2 GIUGNO-CHE C’È DA FESTEGGIARE

2 GIUGNO-CHE C’È DA FESTEGGIARE

Cara Repubblica

Ancora una volta è il 2 giugno, la tua festa. E tutti ricordiamo quei 12 milioni di voti che appunto quel giorno, nel 1946, fecero da levatrice alla tua nascita. E’ un peccato che sia così difficile trasmettere ai più giovani il senso di euforia di certe ore, la sensazione di un mondo nuovo ormai alle porte. Finito il fascismo, finita la guerra, finita la monarchia. Partita la democrazia, partita la rinascita. Oggi è invece possibile che un ragazzo ci chieda: scusa, ma che avete da festeggiare? E in effetti noi, la generazione dei padri, cioè la seconda generazione di italiani repubblicani, potremmo onestamente ammettere che, almeno in apparenza, c’è poco da festeggiare. Siamo stati, al contrario di quella dei nostri genitori, la generazione dei grandi dissipatori. Certo, il pensiero corre istintivo a quel po’ di benessere che abbiamo bruciato nella corsa al debito, al consumo non più sostenibile, al privilegio senza misura. Ma soprattutto abbiamo dissipato quel senso di appartenenza e di unità nella nazione che ai nostri padri quasi pareva nulla di speciale, tanto era per loro forte e naturale.

                          Cara Repubblica, quanto male ci fa vederti atomizzata dalle faide di partito, quelle in cui l’interesse di fazione ha sempre e comunque precedenza sul bene collettivo. Seguire le battaglie delle corporazioni, che certo i 12 milioni di votanti che ti scelsero pensavano morte con il fascismo, che dilaniano le tue fragili strutture nella perenne ricerca di un vantaggio anche fuori dalle logiche più sane del mercato. Per non parlare di quei milioni di tuoi figli, cittadini come gli altri ma ormai trasferiti in una “seconda serie” fatta di disoccupazione, precarietà, futuro negato, magari costretti a farsi adottare all’estero, da Stati solo più organizzati e coerenti di quanto noi abbiamo saputo fare con te. Noi meno giovani stentiamo a riconoscerti. Loro, i più giovani, ti osservano e non ti capiscono. Non sanno che non sei sempre stata così e forse nemmeno gli importa. Vorremmo far loro capire che ti abbiamo amata tanto senza saperti amare. E che senza di te rischiamo di non avere un volto che ci accomuna tutti, che ci ricorda chi siamo e perché, giorno dopo giorno, facciamo certe cose che ci tengono insieme. Ma diventa ogni giorno più complicato.

                           Perdonaci, Repubblica, se facciamo fatica anche a festeggiare.  

Fulvio Scaglione,
 Vicedirettore di Famiglia Cristiana

Accade da dieci anni in qua. Il 2 giugno, chiamato dalla Rai, commento in diretta tv la rivista organizzata a Roma ai Fori Imperiali. Notizie e riflessioni tecniche, come ci si attende da un militare come me. Non entro nei dettagli nè affronto le polemiche che anche quest’anno sono arrivate puntuali. Rimando all’autorevole presa di posizione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale ha escluso che questo evento possa essere letto come «una prova muscolare». Osservo, come altri hanno già fatto, che quella del 2013 è una parata drasticamente ridotta nei costi e nella formula. Per dire: niente fanfare e niente Frecce tricolori. Un dovere, quello del risparmio, in un’epoca di crisi come quella che ci sta duramente provando. Una tendenza, per altro, già evidente negli ultimi anni: se nel 2011 sfilarono circa 5 mila tra militari e civili e la parata costò 4,4 milioni di euro, nel 2012 le persone impegnate furono soltanto 2.500 e la spesa risultò inferiore ai due milioni di euro.

Mi preme piuttosto ragionare sul senso autentico della rivista. Che è l’omaggio allo Stato, alla casa comune che tutti abitiamo. Il 2 giugno sta all’Italia come il 4 luglio sta agli Stati Uniti (quel giorno, nel 1776, fu firmata la Dichiarazione d’indipendenza) o come il 14 luglio sta alla Francia (anniversario della presa della Bastiglia, nel 1789). Ogni Paese ha il diritto-dovere di ricordare solennemente quando e come è nato. Noi lo facciamo il 2 giugno, appunto. Uscivamo da una dittatura e da una guerra sanguinosa. Quel giorno del 1946 aprì un’epoca nuova, ci accolse tutti in una Patria ritrovata.

