua gridando. Ma Gesù risponde: «Non sono stato inviato che alle pecore
    perdute della casa di Israele». Questa frase, così dura, si trova solo in Matteo, il quale
    prosegue narrando che ella viene, si prostra dinanzi a lui chiedendo di essere aiutata. Allora
    Gesù le dice: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
    Questa risposta è la stessa che si trova in Marco, ma manca la prima parte della frase:
    «Lascia prima che si sfamino i figli». La conclusione, poi, è uguale: la donna ribatte che
    anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora
    Gesù, dopo aver lodato la sua fede, le concede la grazia richiesta. Secondo la versione di
    Matteo Gesù, pur essendo venuto solo per gli israeliti, fa un miracolo per questa donna pagana
    per il semplice motivo che ella ha fede, cioè crede che Gesù è stato effettivamente mandato al
    popolo giudaico, ma ha il potere, se vuole, di fare qualche dono di grazia anche agli altri.
    Quindi Gesù accetta la richiesta della donna pagana, ma lo fa in via eccezionale; in altre
    parole si tratta dell’eccezione che conferma la regola.
    Questa interpretazione è confermata, sempre nel vangelo di Matteo, da un altro racconto,
    quello del centurione che aveva il servo ammalato (8,5-13): egli chiede a Gesù di guarire un
    suo servo, ma quando Gesù dice «Io verrò e lo curerò», si profonde in scuse, dicendo di non
    essere degno di riceverlo in casa sua e chiedendogli di curarlo da lontano. Gesù allora afferma
    di non aver trovato tanta fede in Israele e guarisce il servo. La reazione del centurione si
    spiega solo supponendo che Gesù non ha detto che sarebbe andato a casa sua, ma piuttosto ha
    fatto una domanda: «Dovrò forse venire a curarlo?». A questa domanda si attende una risposta
    negativa: in quanto ebreo Gesù non può entrare in casa di gentili, e quindi non può andare a
    guarire il servo del centurione. Per questo egli allora ribatte che Gesù non ha bisogno di
    andare da lui, ma può guarire il servo a distanza. Anche questa volta la guarigione avviene in
    via eccezionale, restando ferma la regola che la salvezza è per i giudei. Secondo Matteo Gesù
    invierà i discepoli ai gentili solo dopo la sua risurrezione (Mt 28,19).
  • 6 –
    Ritornando ora a Marco, bisogna ammettere che, stando al senso del discorso, la frase che
    non si trova in Matteo («Lascia prima che si sfamino i figli») non sia stata omessa da questo
    evangelista, ma sia chiaramente un’aggiunta di Marco stesso. Infatti l’accenno a un «prima»
    lascia chiaramente supporre l’esistenza di un «dopo»: ora, se Gesù ha limitato la sua attività al
    mondo ebraico, non si vede in che senso si può parlare di un «dopo», almeno durante la sua
    vita terrena. Pur dipendendo da Marco, su questo punto ha ragione Matteo che omette questa
    frase ispirandosi forse a una tradizione più antica di cui era a conoscenza.
    Ma proprio questa dialettica tra «prima» e «poi» che Marco introduce nella risposta di
    Gesù manifesta il modo in cui egli leggeva l’episodio: è vero che il pane della salvezza
    appartiene ai figli, ma dopo di loro esso è donato anche agli altri. E questo «dopo» sta
    iniziando già ora con la guarigione della figlia della donna siro-fenicia. Marco dunque non
    vede in ciò che Gesù sta per fare una semplice eccezione alla regola, ma l’inizio di una nuova
    fase della sua attività in cui la salvezza è offerta ai gentili.
  1. GLI INIZI DELLA MISSIONE AI GENTILI
    Il susseguirsi di un «prima» e di un «poi» appare anzitutto nella prima parte della sezione,
    quella cioè del rifiuto opposto a Gesù dai nazaretani, seguito dal conferimento ai discepoli di
    un compito missionario.
    5.1. L’episodio di Nazaret (6,1-6a)
    La visita a Nazaret si inserisce bene nell’ambito del ministero di Gesù in Galilea. È
    comprensibile che, per parlare ai suoi compaesani, Gesù approfitti del giorno di sabato,
    quando tutti sono radunati nella sinagoga. Marco non dice il tema della predicazione, ma
    mostra lo stupore dei presenti e i loro commenti. Essi trovano difficoltà ad accettare il suo
    insegnamento, nel quale essi riconoscono una manifestazione di sapienza, cioè una grande
    autorevolezza, a causa delle sua origine umile, e soprattutto ben nota a tutti. Ma proprio
    questo è molto strano: non avrebbero dovuto piuttosto essere contenti ed orgogliosi di lui, un
    loro compaesano divenuto famoso?
    Per capire che cosa effettivamente è accaduto a Nazaret dobbiamo soffermarci sulla frase
    finale: «E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li
    guarì. E si meravigliava della loro incredulità» (vv. 5-6). Questa constatazione si spiega più
    chiaramente alla luce di quanto riporta Luca nella sua versione di questo episodio (Lc 4,14-
    30). Secondo il terzo evangelista Gesù commenta la diffidenza dei suoi compaesani con
    queste parole: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo
    udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria!» (v. 23). Questa frase lascia
    capire che i nazaretani reagiscono con freddezza all’insegnamento di Gesù in quanto ritengono
    che questo personaggio, diventato famoso proprio per i suoi miracoli, dovrebbe cominciare a
    farli proprio nel suo paese, tra i suoi parenti e famigliari. A queste attese interessate Gesù
    risponde portando l’esempio di due profeti: Elia durante la carestia non si rivolge a tutte le
    vedove bisognose di Israele, ma sfama miracolosamente una donna straniera, la vedova di
    Sarepta (v. 26); trascurando tutti i lebbrosi presenti in Israele, Eliseo va a guarire proprio uno
    straniero, Naaman il siro (v. 27). I miracoli di Gesù sono segni del regno di Dio, e non un
    servizio sanitario offerto da Dio ai soliti privilegiati. Essi vengono offerti a chi è disposto a
