Redemptoris Mater-Giovanni Paolo II

Redemptoris Mater-Giovanni Paolo II

SULLA BEATA VERGINE MARIA
NELLA VITA DELLA CHIESA IN CAMMINO
Meditazioni Mese mariano di Maria

3. Il «Magnificat» della Chiesa in cammino

LETTERA DEL PAPA GIOVANNI PAOLO II ALLE DONNE Parte TERZA

35. Nella presente fase del suo cammino, dunque, la Chiesa cerca di ritrovare l’unione di quanti professano la loro fede in Cristo, per manifestare l’obbedienza al suo Signore, che per questa unità ha pregato prima della passione. Essa «prosegue il suo pellegrinaggio…. annunciando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga».87 «Procedendo tra le tentazioni e le tribolazioni, la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, promessa dal Signore, affinché per l’umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore e non cessi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la Croce giunga alla luce che non conosce tramonto».88

La Vergine Madre è costantemente presente in questo cammino di fede del popolo di Dio verso la luce. Lo dimostra in modo speciale il cantico del «Magnificat», che, sgorgato dal profondo della fede di Maria nella visitazione, non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa. Lo prova la sua recitazione quotidiana nella liturgia dei Vespri ed in tanti altri momenti di devozione sia personale che comunitaria.

«L’anima mia magnifica il Signore,
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni
mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente,
e santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza per sempre». (Lc 1,46).  

36. Quando Elisabetta salutò la giovane parente che giungeva da Nazareth, Maria rispose col Magnificat. Nel suo saluto Elisabetta prima aveva chiamato Maria «benedetta» a motivo del «frutto del suo grembo», e poi «beata» a motivo della sua fede (Lc 1,42). Queste due benedizioni si riferivano direttamente al momento dell’annunciazione. Ora, nella visitazione, quando il saluto di Elisabetta rende testimonianza a quel momento culminante, la fede di Maria acquista una nuova consapevolezza e una nuova espressione. Quel che al momento dell’annunciazione rimaneva nascosto nella profondità dell’«obbedienza della fede», si direbbe che ora si sprigioni come una chiara, vivificante fiamma dello spirito. Le parole usate da Maria sulla soglia della casa di Elisabetta costituiscono un’ispirata professione di questa sua fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con l’elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio. In queste sublimi parole, che sono ad un tempo molto semplici e del tutto ispirate ai testi sacri del popolo di Israele,89 traspare la personale esperienza di Maria, l’estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l’eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell’uomo. Maria è la prima a partecipare a questa nuova rivelazione di Dio e, in essa, a questa nuova «autodonazione» di Dio. Perciò proclama: «Grandi cose ha fatto in me…, e santo è il suo nome». Le sue parole riflettono la gioia dello spirito, difficile da esprimere: «Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore». Perché «la profonda verità sia su Dio sia sulla salvezza degli uomini… risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione».90

Nel suo trasporto Maria confessa di essersi trovata nel cuore stesso di questa pienezza di Cristo.

È consapevole che in lei si compie la promessa fatta ai padri e, prima di tutto, «ad Abramo e alla sua discendenza per sempre»: che dunque in lei, come madre di Cristo, converge tutta l’economia salvifica, nella quale «di generazione in generazione» si manifesta colui che, come Dio dell’Alleanza, «si ricorda della sua misericordia». 

37. La Chiesa, che sin dall’inizio conforma il suo cammino terreno su quello della Madre di Dio, ripete costantemente al seguito di lei le parole del Magnificat. Dalla profondità della fede della Vergine nell’annunciazione e nella visitazione, essa attinge la verità sul Dio dell’Alleanza: sul Dio che è onnipotente e fa «grandi cose» all’uomo: «santo è il suo nome». Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il peccato posto all’inizio della storia terrena dell’uomo e della donna il peccato dell’incredulità e della «poca fede» in Dio. Contro il «sospetto» che il «padre della menzogna» ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima donna, Maria che la tradizione usa chiamare «nuova Eva»91 e vera «madre dei viventi»,92 proclama con forza la non offuscata verità su Dio: il Dio santo e onnipotente, che dall’inizio è la fonte di ogni elargizione, colui che «ha fatto grandi cose». Creando, Dio dona l’esistenza a tutta la realtà. Creando l’uomo, gli dona la dignità dell’immagine e della somiglianza con lui in modo singolare rispetto a tutte le creature terrene. E non arrestandosi nella sua volontà di elargizione nonostante il peccato dell’uomo, Dio si dona nel Figlio: «Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si attuerà pienamente mediante le opere e le parole (At 1,1) del suo Figlio e definitivamente mediante la sua Croce e risurrezione. La Chiesa, che pur «tra le tentazioni e le tribolazioni» non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat, «si sostiene» con la potenza della verità su Dio, proclamata allora con sì straordinaria semplicità e, nello stesso tempo, con questa verità su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie dell’esistenza terrena degli uomini. Il cammino della Chiesa, dunque, al termine ormai del secondo Millennio cristiano, implica un rinnovato impegno nella sua missione. Seguendo colui che disse di sé: «(Dio) mi ha mandato per annunciare ai poveri il lieto messaggio» (Lc 4,18), la Chiesa ha cercato di generazione in generazione e cerca anche oggi di compiere la stessa missione. Il suo amore di preferenza per i poveri è inscritto mirabilmente nel Magnificat di Maria. Il Dio dell’Alleanza, cantato nell’esultanza del suo spirito dalla Vergine di Nazareth, è insieme colui che «rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, … ricolma di beni gli affamati, e rimanda i ricchi a mani vuote, … disperde i superbi … e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono». Maria è profondamente permeata dello spirito dei «poveri di Iahvé», che nella preghiera dei Salmi attendevano da Dio la loro salvezza, riponendo in lui ogni fiducia (Sal 24,1); (Sal 30,1); (Sal 34,1); (Sal 54,1). Ella, invero, proclama l’avvento del mistero della salvezza, la venuta del «Messia dei poveri» (Is 11,4); (Is 61,1). Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del Magnificat, la Chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva, su Dio che è fonte di ogni elargizione, dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili, il quale, cantato nel Magnificat, si trova poi espresso nelle parole e nelle opere di Gesù. La Chiesa, pertanto, è consapevole – e nella nostra epoca tale consapevolezza si rafforza in modo particolare – non solo che non si possono separare questi due elementi del messaggio contenuto nel Magnificat, ma che si deve, altresì, salvaguardare accuratamente l’importanza che «i poveri» e «l’opzione in favore dei poveri» hanno nella parola del Dio vivo. Si tratta di temi e problemi organicamente connessi col senso cristiano della libertà e della liberazione. «Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l’icona più perfetta della libertà e della liberazione dell’umanità e del cosmo. È a lei che la Chiesa, di cui ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza».93