Cos’è rimasto di quelle aspettative, di quello spirito, di quell’energia? C’è chi si abbandona allo sconforto e risponde: poco o niente. Non sono di quell’avviso. C’è un’Italia che non arrossisce e non si vergogna perché non ha nulla per cui arrossire o di che vergognarsi. Di quest’Italia fanno parte a buon diritto le Forze armate, 180 mila donne e uomini che non solo proclamano ma vivono quotidianamente valori necessari a cementare una comunità civile degna di questo nome: onestà, rispetto, impegno, abnegazione, solidarietà. Dentro e fuori i confini dello Stato. Non è un caso se sindaci e presidenti di Regione ci chiamano quando capita un terremoto o un’alluvione. Non è un caso se i cittadini invocano la nostra presenza quando l’ordine pubblico è particolarmente a rischio.

E poi le missioni all’estero. Stiamo operando in 27 Paesi all’interno di altrettante operazioni di pace. Siamo partiti con l’avallo del Parlamento, nel quadro di azioni volute dall’Onu, dalla Nato o dall’Europa, in accordo con i nostri alleati. Siamo gente che ha scelto il mestiere della armi partendo da un amore sconfinato per la pace. Assicuriamo una cornice di sicurezza indispensabile per costruire ospedali, scuole, centrali elettriche, acquedotti, ponti e strade. Ovunque nel mondo, le Forze armate sono immagine visibile dell’unità di una Nazione, di ciò che una Nazione è e vuole essere nel mondo. Così anche da noi, in Italia.

La rivista dei Fori imperiali non è l’unico omaggio alla Repubblica, a chi la guida e a chi la rappresenta. Il programma del 2 giugno prevede eventi simili in molte città italiane. C’è qualcosa da festeggiare, ci si chiede? Sì. Al netto di ogni vuota retorica la risposta è sì! C’è un Paese che si sveglia presto la mattina e fa il suo dovere. C’è un Paese che si può guardare allo specchio senza dover abbassare gli occhi. Buon compleanno, Italia.

Massimo Fogari,
alpino, Generale di brigata,
Capo ufficio pubblica informazione
dello Stato Maggiore della Difesa

Rischia, immeritatamente, di finire nel mucchio delle cose dimenticate troppo in fretta. Fra le missioni di pace  realizzate dalle nostre Forze armate occupa un posto speciale l’operazione “White Crane”, compiuta dopo il devastante terremoto che colpì Haiti il 12 gennaio 2010. Il Governo italiano decise di mandare sul posto la portaerei Cavour, che allora era stato appena consegnato alla Marina. Preparata e attrezzata in soli  quattro giorni, la nave raggiunse Haiti dopo dieci giorni di navigazione, con a bordo 12 mila chili di generi alimentari, 36 mila litri di acqua potabile e 176 tonnellate di medicinali. Nello spazio di quattro mesi l’ospedale  di bordo fornì oltre 300 prestazioni mediche. La Cavour rientrò in Italia in aprile.

Tra i tanti militari impegnati nella missione, c’era anche il  capitano di fregata Ilio Guarriera, napoletano. Alla vigilia del 2 giugno, lo abbiamo incontrato a bordo della portaerei e gli abbiamo chiesto di raccontarci alcuni momenti della missione ad Haiti.
«Il primo impatto dopo il nostro arrivo ad Haiti fu tremendo. Ci trovammo di fronte  alla devastazione del terremoto, ma ci rendemmo subito conto che quel territorio era già martoriato da prima, soprattutto a causa della malasanità e della povertà. Era stridente il contrasto fra le due metà dell’isola: la Repubblica Dominicana un paradiso  per le vacanze, Haiti invece tutto un altro mondo di miseria e sofferenza. Una delle richieste più pressanti riguardava l’acqua potabile. Ce la chiedevano soprattutto i bambini. la nave portaerei Cavour è attrezzata per ricavare acqua potabile dall’acqua marina e così ne abbiamo trasportati ettolitri a terra, grazie agli elicotteri».