    credere, non a chi li pretende come un diritto acquisito.
    Torniamo a Marco. Anch’egli lascia intendere che il punto di attrito tra Gesù e i
    nazaretani sta nella loro pretesa, delusa da lui, di essere i principali destinatari dei suoi
    miracoli. L’evangelista ha rimanipolato il racconto (o l’ha già trovato così trasformato) in
    chiave cristologica: i nazaretani rifiutano Gesù perché sono delusi nella loro aspettativa di un
  • 7 –
    Messia trascendente, la cui origine è sconosciuta (cfr. Gv 7,27). Ma soprattutto egli mette
    sulla bocca di Gesù questa frase: «Nessun profeta è accetto in casa sua». Il rifiuto dei
    nazaretani appare così come espressione non tanto dell’egoismo di un gruppetto di contadini,
    ma del peccato di tutto Israele, che rifiuta Gesù come ha sempre rifiutato coloro che gli erano
    stati inviati da Dio. Il loro comportamento diventa simbolo e anticipazione di quello che sarà
    il rifiuto che tutto il popolo ebraico opporrà al suo Messia (anche se Marco farà poi capire che
    responsabili sono soprattutto i capi del popolo).
    5.2. L’invio dei discepoli (6,6b-13)
    Alla scena del rifiuto di Gesù a Nazaret fa seguito immediatamente la missione dei
    Dodici: «Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. Allora chiamò i Dodici, e
    incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi» (vv. 6b-7). Il
    potere sugli «spiriti immondi» è il segno per eccellenza del Regno di Dio: l’annunzio della sua
    venuta costituisce dunque il motivo dell’invio dei discepoli (cfr. Lc 10,9). Queste potenze che
    si oppongono a Dio sono le uniche veramente «impure», mentre in seguito Gesù dichiarerà
    puri tutti gli alimenti (7,19), e di conseguenza anche i gentili, come già precedentemente
    aveva reso puri i lebbrosi (1,44).
    Alla notizia dell’invio fa seguito immediatamente la descrizione dell’equipaggiamento
    degli inviati: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né
    pane (ecco che appare per la prima volta questo termine), né bisaccia, né denaro nella borsa;
    ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (vv. 8-9). Secondo Marco Gesù
    permette il bastone, che serviva per facilitare il cammino e per un minimo di difesa, e un paio
    di sandali, che proteggevano i piedi dai sassi e dal calore eccessivo del terreno. Nei passi
    paralleli di Matteo (10,10) e di Luca (9,3; 10,4) invece Gesù è stato molto più radicale nelle
    sue direttive di viaggio, in quanto proibisce, insieme al resto, anche bastone e sandali. Senza
    neppure questi due strumenti essenziali a ogni viandante, i discepoli erano costretti a correre e
    a portare a termine in fretta la loro missione: si ha quindi l’impressione che si tratti di una
    missione ristretta a un piccolo territorio (la Galilea), e a un tempo breve (il regno di Dio è
    vicino). Ciò è sottolineato da Matteo, secondo il quale Gesù ha detto ai discepoli: «Non
    andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore
    perdute della casa d’Israele» (10,5b-6).
    Anche in questo caso si deve supporre che la versione di Matteo e di Luca sia più arcaica
    di quella di Marco: essa infatti si rifà alla fonte Q e per di più è in sintonia con l’esigenza di
    rinuncia totale prospettata da Gesù; inoltre è evidente che la missione dei discepoli è
    circoscritta alla Galilea per la brevità del tempo che secondo Gesù separa dalla venuta del
    Regno. Perché dunque Marco ha cambiato le parole del Signore? Per rispondere a questo
    interrogativo bisogna notare che la finale canonica del secondo vangelo (16,9-20) è ritenuta
    oggi quasi universalmente come un’aggiunta: così come è uscito dalla penna di Marco il
    vangelo finiva con l’episodio delle donne che, dopo aver ricevuto al sepolcro l’annunzio della
    risurrezione di Gesù, fuggono spaventate e «non dissero niente a nessuno perché avevano
    paura» (16,8). Nell’aggiunta successiva si dice che Gesù risorto dà ai suoi discepoli il
    mandato di annunziare il vangelo a tutto il mondo. Ma nel vangelo «autentico» di Marco
    l’invio ai gentili è assente.
    Marco si è forse dimenticato di un dettaglio di tale importanza, lui che è «l’evangelista
    dei gentili»? Certamente no: al contrario per lui l’invio ai gentili ha già avuto luogo quando
    Gesù si trova in Galilea. Per questa ragione egli ritocca la tradizione a sua disposizione:
    dovendo coprire lunghe distanze in territori lontani, i discepoli devono essere meglio
    «equipaggiati», cioè devono indossare almeno un paio di sandali e portare con sé un bastone.
    E in funzione di ciò egli non riporta alcuna limitazione territoriale, come invece aveva fatto
    Matteo. Se le cose stanno così, allora vuol dire che per Marco Gesù, dopo aver offerto la
  • 8 –
    salvezza a Israele (simboleggiato nei suoi compaesani di Nazaret) ed essere stato rifiutato, per
    mezzo dei discepoli estende la sua opera ai gentili. Egli dunque vuole mostrare, in conformità
    al principio emerso nell’episodio della donna siro-fenicia, che il vangelo è stato offerto da
    Gesù «prima» ai giudei, ai quali era stato promesso da Dio mediante i profeti, ma «poi», dopo
    che essi l’hanno rifiutato, è stato messo da lui stesso, già durante la sua vita terrena, a
    disposizione dei gentili, cioè di tutti.
    Il rifiuto di Gesù da parte dei nazaretani e l’invio dei discepoli ai gentili sono dunque in
    Marco due episodi sono strettamente collegati. Non è quindi consigliabile spezzare questa
    unità, come fanno invece Matteo e Luca, nonché quei commentatori che fanno iniziare una
    nuova sezione con Mc 6,6b.
  1. LE DUE MOLTIPLICAZIONI DEI PANI
    La stessa dialettica del «prima» e del «poi» appare anche nella seconda parte della
    sezione, che è caratterizzata da due moltiplicazioni dei pani, separate da alcuni brani, tra
    spicca soprattutto quello in cui è riportata una lunga discussione con gli scribi e i farisei circa