III – Mediazione materna

1. Maria, Serva del Signore

38. La Chiesa sa e insegna con san Paolo che uno solo è il nostro mediatore: «Non c’è che un solo Dio, uno solo anche è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, che per tutti ha dato se stesso quale riscatto» (1Tm 2,5). «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia»:94 è mediazione in Cristo.

La Chiesa sa e insegna che «ogni salutare influsso della Beata Vergine verso gli uomini… nasce dal beneplacito di Dio e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia; non impedisce minimamente l’immediato contatto dei credenti con Cristo, anzi lo facilita».95 Questo salutare influsso è sostenuto dallo Spirito Santo, che, come adombrò la Vergine Maria dando in lei inizio alla maternità divina, così ne sostiene di continuo la sollecitudine verso i fratelli del suo Figlio. Effettivamente, la mediazione di Maria è strettamente legata alla sua maternità, possiede un carattere specificamente materno, che la distingue da quello delle altre creature che, in vario modo sempre subordinato, partecipano all’unica mediazione di Cristo, rimanendo anche la sua una mediazione partecipata.96 Infatti, se «nessuna creatura può mai esser messa alla pari col Verbo incarnato e redentore», al tempo stesso «l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, partecipata da un’unica fonte»; e così «l’unica bontà di Dio si diffonde realmente in vari modi nelle creature».97 L’insegnamento del Concilio Vaticano II presenta la verità sulla mediazione di Maria come partecipazione a questa unica fonte che è la mediazione di Cristo stesso. Leggiamo infatti: «Questa funzione subordinata di Maria la Chiesa non dubita di riconoscerla apertamente, continuamente la sperimenta e raccomanda all’amore dei fedeli, perché, sostenuti da questo materno aiuto, siano più intimamente congiunti col Mediatore e Salvatore».98 Tale funzione è, al tempo stesso, speciale e straordinaria. Essa scaturisce dalla sua maternità divina e può esser compresa e vissuta nella fede solo sulla base della piena verità di questa maternità. Essendo Maria, in virtù dell’elezione divina, la Madre del Figlio consostanziale al Padre e «generosa compagna» nell’opera della redenzione, «fu per noi madre nell’ordine della grazia».99 Questa funzione costituisce una dimensione reale della sua presenza nel mistero salvifico di Cristo e della Chiesa. 