«La popolazione locale in un primo tempo ci guardava con un po’ di diffidenza», prosegue Ilio Guarriera. «Vedere gente in divisa faceva un po’ paura. Ma una volta rotto il ghiaccio il rapporto con le persone è stato magnifico e la loro felicità è stata commovente. Come sempre, in questi casi, abbiamo cercato di dare un mano alla popolazione locale andando anche al di là dei nostri compiti specifici. Così, ad esempio, abbiamo ricostruito un muretto distrutto e ripulito le aule di una scuola. In un magazzino abbiamo trovato abbandonate diverse macchine da cucire. I nostri tecnici di bordo ne hanno riparate alcune e poi hanno insegnato agli haitiani a ripararle da soli. Hanno imparato bene, perché gli haitiani erano davvero avidi di conoscenza. Così ho visto applicato nella pratica il celebre detto, secondo il quale, dopo aver dato un pesce a un affamato, è sempre meglio insegnargli a pescare».  

Roberto Zichittella

Non è solo una questione di soldi. La Festa della Repubblica è troppo bella e importante per essere trascinata nel tritacarne della spending reviewE’ vero che in tempo di crisi mal si sopportano gli sprechi. Ma questa Festa non può essere trattata come altre feste della Casta. La Festa della Repubblica è la festa di un popolo e di un Paese che, dopo il fascismo, hanno scelto la democrazia e i valori che la sostengono.

Ricordare ogni anno quel giorno (2 giugno 1946) e quella scelta non è solo un esercizio di memoria storica (Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno) ma un modo concreto per riscoprirne il valore e rinnovarne lo spirito. Se oggi guardiamo a questa Festa con grande distacco e scetticismo è perché parole come “Repubblica” e “democrazia” non suscitano più in noi alcuna emozione. E sembrano aver perso ogni significato concreto. Anche per questo abbiamo bisogno di ripensare questa Festa. 

Per molti anni il 2 giugno è stato celebrato con una parata militare. E da qualche tempo a questa parte, vista la crisi che tira, si preferisce una “parata low cost”. Ma la Festa della Repubblica non è la festa delle Forze Armate. Al nostro strumento militare, all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica e ai Carabinieri è dedicato il 4 novembre.   Qual è, dunque, oggi il modo più giusto per celebrare la Festa della Repubblica? Provo ad avanzare tre proposte.

Prima proposta. La Festa della Repubblica è e deve essere la festa di tutti gli italiani. Va celebrata insieme, senza deleghe e primi della classe. Anzi, deve essere un’occasione per fare spazio anche agli ultimi, quelli che continuano a essere tenuti ai margini della vita delle nostre comunità. Penso anche a tutti quelli che oggi ancor più di ieri sono travolti dalla crisi, dalla perdita del lavoro e della dignità. Una Repubblica che si concentra su di loro e che s’impegna a valorizzare anche l’ultimo dei suoi cittadini è una Repubblica sana, viva, coesa.  

Seconda proposta. Il 2 giugno deve essere celebrato all’insegna della Costituzione che ha generato e della riscoperta del significato autentico dei valori che vi sono iscritti. Quel giorno, i sindaci di tutti i Comuni d’Italia, cuore pulsante e bistrattato del paese reale, dovrebbero consegnare personalmente la Costituzione a tutti i giovani diciottenni e a tutti i nuovi italiani a cui riconosciamo finalmente i diritti di cittadinanza. La consegnano e la discutono, per fare in modo che i valori non siamo solo belle parole ma diventino obiettivi concreti della politica e della comunità. Insomma, il 2 giugno deve essere la Festa dei diritti e delle responsabilità di tutti gli italiani. 

Terza proposta. La Festa della Repubblica deve essere aperta all’Europa e al mondo. Cominciamo con i nostri vicini, quelli con cui condividiamo la nuova cittadinanza europea e quelli con cui condividiamo il futuro nel Mediterraneo. Chiamiamoli a festeggiare con noi la bellezza del nostro Paese e della nostra Costituzione ma anche la nostra volontà di fronteggiare insieme le grandi sfide del nostro tempo. Senza bisogno di parate militari e di esibizioni muscolari. Con l’umiltà, la dignità e il coraggio di chi sa affrontare anche le sfide più grandi.  