    la questione dei cibi.
    6.1. Prima moltiplicazione dei pani (6,30-44)
    Questo episodio si situa nel territorio della Galilea e viene descritto dall’evangelista
    mediante numerosi simboli tipici del mondo biblico. Gesù sente compassione per la folla,
    «perché erano come pecore senza pastore». La «compassione» esprime la misericordia di Dio
    verso il popolo peccatore (cfr. Es 34,6). Il gregge è un simbolo per eccellenza di Israele (cfr.
    Nm 27,16-17). Il «pane» come dono divino ricorda la manna (Es 16; Nm 11,5), quindi
    l’esodo e la salvezza. I pani sono «cinque», numero che ricorda i libri della Torah (nutrimento
    spirituale di Israele) ed è la metà di dieci, che è il numero dei Comandamenti. I pesci alludono
    alle quaglie date insieme alla manna. Ci sono le dodici «ceste», che erano uno strumento usato
    a Roma prevalentemente dagli ebrei; le ceste nei quali sono messi i resti sono «dodici»,
    ricordo delle dodici tribù di Israele. Poi c’è il fatto che coloro che avevano mangiato erano
    «cinquemila» (ripresa di «cinque»); la divisione della folla in gruppi è un richiamo
    all’organizzazione di Israele nel deserto (cfr. Es 18,21.25); Gesù compie una specie di rituale
    ebraico: leva gli occhi al cielo, pronunzia la benedizione, spezza i pani, li dà ai discepoli.
    Dunque l’evangelista usa un simbolismo che riporta ad una folla giudaica. I presenti sono
    giudei e ciò che Gesù dona loro è «il pane dei figli», cioè la salvezza che Dio aveva promesso
    al suo popolo.
    In questo episodio appare con chiarezza il tipo di salvezza portata da Gesù: essa consiste
    nella riaggregazione del popolo di Dio, che ritrova la sua coesione medianti i rapporti nuovi
    che si stabiliscono tra i suoi membri in forza della fede in JHWH, di cui Gesù è l’inviato.
    Successivamente l’evangelista riporta l’episodio di Gesù che cammina sulle acque (6,45-52):
    anche qui è chiaro il collegamento con l’esodo, dove si racconta che Dio passa attraverso il
    mare dei Giunchi alla testa del suo popolo. Seguono numerose guarigioni (6,53-56), che
    approfondiscono ulteriormente il tema della salvezza portata da Gesù.
    6.2. Discussione con gli scribi e i farisei (7,1-23)
    Contrariamente alla sua abitudine di dare la preferenza ai racconti, l’evangelista riporta
    qui una serie di detti riguardanti il problema degli alimenti puri e impuri che a prima vista non
    hanno nulla a che vedere con la tematica della sezione. Il collegamento si coglie a partire da
    questa affermazione di Gesù, che rappresenta il culmine di tutta la raccolta: «Non capite che
    tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore
  • 9 –
    ma nel ventre e va a finire nella fogna?» (vv. 18-19a). Ma soprattutto è significativo il
    commento che ne dà l’evangelista: «Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (v. 19b).
    Gli usi alimentari dei giudei rappresentavano infatti la barriera più forte che separava i
    giudei dai gentili, i quali erano considerati impuri soprattutto perché mangiavano cibi proibiti
    dalla legge mosaica. La connessione tra l’osservanza delle norme alimentari e i contatti con i
    gentili appare soprattutto nell’episodio del centurione Cornelio, dal quale Pietro accetta di
    recarsi solo dopo che una rivelazione celeste gli ha fatto capire che tutti gli alimenti sono puri
    (At 10,9-16.28-29).
    Proprio l’episodio di Cornelio fa capire che il superamento delle prescrizioni alimentari
    giudaiche si è attuato dopo la morte e risurrezione di Gesù ed è stato accettato solo in parte e
    con difficoltà dagli ambienti giudeo-cristiani di Gerusalemme. Lo stesso Matteo, che riflette
    una comunità moderatamente giudaizzante, pur facendo uso di Mc 7,1-23, non si sente di
    accogliere nel suo vangelo il principio affermato da Marco nel v. 19b. Per Marco invece è
    importante sottolineare che Gesù ha dichiarato puri tutti gli alimenti, perché questa frase gli
    serve per dimostrare che Gesù ha demolito proprio la barriera che divide i gentili dai giudei.
    Ciò significa che egli ha ormai portato a termine la prima parte della sua opera, cioè il
    conferimento della salvezza al popolo eletto. Subito dopo Gesù lascia la Galilea e compie due
    miracoli in territorio pagano, la guarigione della figlia della donna siro-fenicia e la guarigione
    di un sordomuto, che attestano la venuta del regno di Dio anche per i gentili. Per lui il dono
    della salvezza ai gentili non ha avuto inizio con la visione di Pietro e il successivo incontro
    con Cornelio, ma è già stato attuato dallo stesso Gesù, che ha dimostrato così la destinazione
    universale del suo messaggio.
    6.3. Seconda moltiplicazione dei pani (8,1-10)
    A questo punto l’evangelista riporta un altro racconto nel quale Gesù distribuisce il pane
    alla folla. Questa volta però, a differenza di quanto era avvenuto nel primo episodio, il fatto
    avviene nella Decapoli (cfr. 7,31), in territorio abitato da gentili. Di nuovo i discepoli sono
    presi di sorpresa e neppure immaginano che Gesù possa fare qualcosa di simile. Diversi
    dettagli di questo racconto però sono diversi da quelli del precedente. Riguardo ai presenti si
    dice che alcuni di loro venivano «da lontano» (8,3): nella terminologia del Nuovo Testamento
    i «lontani» sono i gentili (cfr. Ef 2,13). I pani non sono più cinque, ma sette, come sette (e non
    più dodici) sono le sporte dei pezzi avanzati: il numero «sette» era facilmente applicato ai
    gentili, come appare dal fatto che settanta (7×10) sono le nazioni del mondo (Gen 10), sette
    sono i precetti che, secondo la tradizione rabbinica, Noè avrebbe promulgato dopo il diluvio
    per i suoi figli e per l’intera umanità, settanta sono i traduttori della Bibbia in greco (la Bibbia