39. Da questo punto di vista bisogna ancora una volta considerare l’evento fondamentale nell’economia della salvezza, ossia l’incarnazione del Verbo al momento dell’annunciazione. È significativo che Maria, riconoscendo nella parola del messaggero divino la volontà dell’Altissimo e sottomettendosi alla sua potenza, dica: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Il primo momento della sottomissione all’unica mediazione «fra Dio e gli uomini» – quella di Gesù Cristo – è l’accettazione della maternità da parte della Vergine di Nazareth. Maria consente alla scelta di Dio, per diventare per opera dello Spirito Santo la Madre del Figlio di Dio. Si può dire che questo suo consenso alla maternità sia soprattutto frutto della totale donazione a Dio nella verginità. Maria ha accettato l’elezione a Madre del Figlio di Dio, guidata dall’amore sponsale, che «consacra» totalmente a Dio una persona umana. In virtù di questo amore, Maria desiderava di esser sempre e in tutto «donata a Dio», vivendo nella verginità. Le parole: «Eccomi, sono la serva del Signore», esprimono il fatto che sin dall’inizio ella ha accolto ed inteso la propria maternità come totale dono di sé, della sua persona a servizio dei disegni salvifici dell’Altissimo. E tutta la partecipazione materna alla vita di Gesù Cristo, suo Figlio, l’ha vissuta sino alla fine in modo corrispondente alla sua vocazione alla verginità. La maternità di Maria, pervasa fino in fondo dall’atteggiamento sponsale di «serva del Signore», costituisce la prima e fondamentale dimensione di quella mediazione che la Chiesa confessa e proclama nei suoi riguardi,100 e continuamente «raccomanda all’amore dei fedeli», poiché in essa molto confida. Infatti, bisogna riconoscere che prima di tutti Dio stesso, l’eterno Padre, si è affidato alla Vergine di Nazareth, donandole il proprio Figlio nel mistero dell’incarnazione. Questa sua elezione al sommo ufficio e dignità di Madre del Figlio di Dio, sul piano ontologico, si riferisce alla realtà stessa dell’unione delle due nature nella persona del Verbo (unione ipostatica). Questo fatto fondamentale di esser la Madre del Figlio di Dio, è sin dall’inizio una totale apertura alla persona di Cristo, a tutta la sua opera, a tutta la sua missione. Le parole «Eccomi, sono la serva del Signore» testimoniano questa apertura dello spirito di Maria, che unisce in sé in modo perfetto l’amore proprio della verginità e l’amore caratteristico della maternità, congiunti e quasi fusi insieme. Perciò Maria è diventata non solo la «madre-nutrice» del Figlio dell’uomo, ma anche la «compagna generosa in modo del tutto singolare»101 del Messia e Redentore. Ella – come ho già detto – avanzava nella peregrinazione della fede e in tale sua peregrinazione fino ai piedi della Croce si è attuata, al tempo stesso, la sua materna cooperazione a tutta la missione del Salvatore con le sue azioni e le sue sofferenze. Lungo la via di questa collaborazione con l’opera del Figlio Redentore, la maternità stessa di Maria conosceva una singolare trasformazione, colmandosi sempre più di «ardente carità» verso tutti coloro a cui era rivolta la missione di Cristo. Mediante tale «ardente carità», intesa a operare in unione con Cristo la restaurazione della «vita soprannaturale nelle anime»,102 Maria entrava in modo del tutto personale nell’unica mediazione «fra Dio e gli uomini», che è la mediazione dell’uomo Cristo Gesù. Se ella stessa per prima ha sperimentato su di sé gli effetti soprannaturali di questa unica mediazione – già all’annunciazione era stata salutata come «piena di grazia», – allora bisogna dire che per tale pienezza di grazia e di vita soprannaturale era particolarmente predisposta alla cooperazione con Cristo, unico mediatore dell’umana salvezza. E tale cooperazione è appunto questa mediazione subordinata alla mediazione di Cristo. Nel caso di Maria si tratta di una mediazione speciale ed eccezionale, fondata sulla sua «pienezza di grazia», che si traduceva nella piena disponibilità della «serva del Signore». in risposta a questa disponibilità interiore di sua madre, Gesù Cristo la preparava sempre più a diventare per gli uomini «madre nell’ordine della grazia». Ciò indicano, almeno in modo indiretto, certi particolari annotati dai Sinottici (Lc 11,28); (Lc 8,20); (Mc 3,32); (Mt 12,47) e ancor più dal Vangelo di Giovanni (Gv 2,1); (Gv 19,25), che ho già messo in luce. A questo riguardo le parole, pronunciate da Gesù sulla Croce in riferimento a Maria e a Giovanni, sono particolarmente eloquenti.

40. Dopo gli eventi della risurrezione e dell’ascensione, Maria, entrando con gli Apostoli nel cenacolo in attesa della pentecoste, era presente come Madre del Signore glorificato. Era non solo colei che «avanzò nella peregrinazione della fede» e serbò fedelmente la sua unione col Figlio «sino alla Croce», ma anche la «serva del Signore», lasciata da suo Figlio come madre in mezzo alla Chiesa nascente: «Ecco la tua madre». Così cominciò a formarsi uno speciale legame tra questa Madre e la Chiesa. La Chiesa nascente era, infatti, frutto della Croce e della risurrezione del suo Figlio. Maria, che sin dall’inizio si era donata senza riserve alla persona e all’opera del Figlio, non poteva non riversare sulla Chiesa, sin dal principio, questa sua donazione materna. Dopo la dipartita del Figlio, la sua maternità permane nella Chiesa come mediazione materna: intercedendo per tutti i suoi figli, la Madre coopera all’azione salvifica del Figlio-Redentore del mondo. Difatti, il Concilio insegna: «La maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste… fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti».103 Con la morte redentrice del suo Figlio, la materna mediazione della serva del Signore ha raggiunto una dimensione universale, perché l’opera della redenzione comprende tutti gli uomini. Così si manifesta in modo singolare l’efficacia dell’unica ed universale mediazione di Cristo «fra Dio e gli uomini». La cooperazione di Maria partecipa, nel suo carattere subordinato, all’universalità della mediazione del Redentore,, unico mediatore. Ciò indica chiaramente il Concilio con le parole sopra riportate. «Difatti, – leggiamo ancora – assunta in cielo, non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci le grazie della salute eterna».104 Con questo carattere di «intercessione», che si manifestò per la prima volta a Cana di Galilea, la mediazione di Maria continua nella storia della Chiesa e del mondo. Leggiamo che Maria «con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora pellegrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata».105 In questo modo la maternità di Maria perdura incessantemente nella Chiesa come mediazione che intercede, e la Chiesa esprime la sua fede in questa verità invocando Maria «con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice».106 