PS. Lascio agli amanti delle parate militari e al Fan club degli F-35 il compito di spiegare agli italiani che devono continuare a fare sacrifici mentre loro continueranno a spendere decine di milioni di euro per comprare, mantenere e sbandierare i gioielli delle nostre armate. La Repubblica merita un’altra Festa. 

Flavio Lotti,
coordinatore nazionale
 della Tavola della Pace

«Il 2 giugno dovrebbe essere la festa delle forze vive della Repubblica, non quella delle Forze armate. Abbiamo bisogno di recuperare appartenenza, valori, ideali della Repubblica».

A parlare e don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi. «Più che mai», continua, «abbiamo bisogno di sentirci parte di questo Paese e di questa democrazia, le cui istituzioni rischiano di essere sempre più lontane dalla gente. Perciò domenica ci ritroveremo a Roma per una festa alternativa, nella quale verrano premiati cittadini che siano espressione della costruzione quotidiana della società».

Pax Christi sottolinea quello che c’è «da non festeggiare»: «La nostra Difesa acquista nuove fregate fa guerra, e 90 cacciabombardieri F35. Questo non lo possiamo accettare», dice ancora don Sacco. «Sosteniamo invece quel gruppo di parlamentari che pochi giorni fa ha presentato una mozione in Parlamento contro l’acquisto dei caccia. Noi lo stiamo dicendo da anni. Mentre altrove si farà la parata militare, noi ricordiamo Papa Giovanni XXIII che morì il 3 giugno e la sua enciclica Pacem in terris, contro la guerra e contro ogni guerra. Ricorderemo i combattimenti in Siria, dimenticati da tutti, e quelli dell’Iraq, che nel solo mese di maggio hanno provocato 800 vittime. Insomma, il 2 giugno dobbiamo celebrare la vita, non la morte».

Don Renato Sacco sottolinea che le Forze Armate hanno la loro ragion d’essere nel fare la guerra: «Occorre evitare confusioni di termini e di ruoli. L’esercito è fatto per combattere, non per costruire la pace. Ora ci vengono a dire che i nostri soldati nelle missioni distribuiscono biscotti. Non è così. Vanno a sparare. I biscotti li possono e li debbono distribuire le organizzazioni umanitarie. Si cerca di far passare il conflitto come qualcosa di normale, o addirittura di positivo, e ci fanno vedere i bambini che salgono sui carri armati, quasi che la guerra fosse una cosa per famiglie e bambini: le armi degli altri fanno solo disastri, le nostre sono belle. Non è così. Come uomini, come cittadini e come credenti diciamo di no a tutto questo».

Anche Massimo Paolicelli, presidente dell’associazione obiettori non violenti, è dello stesso avviso: «Da molti anni chiediamo che la festa della Repubblica non si festeggi con una parata militare, perché non corrisponde né alla lettera né allo spirito della nostra Costituzione. Le Forze armate hanno la loro festa nel 4 novembre».

Le associazioni non violente puntano il dito anche contro i costi della parata: «Nella difficile situazione del nostro Paese – con la disoccupazione al 12,8% e quella giovanile al 41,9% – non si capisce perché spendere 1 milione e mezzo di di euro», aggiunge Paolicelli. «Con quella cifra si manterrebbero 288 giovani in servizio civile per un anno, oppure si potrebbe garantire l’attività di 20 centri antiviolenza».

«Non ci spaventa la parata in quanto tale», aggiunge il presidente dell’associazione obiettori, «ma le ingenti risorse che l’Italia continua a investire nelle armi: 24 miliardi di euro, 5,6 dei quali per i sistemi d’arma come i 90 F35 che in tutto ci costeranno oltre 12 miliardi di euro. Secondo i dati della Nato, il nostro Paese spende l’1,4% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre per il servizio civile siamo passati da 296 milioni di euro del 2007 ai 76 di quest’anno, per cui i giovani che hanno potuto fare il servizio civile sono passati da 57 mila, nel 2006, a 20 mila nel 2011. L’anno scorso nemmeno uno».

Luciano Scalettari

https://www.famigliacristiana.it/articolo/2-giugno-che-c-e-da-festeggiare.aspx