    del mondo gentile). Inoltre il termine «sporta» indica un contenitore usato da tutti e non
    prevalentemente dai giudei, come erano le ceste. Infine il fatto che i presenti fossero
    «quattromila» ricorda i quattro venti da cui saranno radunati gli eletti (cfr. Mc 13,27).
    In vari modi dunque il simbolismo di questo racconto rimanda ai gentili. Probabilmente
    l’evangelista conosceva due versioni di un unico racconto in cui si narrava il dono del pane da
    parte di Gesù alla folla, la prima appartenente a una chiesa di origine giudaica e la seconda
    che rispecchiava la sensibilità di una chiesa di origine gentile: ciò è confermato dal fatto che il
    vangelo di Giovanni e quello di Luca hanno una sola moltiplicazione dei pani. Riportando i
    due racconti nella stessa sezione Marco vuole far vedere in modo plastico che la salvezza,
    donata «prima» ai giudei, è stata «poi» messa da Gesù stesso a disposizione dei gentili, cioè di
    tutti.
    Le due moltiplicazioni dei pani vengono strettamente collegate tra loro mediante un
    dibattito tra Gesù e i suoi discepoli, che viene situato durante la successiva traversata del lago
    (8,14-21). Gesù si rammarica perché, pur avendo assistito due volte a un miracolo così
    strepitoso, essi si preoccupano ancora del pane materiale, e li rimprovera di avere il cuore
  • 10 –
    indurito e di non saper vedere con i loro occhi. Subito dopo viene narrata la guarigione di un
    cieco che avviene in due momenti (8,22-26). Ciò significa che anche i discepoli saranno
    guariti dalla loro cecità. Ma la loro guarigione, come quella del cieco, avverrà in modo
    progressivo, in quanto Gesù nella sezione successiva li istruirà per ben tre volte sulla sua
    imminente passione, morte e risurrezione. Alla fine della sezione il compimento di questa
    opera di illuminazione verrà significato mediante la guarigione di un altro cieco, Bartimeo
    (10,46-52).
  1. CONCLUSIONE
    La sezione del vangelo di Marco che abbiamo esaminato è molto importante perché in
    essa l’evangelista mette a fuoco alcuni temi che gli stanno particolarmente a cuore. Anzitutto
    egli vuole mostrare come la predicazione di Gesù in Galilea rappresenti l’inaugurazione del
    Regno in favore di tutto Israele. Dio non è dunque venuto meno alle promesse fatte al suo
    popolo e gli ha inviato un profeta pieno di sapienza (6,2.4). Per mezzo suo Dio ha fatto
    veramente i segni della salvezza già prefigurati nel periodo dell’esodo e in quello del ritorno
    dall’esilio: raduno del popolo di Dio (gregge e pastore), conferimento della legge
    (l’insegnamento di Gesù), dono della manna, passaggio del mare, guarigione delle malattie e
    delle sofferenze del popolo. Soprattutto Marco ha voluto sottolineare come proprio in questa
    aggregazione del popolo intorno a Gesù si manifesta il tipo di salvezza voluto da Dio, che
    consiste nell’abbattimento di tutte le barriere che separano i suoi figli gli uni dagli altri; tra
    questi fattori disgreganti Gesù indica soprattutto la legge mosaica, la cui pratica era diventata
    un criterio di discriminazione all’interno del popolo.
    La salvezza donata a Israele, proprio perché implica l’eliminazione di tutte le
    discriminazioni, tende a superare la barriera per eccellenza, quella che separa il popolo eletto
    dai gentili e raggiunge necessariamente tutta l’umanità. Ma purtroppo Israele, ancora
    arroccato nei propri privilegi, non è disposto a seguire Gesù su questa strada. Si apre quindi
    una profonda frattura tra il popolo e il suo messia, che appare come il culmine dell’infedeltà al
    suo Dio. Ma proprio questo rifiuto, simboleggiato nel comportamento degli abitanti di
    Nazaret, accelera i tempi e provoca l’invio missionario dei discepoli, aperto ormai a tutta
    l’umanità, e soprattutto spinge Gesù a rivolgersi egli stesso ai gentili.
    L’interesse che, secondo Marco, Gesù stesso ha manifestato durante il suo ministero
    pubblico nei confronti dei gentili implica il superamento del concetto stesso di «popolo di
    Dio» così caro ai suoi connazionali. Se la salvezza è offerta a tutti, non può più esistere un
    popolo eletto (né Israele né la chiesa) a cui i gentili si aggregano; il concetto stesso di alleanza
    viene superato nel senso che in Gesù Dio conferisce ormai a tutti la possibilità di godere la
    comunione con Dio (cfr. 14,24). In questa prospettiva è chiaro che i discepoli hanno ragione
    di esistere solo se annunziano a tutti la venuta del regno, che in modi e tempi diversi deve
    appunto coinvolgere tutta l’umanità. Secondo una terminologia moderna si può dire che la
    teologia di Marco non è né cristocentrica né ecclesiocentrica, ma “regnocentrica”.
    Si spiega allora perché più volte in questa sezione i discepoli stessi sono criticati da Gesù,
    del quale non comprendono le parole e i gesti. Anch’essi come il popolo di Israele sono privi
    di intelletto (7,18), hanno il cuore indurito (6,52; 8,17-18), perché non sanno seguire il
    Maestro su un punto così importante delicato quale l’annunzio universale della salvezza.
    Presentando i discepoli in un modo così impietoso Marco vuole forse criticare non tanto il
    loro atteggiamento prima della morte e risurrezione del Maestro, quanto piuttosto quello della
    comunità a cui è indirizzato il suo vangelo. Essa infatti si è ripiegata su se stessa, sui propri
    problemi e sul suo sviluppo numerico, mettendo in secondo piano l’impegno di annunziare la
    venuta del Regno a tutta l’umanità. La sezione successiva metterà in luce l’opera compiuta da
  • 11 –
    Gesù per guarire insieme ai discepoli anche la comunità che rappresentano. Ma l’evangelista
    sa che si tratta di un’illuminazione parziale e provvisoria, perché nel momento della passione
    tutti i discepoli lo abbandoneranno (14,50)
Il Dio della Pace- L’EMMANUELE