41. Per la sua mediazione subordinata a quella del Redentore, Maria contribuisce in maniera speciale all’unione della Chiesa pellegrinante sulla terra con la realtà escatologica e celeste della comunione dei santi, essendo stata già «assunta in cielo».107 La verità dell’assunzione, definita da Pio XII, è riaffermata dal Concilio Vaticano II, che così esprime la fede della Chiesa: «Infine, l’immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo, e dal Signore esaltata quale Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata col Figlio suo, Signore dei dominanti (Ap 19,16) e vincitore del peccato e della morte».108 Con questo insegnamento Pio XII si collegava alla Tradizione, che ha trovato molteplici espressioni nella storia della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente. Col mistero dell’assunzione al Cielo, si sono definitivamente attuati in Maria tutti gli effetti dell’unica mediazione di Cristo Redentore del mondo e Signore risorto «Tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo» (1Cor 15,22). Nel mistero dell’assunzione si esprime la fede della Chiesa, secondo la quale Maria è «unita da uno stretto e indissolubile vincolo» a Cristo, perché, se madre-vergine era a lui singolarmente unita nella sua prima venuta, per la sua continuata cooperazione con lui lo sarà anche in attesa della seconda, «redenta in modo più sublime in vista dei meriti del Figlio suo»,109 ella ha anche quel ruolo, proprio della madre, di mediatrice di clemenza nella venuta definitiva, quando tutti coloro che sono di Cristo saranno vivificati, e «l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,26).110 A tale esaltazione dell’«eccelsa figlia di Sion»111 mediante l’assunzione al Cielo, è connesso il mistero della sua eterna gloria. La Madre di Cristo è, infatti, glorificata quale «Regina dell’universo».112 Colei che all’annunciazione si è definita «serva del Signore», è rimasta per tutta la vita terrena fedele a ciò che questo nome esprime, confermando così di essere una vera «discepola» di Cristo, il quale sottolineava fortemente il carattere di servizio della propria missione: il Figlio dell’uomo «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Per questo, Maria è diventata la prima tra coloro che, «servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducono i loro fratelli al Re, servire al quale è regnare»,113 ed ha conseguito pienamente quello «stato di libertà regale», proprio dei discepoli di Cristo: servire vuol dire regnare! «Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (Fil 2,8), è entrato nella gloria del suo Regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,27-28)».114 Maria, serva del Signore, ha parte in questo Regno del Figlio.115 La gloria di servire non cessa di essere la sua esaltazione regale: assunta in Cielo, ella non termina quel suo servizio salvifico, in cui si esprime la mediazione materna, «fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti».116 Così colei, che qui sulla terra «serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce», continua a rimanere unita con lui, mentre ormai «tutto è sottomesso a lui, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature». Così nella sua assunzione al Cielo, Maria è come avvolta da tutta la realtà della comunione dei santi, e la stessa sua unione col Figlio nella gloria è tutta protesa verso la definitiva pienezza del Regno, quando «Dio sarà tutto in tutti». Anche in questa fase la mediazione materna di Maria non cessa di essere subordinata a colui che è l’unico Mediatore, fino alla definitiva attuazione della «pienezza del tempo», cioè fino a «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). 

2. Maria nella vita della Chiesa e di ogni cristiano

42. Il Concilio Vaticano II, ricollegandosi alla Tradizione, ha gettato nuova luce sul ruolo della Madre di Cristo nella vita della Chiesa. «La beata Vergine per il dono… della divina maternità, che la unisce col Figlio Redentore, e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la Madre di Dio è figura della Chiesa.., cioè nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo».117 Già in precedenza abbiamo visto come Maria rimane sin dall’inizio con gli apostoli in attesa della pentecoste e come, essendo la «beata che ha creduto», di generazione in generazione è presente in mezzo alla Chiesa pellegrina mediante la fede e quale modello della speranza che non delude (Rm 5,5). Maria ha creduto che sarebbe avvenuto quello che le era stato detto dal Signore. Come vergine, ha creduto che avrebbe concepito e dato alla luce un figlio: il «Santo», al quale corrisponde il nome di «Figlio di Dio», il nome di «Gesù» (= Dio che salva). Come serva del Signore, è rimasta perfettamente fedele alla persona e alla missione di questo Figlio. Come madre «per la sua fede ed obbedienza… generò sulla terra lo stesso Figlio del Padre, senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo».118 Per questi motivi Maria «viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. Già fin dai tempi più antichi… è venerata col titolo di “Madre di Dio” sotto il cui presidio i fedeli imploranti si rifugiano in tutti i pericoli e necessità».119 Questo culto è del tutto singolare: contiene in sé ed esprime quel profondo legame che esiste tra la Madre di Cristo e la Chiesa.120 Quale vergine e madre, Maria rimane per la Chiesa un «perenne modello». Si può, dunque, dire che soprattutto sotto questo aspetto, cioè come modello o, piuttosto, come «figura», Maria, presente nel mistero di Cristo rimane costantemente presente anche nel mistero della Chiesa. Anche la Chiesa, infatti, «é chiamata madre e vergine», e questi nomi hanno una profonda giustificazione biblica e teologica.121 

43. La Chiesa «diventa madre… accogliendo con fedeltà la parola di Dio».122 Come Maria che ha creduto per prima, accogliendo la parola di Dio a lei rivelata nell’annunciazione, e rimanendo ad essa fedele in tutte le sue prove fino alla Croce, così la Chiesa diventa madre quando, accogliendo con fedeltà la parola di Dio, «con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio».123 Questa caratteristica «materna» della Chiesa è stata espressa in modo particolarmente vivido dall’Apostolo delle genti, quando scriveva: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19). In queste parole di san Paolo è contenuta una traccia interessante della consapevolezza materna della Chiesa primitiva, legata al suo servizio apostolico tra gli uomini. Tale consapevolezza permetteva e permette costantemente alla Chiesa di vedere il mistero della sua vita e della sua missione sull’esempio della stessa Genitrice del Figlio, che è il «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Si può dire che la Chiesa apprenda da Maria anche la propria maternità: essa riconosce la dimensione materna della sua vocazione, legata essenzialmente alla sua natura sacramentale, «contemplando l’arcana santità di lei, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre».124 Se la Chiesa è segno e strumento dell’intima unione con Dio, lo è a motivo della sua maternità: perché, vivificata dallo Spirito, «genera» figli e figlie dell’umana famiglia a una vita nuova in Cristo. Perché, come Maria è al servizio del mistero dell’incarnazione, così la Chiesa rimane al servizio del mistero dell’adozione a figli mediante la grazia. Al tempo stesso, sull’esempio di Maria, la Chiesa rimane la vergine fedele al proprio sposo: «Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo».125 La Chiesa è, infatti, la sposa di Cristo, come risulta dalle Lettere paoline (Ef 5,21); (2Cor 11,2) e dall’appellativo giovanneo: «la sposa dell’Agnello» (Ap 21,9). Se la Chiesa come sposa «custodisce la fede data a Cristo», questa fedeltà, benché nell’insegnamento dell’apostolo sia divenuta immagine del matrimonio (Ef 5,23), possiede anche il valore di tipo della totale donazione a Dio nel celibato «per il Regno dei cieli», ossia della verginità consacrata a Dio (Mt 19,11); (2Cor 11,2). Proprio tale verginità, sull’esempio della Vergine di Nazareth, è fonte di una speciale fecondità spirituale: è fonte della maternità nello Spirito Santo. Ma la Chiesa custodisce anche la fede ricevuta da Cristo: sull’esempio di Maria, che serbava e meditava in cuor suo (Lc 2,19) tutto ciò che riguardava il suo Figlio divino, essa è impegnata a custodire la Parola di Dio, ad indagarne le ricchezze con discernimento e prudenza, per dame in ogni epoca fedele testimonianza a tutti gli uomini.126 

44. Stante questo rapporto di esemplarità, la Chiesa si incontra con Maria e cerca di diventare simile a lei: «Ad imitazione della madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità».127 Maria è, dunque, presente nel mistero della Chiesa come modello. Ma il mistero della Chiesa consiste anche nel generare gli uomini ad una vita nuova ed immortale: è la sua maternità nello Spirito Santo. È qui Maria non solo è modello e figura della Chiesa, ma è molto di più. Infatti, «con amore di madre ella coopera alla rigenerazione e formazione» dei figli e figlie della madre Chiesa. La maternità della Chiesa si attua non solo secondo il modello e la figura della Madre di Dio, ma anche con la sua «cooperazione». La Chiesa attinge copiosamente da questa cooperazione, cioè dalla mediazione materna, che è caratteristica di Maria, in quanto già in terra ella cooperò alla rigenerazione e formazione dei figli e delle figlie della Chiesa come Madre di quel Figlio che Dio ha posto quale primogenito tra molti fratelli».128 Vi cooperò – come insegna il Concilio Vaticano II – con amore di madre.129 Si scorge qui il reale valore delle parole dette da Gesù a sua madre nell’ora della Croce: «Donna, ecco il tuo figlio» e al discepolo: «Ecco la tua madre» (Gv 19,26). Sono parole che determinano il posto di Maria nella vita dei discepoli di Cristo ed esprimono – come ho già detto – la sua nuova maternità quale Madre del Redentore: la maternità spirituale, nata dall’intimo del mistero pasquale del Redentore del mondo. E una maternità nell’ordine della grazia, perché implora il dono dello Spirito Santo che suscita i nuovi figli di Dio, redenti mediante il sacrificio di Cristo: quello Spirito che insieme alla Chiesa anche Maria ha ricevuto nel giorno di pentecoste. Questa sua maternità è particolarmente avvertita e vissuta dal popolo cristiano nel sacro Convito – celebrazione liturgica del mistero della redenzione -, nel quale si fa presente Cristo, il suo vero corpo nato da Maria Vergine. Ben a ragione la pietà del popolo cristiano ha sempre ravvisato un profondo legame tra la devozione alla Vergine santa e il culto dell’Eucaristia: è, questo, un fatto rilevabile nella liturgia sia occidentale che orientale, nella tradizione delle Famiglie religiose, nella spiritualità dei movimenti contemporanei anche giovanili, nella pastorale dei santuari mariani. Maria guida i fedeli all’Eucaristia. 