Il Dio della Pace- L’EMMANUELE

Il Figlio che deve nascere e il suo regno Is 9:1-7

5. Un bambino è nato per noi - Natale del Signore [A te Signore - Canti di Introito Avvento-Natale]

Nel Messia, nell’Emmanuele – il “Dio con noi” – lo shalom, la pace come pienezza di vita in assoluto, come felicità e salvezza, si realizza personalmente tra di noi ed è effusa attraverso lo Spirito santo su tutti gli esseri.

Questo Bambino, l’Emmanuele, è nato a beneficio di noi uomini, di noi peccatori, di tutti i credenti, dall’inizio alla fine del mondo. Giustamente è chiamato Meraviglioso, perché è insieme Dio e uomo. Il suo amore è la meraviglia degli angeli e dei santi glorificati. È il Consigliere, perché conosceva i consigli di Dio fin dall’eternità; e dà consigli agli uomini, nei quali consulta il nostro benessere. È il Consigliere meraviglioso; nessuno insegna come lui. È Dio, il potente. L’opera del Mediatore è tale che nessun potere inferiore a quello del Dio potente potrebbe realizzarla. È Dio, uno con il Padre. Come Principe della Pace, ci riconcilia con Dio; è il Datore della pace nel cuore e nella coscienza; e quando il suo regno sarà pienamente stabilito, gli uomini non impareranno più la guerra. Il governo sarà su di lui; egli ne porterà il peso. Del governo di Cristo si parla in modo glorioso. Non c’è fine all’aumento della sua pace, perché la felicità dei suoi sudditi durerà in eterno. L’esatto accordo di questa profezia con la dottrina del Nuovo Testamento dimostra che i profeti ebrei e i maestri cristiani avevano la stessa visione della persona e della salvezza del Messia. A quale re o regno terreno si possono applicare queste parole? Dona dunque, o Signore, al tuo popolo di conoscerti con ogni nome accattivante e in ogni carattere glorioso. Accresci la grazia in ogni cuore dei tuoi redenti sulla terra.

Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce

 La pace, dice Isaia, è una presenza divina, un bambino che è nato per noi, un figlio che ci è stato donato, il cui nome sarà “Consigliere ammirabile, Dio forte, Padre eterno, Principe della pace” (cf. Is 9,5-6). Qui siamo certamente lontani dal nostro modo abituale di pensare la pace, ma la contemplazione, l’assiduità con la Parola ci svela che la pace è un dono che entra nella nostra storia, è una realtà che tocca tutti i rapporti, ma è innanzitutto una persona: il Messia, Gesù Cristo. C’è pace per l’umanità quando questa accede al piano storico della salvezza, cioè a Cristo, quando accoglie lo Spirito di Cristo e adotta i mezzi e i metodi di Cristo, che sono contrassegnati dalla mitezza, dalla debolezza, dall’umiltà; nel ripudio della violenza, della prevaricazione, dell’autoaffermazione, dell’orgoglio. La pace viene con chi ha i tratti descritti nella profezia di Zaccaria: chi “è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”, in colui che viene a far sparire i carri da guerra, i cavalli degli eserciti, l’arco e tutte le armi (cf. Zc 9,9-10).

            Il dono più grande che abbiamo ricevuto da Dio, la consegna del Figlio agli esseri umani, è nient’altro che Il Vangelo della pace per mezzo di Gesù Cristo (cf. At 10,36; Ef 6,15).

Il vangelo di Matteo è organizzato attorno al principio per cui Dio è con noi.

Questo è l’inizio, e in Gesù si compie ciò che è stato promesso, perché il figlio che nasce da una vergine «sarà chiamato Emmanuele, cioè Dio con noi» (Mt 1,23).

Questo è il cuore che pulsa nei suoi discepoli e fa scorrere la vita nella loro comunità per quanto piccola possa essere: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Questa è l’assicurazione che sorregge in modo stabile il percorso sul quale Gesù lancia quelli che credono in lui e lo annunciano: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Sono le ultime parole del primo vangelo, parole che chiudono e insieme aprono, un arrivo che è dunque una partenza, una fine che è un inizio, che funziona come un propellente che lancia negli spazi dell’umanità di tutti i tempi, per portare a tutti, e ovunque, la grande notizia di un Dio che si fa uomo per stare con noi.

Ha senso pregare per la pace?

            Forse nutriamo una certa diffidenza verso la preghiera come mezzo per ristabilire la pace. Temiamo l’evasione dalla realtà, lo spiritualismo, e qualche volta siamo portati a pensare che il problema della pace lo si debba risolvere con la lotta, non con la contemplazione. Qui non si tratta di eliminare o attenuare l’impegno storico, la prassi della pace: al contrario, si tratterà di potenziarla e renderla efficace ricorrendo alla sorgente della preghiera, della contemplazione. Se la pace è conosciuta nella sua verità attraverso la Parola, se ci è donata nell’assiduità con la Parola, può allora anche scaturire dalla preghiera come azione e prassi. Nessuna evasione, nessun privaticismo, nessun intimismo della pace.

            La preghiera inoltre è sorgente di pace non solo a livello individuale – perché ci restituisce la pace con Dio e la pace del cuore – ma anche a livello collettivo, perché immette nella storia una forza efficace: è infatti una componente della storia in quanto attività che fa storia, che crea eventi.

            È significativo che nel linguaggio biblico il termine “preghiera” derivi da “decidere”, “decidere con Dio”. Quando Abramo prega e intercede presso Dio per la salvezza del giusto a Sodoma e Gomorra, egli decide con Dio la pace del giusto che sarà salvato. Quando Mosè prega tenendo le braccia in alto – in quella battaglia più escatologica che storica contro l’avversario Amalek – egli prega e decide con Dio la pace del popolo eletto che minaccia di trovare la morte quando Mosè cessa di pregare.

            Pregare nella nostra fede non è operazione arrogante, non è rito magico per garantirsi ciò che si desidera, ma è fare discernimento e decidere con Dio, con il Signore che lascia aperto davanti a sé uno spazio da varcarsi con la preghiera. La preghiera ha una funzione dunque nella storia, s’innalza dalla storia come grido di oppressi, di curvati, di poveri, di sfruttati, di prigionieri, di torturati, e spinge Dio alla liberazione, a intervenire; ma può anche essere l’intercessione del credente che chiede la pace dove questa è calpestata e inculcata. Tutte le vittime della storia sono preghiera efficace, ma anche gli eletti che gridano a Dio notte e giorno vedono Dio che interviene rapidamente (cf. Lc 18,7).

            Occorre dunque pregare per la pace e questa è un’operazione di primaria importanza per il credente che è operatore di pace, uomo di pace, solo se questa pace la riceve nella preghiera, solo se nell’assiduità della Parola è trasformato da essere umano che coltiva in sé ribellione e violenza in essere umano obbediente a Dio e pacifico. Infatti, se la preghiera è entrare nei pensieri del Dio della pace, se è condividere la sua volontà di pace, allora pregando, contemplando, si viene plasmati esseri di pace. Non a caso nel Cantico dei cantici, celebrazione dello Shalom, il Messia è Shalom, il Pacifico, e la Sposa popolo di Dio è Shulamit, la pacifica. Diventare uomo di pace e donna di pace nella contemplazione è possibile perché la preghiera allarga il cuore, infonde il fuoco dell’amore nel cuore, apre il cuore all’amore per il cosmo intero.

Dio è con noi, sempre presente, pronto a decidere la pace con chi lo prega, pronto a donarla a tutti gli umani.

Donne Chiesa Mondo

Donne Chiesa Mondo

Il cammino delle donne dal Concilio Vaticano II al Sinodo sulla sinodalità

Dal silenzio alla parola

Ripercorre il cammino delle donne nella Chiesa, dal Concilio Vaticano II al recente Sinodo sulla sinodalità, il numero di novembre di “Donne Chiesa Mondo”, il mensile femminile de L’Osservatore Romano, coordinato da Rita Pinci.
“Dal silenzio alla parola” è il titolo di copertina, illustrata con due foto, quasi speculari ma diversissime. La prima è stata scattata nel settembre 1964: sono le “madri conciliari” il giorno in cui entrano a San Pietro, le 23 donne (religiose e laiche) ammesse ai lavori ma solo come uditrici. La seconda è dello scorso ottobre: sono le “madri sinodali” che entrano nell’Aula Paolo VI per il Sinodo dei vescovi, in cui per la prima volta 54 donne hanno potuto votare. “Donne Chiesa Mondo” racconta in che modo posizione, ruolo e consapevolezza delle donne nella Chiesa sono cambiati in sessanta anni; sorti progressive ma, nei decenni, anche qualche retromarcia, come sottolinea Mercedes Navarro Puerto, suora mercedaria e biblista, che scrive sulle religiose dopo il Concilio e offre una testimonianza in prima persona.
Molti gli interventi di chi la lezione del Concilio l’ha recepita e sperimentata da fedele, da religiosa, o nella vita professionale e politica: Cettina Militello, tra le prime donne italiane iscritte a una facoltà teologica; suor Nicla Spezzati, tra le prime ad avere un incarico ai vertici in Curia; Rosy Bindi, dirigente dell’Azione Cattolica e poi ministro della Repubblica italiana. Da scrittrice, Carola Susani racconta attraverso una lettera immaginaria a una ragazza di oggi le riflessioni di una madre conciliare. E c’è l’esperienza nei movimenti laicali femminili, nell’Azione Cattolica, nello scoutismo, nei Focolari: cattoliche che già prima del Concilio avevano scoperto un protagonismo delle donne fuori di casa e dentro la Chiesa.