45. È essenziale della maternità il fatto di riferirsi alla persona. Essa determina sempre un’unica ed irripetibile relazione fra due persone: della madre col figlio e del figlio con la madre. Anche quando una stessa donna è madre di molti figli, il suo personale rapporto con ciascuno di essi caratterizza la maternità nella sua stessa essenza. Ciascun figlio, infatti, è generato in modo unico ed irripetibile, e ciò vale sia per la madre che per il figlio. Ciascun figlio viene circondato nel medesimo modo da quell’amore materno, sul quale si basa la sua formazione e maturazione nell’umanità. Si può dire che la maternità «nell’ordine della grazia» mantenga l’analogia con ciò che «nell’ordine della natura» caratterizza l’unione della madre col figlio. In questa luce diventa più comprensibile perché nel testamento di Cristo sul Golgota la nuova maternità di sua madre sia stata espressa al singolare, in riferimento ad un uomo: «Ecco il tuo figlio».Si può dire, inoltre, che in queste stesse parole venga pienamente indicato il motivo della dimensione mariana della vita dei discepoli di Cristo: non solo di Giovanni, che in quell’ora stava sotto la Croce insieme alla madre del suo Maestro, ma di ogni discepolo di Cristo, di ogni cristiano. Il redentore affida sua madre al discepolo e, nello stesso tempo, gliela dà come madre. La maternità di Maria che diventa eredità dell’uomo è un dono: un dono che Cristo stesso fa personalmente ad ogni uomo. Il Redentore affida Maria a Giovanni in quanto affida Giovanni a Maria. Ai piedi della croce ha inizio quello speciale affidamento dell’uomo alla Madre di Cristo, che nella storia della Chiesa fu poi praticato ed espresso in diversi modi. Quando lo stesso apostolo ed evangelista, dopo aver riportato le parole rivolte da Gesù sulla Croce alla madre ed a lui stesso, aggiunge: «E da quel momento il discepolo la prese con sé» (Gv 19,27), questa affermazione certamente vuol dire che al discepolo fu attribuito un ruolo di figlio e che egli si assunse la cura della Madre dell’amato Maestro. E poiché Maria fu data come madre personalmente a lui, l’affermazione indica, sia pure indirettamente, quanto esprime l’intimo rapporto di un figlio con la madre. E tutto questo si può racchiudere nella parola «affidamento». L’affidamento è la risposta all’amore di una persona e, in particolare, all’amore della madre. La dimensione mariana della vita di un discepolo di Cristo si esprime in modo speciale proprio mediante tale affidamento filiale nei riguardi della Madre di Dio, iniziato col testamento del Redentore sul Golgota. Affidandosi filialmente a Maria, il cristiano, come l’apostolo Giovanni, accoglie «fra le sue cose proprie»130 la Madre di Cristo e la introduce in tutto lo spazio della propria vita interiore, cioè nel suo «io» umano e cristiano: «La prese con sé». Così egli cerca di entrare nel raggio d’azione di quella «materna carità», con la quale la Madre del Redentore «si prende cura dei fratelli del Figlio suo»,131 «alla cui rigenerazione e formazione ella coopera»132 secondo la misura del dono, propria di ciascuno per la potenza dello Spirito di Cristo. Così anche si esplica quella maternità secondo lo spirito, che è diventata la funzione di Maria sotto la Croce e nel cenacolo. 