Donne Chiesa Mondo: nel numero di novembre il cammino delle donne dal Concilio Vaticano II al Sinodo sulla sinodalità | AgenSIR

Che Film imperdibile !

Che Film imperdibile !

IL giocatore della MLB Rickey Hill che unisce fede, famiglia e sport

Rickey Hill e il regista di ‘The Hill’ Jeff Celentano In Una Storia Vera!

Dopo diversi anni di lavorazione, l’incredibile storia reale di Rickey Hill, che ha combattuto una malattia degenerativa della colonna vertebrale per giocare nella Major League Baseball, è rappresentata nel film The Hill .

Il film è una testimonianza di fede, famiglia e sport che lascerà gli spettatori ad esultare dalle loro sedie. Ma invia anche un sonoro messaggio di speranza: la speranza che, qualunque siano le prove e le tribolazioni che affrontiamo nella vita, non dovremmo mai arrenderci.

Il film vede protagonista l’attore veterano Dennis Quaid nei panni del padre predicatore di Hill, che offre un’interpretazione di grande impatto di un uomo di fede, fermamente contrario al fatto che suo figlio diventi un giocatore di baseball, sperando che segua le sue orme religiose.

Tuttavia, il giovane Rickey credeva che Dio gli avesse dato un talento per un motivo e, come mostra il film, non si sbagliava.

Sebbene tutto ciò accadesse negli anni ’60 e ’70, la storia di Hill dovrebbe ispirare molti oggi. Ed è un meraviglioso promemoria del fatto che la fede va di pari passo con i nostri sogni per noi stessi e le nostre famiglie.

In questa intervista si parla del film con la leggenda del baseball in persona, nonché con l’appassionato regista di The Hill , Jeff Celentano. La loro gioia e fiducia nel film sono contagiose.

L'ex giocatore della Major League Baseball Rickey Hill, la cui storia è la base per il nuovo film The Hill.
L’ex giocatore della MLB Rickey Hill, la cui storia è la base per il nuovo film THE HILL.

Per gentile concessione di Briarcliff Entertainment

Rickey, da ragazzo hai lottato con così tante cose: dovevi indossare tutori per le gambe, hai dovuto affrontare malattie e hai lottato con tuo padre predicatore per trovare una casa fissa. Qual è stata la tua battaglia più grande?

Hill: Wow, è una domanda difficile. Una volta tolto l’apparecchio… ho scoperto di avere una malattia degenerativa della colonna vertebrale e ho dovuto combatterla. È stata una dura battaglia che è andata avanti fino all’età di 50 anni, ma ho dovuto combatterla per tutto il baseball. Stavo arrivando al punto in cui era davvero difficile per me persino alzarmi per battere. Quindi, direi che probabilmente è stata la battaglia più dura, ma… sono davvero bravo a sopportare il dolore.

Celentano: (Ride.) Rickey ha avuto circa 6 incidenti stradali ed è caduto da una rampa di uscita a circa 60 miglia all’ora in una fossa perché non avevano etichettato la strada come in costruzione. Si è presentato al mio set circa 3 giorni dopo con tagli e lividi su tutta la faccia e io l’ho guardato e ho detto: ‘Cosa ti sta succedendo?’ Poi me lo ha detto, e io ho detto: ‘Che ci fai qui, dovresti essere in ospedale!’ E lui ha detto: “Non mi perderò il mio film per nulla al mondo”. Questo ragazzo non si arrende. Non puoi ucciderlo, non importa quanto ci provi.

Hill: Non puoi uccidermi. Avevo 3 costole rotte, un femore, un cranio rotto, un cranio rotto e una grossa commozione cerebrale, e ho avuto tutto questo e sono andato direttamente sul set… Avevo Gesù sul sedile anteriore che viaggiava nel camion con me.

Celentano: (Ride.) A volte gli dico che se venisse investito da un autobus che bella storia sarebbe!

Hill: (ridendo) Mi dispiacerebbe solo per l’autobus.

Dennis Quaid interpreta il pastore James Hill in THE HILL, una versione della Briarcliff Entertainment.
Dennis Quaid interpreta il pastore James Hill in THE HILL, una versione della Briarcliff Entertainment.

Una lotta senza fine

Hai dovuto fare i conti anche con l’opposizione di tuo padre a farti giocare a baseball. Hai passato tutta la vita a combattere le cose, a quanto pare. Hai mai desiderato smettere?

Hill: Mai, mai

Celentano: Hai avuto quel momento in cui mi hai detto come Colin (nel film Colin Ford interpreta l’adolescente Rickey), quando eri preoccupato di rimanere paralizzato se avessi continuato a giocare a baseball.

Hill: Ho un medico che mi dice che se non smetto subito rimarrò paralizzato in campo. Lui aveva ragione. Cinque o sei anni dopo ero paralizzato sul campo. Lui aveva ragione. Quindi, ho avuto un momento del genere in cui ero spaventato, certo.

Celentano: Ecco perché ha dovuto farsi operare.

Hill: Ho subito diverse operazioni alla colonna vertebrale. Ho 9 viti nella spina dorsale; Ho 6 gabbie e un’asta da 14 pollici nella colonna vertebrale.

Una delle storie più insolite di sempre

Jeff, so che ci è voluto del tempo per realizzarsi. È stato un vero lavoro d’amore. Perché la storia di Rickey è stata così importante per te?

Celentano: Beh, come hai visto nel film, è stata una delle storie più insolite che abbia mai visto. Dennis Quaid ha letto la sceneggiatura… e una delle prime cose che mi ha detto è stata: ‘Questo ragazzo ha davvero fatto questo? Questa è la storia più folle che abbia mai sentito.’ E io dissi: ‘Dennis, ci sono un sacco di storie là fuori che non abbiamo mai sentito prima. Ed è per questo che voglio raccontarlo… Mi ci sono voluti 17 anni per realizzarlo dal giorno in cui ho incontrato Rickey. Ho letto la sceneggiatura quella notte… stavo piangendo a dirotto alle 2 del mattino… ero affascinato. Non riuscivo a togliermelo dal cuore e dall’anima. È ancora lì.

Abbiamo appena fatto una proiezione alla Lakewood Church e la gente piangeva, rideva, si alzava e applaudiva… Si sono persi. Era potente. Qualunque cosa mi sia accaduta ora sta trascendendo chiunque altro stia vedendo il film. Era qualcosa che avevo dalla prima volta che lessi la sua storia. Ero ossessionato e posseduto da questo film.

IL 2 Novembre di ogni anno

IL 2 Novembre di ogni anno


Come gli italiani festeggiano Ognissanti e i Defunti

Conosciuta come La Festa di Ognissanti – non è solo una solennità cattolica (un giorno di festa di altissimo rango) è anche un giorno festivo pubblico per il quale le scuole, gli uffici governativi e le imprese chiudono. 

Oggi, 2 novembre, la Chiesa celebra la Commemorazione dei defunti, un giorno dopo la celebrazione della sua festa gemella, quella di Ognissanti. 

L’origine di Ognissanti risale al VII e VIII secolo d.C. come modo per onorare tutti i santi, conosciuti e sconosciuti, che sono in paradiso. Anche la Festa dei Defunti, celebrata il giorno successivo, è una festa antica. È stata istituita per favorire l’offerta di preghiere e messe per le anime dei fedeli defunti del Purgatorio.

Come tende ad accadere nei paesi cattolici, le feste e le usanze secolari tendono ad accompagnare, e in alcuni casi a sostituire, la festa religiosa. Mentre i fedeli cattolici assistono alla Messa nel giorno di precetto, altri usano il tempo per diversivi più secolari.

Rispecchiando la diversità culturale di un paese che si è unito fino alla fine del XIX secolo, diverse regioni d’Italia celebrano Ognissanti in modo diverso. Come tanti altri eventi in Italia, le festività coinvolgono invariabilmente il cibo.

In Puglia, si ricorda una tradizione locale in cui i vicini lasciavano del cibo sul tavolo della cucina durante la notte tra l’1 e il 2 novembre per l’anima dei loro cari. Conosciuta come Tavola dei Morti , su ogni tavola veniva posto un cartoncino con l’immagine del defunto e una preghiera sul retro. 

La Fiera dei Morti . Risalente a 750 anni fa, la fiera di Perugia era una delle fiere più importanti d’Europa. Nell’Alto Medioevo durava fino a un mese e offriva a persone di diversa estrazione l’opportunità di incontrarsi per commerciare oltre a mescolarsi culturalmente e socialmente. In questi giorni si svolge durante la festa di Ognissanti ed è un’occasione per assaggiare piatti a base di cibi appena raccolti o raccolti come castagne, tartufo bianco, olive e olio d’oliva, funghi e uva.

Nelle Marche, la gente del posto prepara un tipo di biscotti noto come Fave dei Morti . Fatto di mandorle e nocciole, con il legume ha a che fare solo con la sua forma. Altri sostengono che risalga all’epoca romana quando le fave simboleggiavano le anime dei defunti.

Una tradizione affascinante è quella con cui gli italiani mandano gli auguri alle persone nel loro giorno onomastico , o omonimo. Ad esempio, il 4 ottobre, chiunque si chiami Francesco può aspettarsi di ricevere telefonate e messaggi con gli auguri . Le donne di nome Francesca, la forma femminile di Francis, possono aspettarsi lo stesso. Il 1° novembre è il giorno in cui tutti ricevono una chiamata del genere.

Il Giorno dei Morti è formalmente conosciuto come il Giorno dei Morti, spesso abbreviato semplicemente in i Morti . In questo giorno gli italiani visitano i cimiteri dove trascorrono del tempo con i propri cari: il crisantemo colorato, luminoso e allegro è il fiore preferito lasciato sulle tombe italiane.

In questa occasione, sopra l’ingresso, appena sotto la croce, si trova spessissimo la parola RESURRECTURIS. Significato: “A coloro che risorgeranno”, ci ricorda la nostra speranza. Nonostante le tradizioni e i costumi che vanno e vengono – così come anche i ricordi umani dei defunti – Dio non dimenticherà mai l’anima di ogni persona anima che ha creato. 

Questo è il messaggio delle Feste di Tutti i Santi e di Tutti i Defunti: che i corpi di coloro che sono morti in Cristo dormono, aspettando di risorgere e noi li vedremo di nuovo!