46. Questo rapporto filiale, questo affidarsi di un figlio alla madre non solo ha il suo inizio in Cristo, ma si può dire che in definitiva sia orientato verso di lui Si può dire che Maria continui a ripetere a tutti le stesse parole, che disse a Cana di Galilea: «Fate quello che egli vi dirà». Infatti è lui, Cristo, l’unico mediatore fra Dio e gli uomini; è lui «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); è lui che il Padre ha dato al mondo, affinché l’uomo «non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). La Vergine di Nazareth è divenuta la prima «testimone» di questo amore salvifico del Padre e desidera anche rimanere la sua umile serva sempre e dappertutto. Nei riguardi di ogni cristiano, di ogni uomo, Maria è colei «che ha creduto» per prima, e proprio con questa sua fede di sposa e di madre vuole agire su tutti coloro, che a lei si affidano come figli. Ed è noto che quanto più questi figli perseverano in tale atteggiamento e in esso progrediscono, tanto più Maria li avvicina alle «imperscrutabili ricchezze di Cristo». E altrettanto essi riconoscono sempre meglio la dignità dell’uomo in tutta la sua pienezza e il definitivo senso della di lui vocazione, perché «Cristo… svela anche pienamente l’uomo all’uomo».133 Questa dimensione mariana della vita cristiana assume un’accentuazione peculiare in rapporto alla donna ed alla sua condizione. In effetti, la femminilità si trova in una relazione singolare con la Madre del Redentore, argomento che potrà essere approfondito in altra sede. Qui desidero solo rilevare che la figura di Maria di Nazareth proietta luce sulla donna in quanto tale per il fatto stesso che Dio, nel sublime evento dell’incarnazione del Figlio, si è affidato al ministero, libero e attivo, di una donna. Si può, pertanto, affermare che la donna, guardando a Maria, trova in lei il segreto per vivere degnamente la sua femminilità ed attuare la sua vera promozione. Alla luce di Maria, la Chiesa legge sul volto della donna i riflessi di una bellezza, che è specchio dei più alti sentimenti, di cui è capace il cuore umano: la totalità oblativa dell’amore; la forza che sa resistere ai più grandi dolori; la fedeltà illimitata e l’operosità infaticabile; la capacità di coniugare l’intuizione penetrante con la parola di sostegno e di incoraggiamento. 

47. Durante il Concilio Paolo VI proclamò solennemente che Maria è Madre della Chiesa, «cioè Madre di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei pastori».134 Più tardi, nel 1968 nella Professione di fede, conosciuta sotto il nome di «Credo del Popolo di Dio», ribadì tale affermazione in forma ancora più impegnativa con le parole: «Noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo alle membra di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti».135 Il magistero del Concilio ha sottolineato che la verità sulla Vergine Santissima, Madre di Cristo, costituisce un sussidio efficace per l’approfondimento della verità sulla Chiesa. Lo stesso Paolo VI, prendendo la parola in merito alla costituzione Lumen Gentium, appena approvata dal Concilio, disse: «La conoscenza della vera dottrina cattolica sulla Beata Vergine Maria costituirà sempre una chiave per l’esatta comprensione del mistero di Cristo e della Chiesa».136 Maria è presente nella Chiesa come Madre di Cristo, ed insieme come quella Madre che Cristo, nel mistero della redenzione, ha dato all’uomo nella persona di Giovanni apostolo. Perciò, Maria abbraccia, con la sua nuova maternità nello Spirito, tutti e ciascuno nella Chiesa, abbraccia anche tutti e ciascuno mediante la Chiesa. In questo senso Maria, Madre della Chiesa, ne è anche modello. La Chiesa infatti – come auspica e chiede Paolo VI – «dalla Vergine Madre di Dio deve trarre la più autentica forma della perfetta imitazione di Cristo».137 Grazie a questo speciale legame, che unisce la Madre di Cristo con la Chiesa, si chiarisce meglio il mistero di quella «donna», che, dai primi capitoli del Libro della Genesi fino all’Apocalisse, accompagna la rivelazione del disegno salvifico di Dio nei riguardi dell’umanità. Maria, infatti, presente nella Chiesa come Madre del Redentore, partecipa maturamente a quella «dura lotta contro le potenze delle tenebre»,138 che si svolge durante tutta la storia umana. E per questa sua identificazione ecclesiale con la «donna vestita di sole» (Ap 12,1),139 si può dire che «la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione, per la quale è senza macchia e senza ruga»; per questo, i cristiani, innalzando con fede gli occhi a Maria lungo il loro pellegrinaggio terreno, «si sforzano ancora di crescere nella santità».140 Maria, l’eccelsa figlia di Sion, aiuta tutti i suoi figli – dovunque e comunque essi vivano – a trovare in Cristo la via verso la casa del Padre. Pertanto, la Chiesa, in tutta la sua vita, mantiene con la Madre di Dio un legame che abbraccia, nel mistero salvifico, il passato, il presente e il futuro e la venera come madre spirituale dell’umanità e avvocata di grazia. 

3. Il senso dell’Anno Mariano

48. Proprio lo speciale legame dell’umanità con questa Madre mi ha indotto a proclamare nella Chiesa, nel periodo anteriore alla conclusione del secondo Millennio dalla nascita di Cristo, un Anno Mariano. Una simile iniziativa ebbe già luogo in passato, quando Pio XII proclamò il 1954 come Anno Mariano, al fine di mettere in rilievo l’eccezionale santità della Madre di Cristo, espressa nei misteri della sua immacolata concezione (definita esattamente un secolo prima) e della sua assunzione al Cielo.141 Ora, seguendo la linea del Concilio Vaticano II, desidero far risaltare la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero di Cristo e della sua Chiesa. È questa, infatti, una dimensione fondamentale che sgorga dalla mariologia del Concilio, dalla cui conclusione ci separano ormai più di vent’anni. Il Sinodo straordinario dei Vescovi, che si è svolto nel 1985, ha esortato tutti a seguire fedelmente il magistero e le indicazioni del Concilio. Si può dire che in essi Concilio e Sinodo – sia contenuto ciò che lo Spirito Santo stesso desidera «dire alla Chiesa» nella presente fase della storia. In un tale contesto, l’Anno Mariano dovrà promuovere una nuova ed approfondita lettura anche di ciò che il Concilio ha detto sulla Beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa, a cui si richiamano le considerazioni di questa Enciclica. Si tratta qui non solo della dottrina della fede, ma anche della vita di fede e, dunque, dell’autentica «spiritualità mariana», vista alla luce della Tradizione e, specialmente, della spiritualità alla quale ci esorta il Concilio.142 Inoltre, la spiritualità mariana, al pari della devozione corrispondente, trova una ricchissima fonte nell’esperienza storica delle persone e delle varie comunità cristiane, viventi tra i diversi popoli e nazioni su tutta la terra. In proposito, mi è caro ricordare, tra i tanti testimoni e maestri di tale spiritualità, la figura di san Luigi Maria Grignion de Montfort,143 il quale proponeva ai cristiani la consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali. Rilevo con piacere come anche ai nostri giorni non manchino nuove manifestazioni di questa spiritualità e devozione. Ci sono, dunque, sicuri punti di riferimento a cui mirare e ricollegarsi nel contesto di quest’Anno Mariano. 

49. Esso avrà inizio nella solennità di pentecoste, il 7 giugno prossimo. Si tratta, infatti, non solo di rammentare che Maria «ha preceduto» l’ingresso di Cristo Signore nella storia dell’umanità, ma di sottolineare, altresì, alla luce di Maria, che sin dal compimento del mistero dell’incarnazione la storia dell’umanità è entrata nella «pienezza del tempo» e che la Chiesa è il segno di questa pienezza. Come popolo di Dio, la Chiesa compie il pellegrinaggio verso l’eternità mediante la fede, in mezzo a tutti i popoli e nazioni, a cominciare dal giorno della pentecoste. La Madre di Cristo, che fu presente all’inizio del «tempo della Chiesa», quando in attesa dello Spirito Santo era assidua nella preghiera in mezzo agli apostoli e ai discepoli del suo Figlio, costantemente «precede» la Chiesa in questo suo cammino attraverso la storia dell’umanità. Ella è anche colei che, proprio come serva del Signore, coopera incessantemente all’opera della salvezza compiuta da Cristo, suo Figlio. Così mediante questo Anno Mariano la Chiesa viene chiamata non solo a ricordare tutto ciò che nel suo passato testimonia la speciale, Materna cooperazione della Madre di Dio all’opera della salvezza in Cristo Signore, ma anche a preparare, da parte sua, per il futuro le vie di questa cooperazione: poiché il termine del secondo Millennio cristiano apre come una nuova prospettiva. 

50. Come è già stato ricordato, anche tra i fratelli disuniti molti onorano e celebrano la Madre del Signore, specialmente presso gli orientali. È una luce mariana proiettata sull’ecumenismo. In particolare, desidero ancora ricordare che durante l’Anno Mariano ricorrerà il Millennio del battesimo di san Vladimiro, Gran Principe di Kiev (a. 988), che diede inizio al cristianesimo nei territori della Rus’ di allora e, in seguito, in altri territori dell’Europa orientale; e che per questa via, mediante l’opera di evangelizzazione, il cristianesimo si estese anche oltre l’Europa, fino ai territori settentrionali del continente asiatico. Vorremmo, dunque, specialmente durante questo Anno, unirci in preghiera con tutti coloro che celebrano il Millennio di questo battesimo, ortodossi e cattolici, rinnovando e confermando col Concilio quei sentimenti di gioia e di consolazione perché «gli Orientali …concorrono nel venerare la Madre di Dio, sempre Vergine, con ardente slancio ed animo devoto».144 Anche se ancora sperimentiamo i dolorosi effetti della separazione, avvenuta alcuni decenni dopo (a. 1054), possiamo dire che davanti alla Madre di Cristo ci sentiamo veri fratelli e sorelle nell’ambito di quel popolo messianico, chiamato ad essere un’unica famiglia di Dio sulla terra, come annunciavo già all’inizio dell’anno nuovo: «Desideriamo riconfermare quest’eredità universale di tutti i figli e le figlie di questa terra».145 Annunciando l’anno di Maria, precisavo, altresì, che la sua conclusione avverrà l’anno prossimo nella solennità dell’assunzione della Santissima Vergine al Cielo, per mettere in risalto «il segno grandioso nel Cielo», di cui parla l’Apocalisse. In questo modo vogliamo anche adempiere l’esortazione del Concilio, che guarda a Maria come a «segno di sicura speranza e di consolazione per il pellegrinante popolo di Dio». E questa esortazione il Concilio esprime con le seguenti parole: «Tutti i fedeli effondano insistenti suppliche alla Madre di Dio e Madre degli uomini, perché ella, che con le sue preghiere assistette la Chiesa ai suoi inizi, anche ora in Cielo, esaltata sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione di tutti i santi, interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie dei popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità».146 

Conclusione

51. Al termine della quotidiana liturgia delle Ore si innalza, tra le altre, questa invocazione della Chiesa a Maria:

«O alma Madre del Redentore,
porta sempre aperta del cielo e stella del mare,
soccorri il tuo popolo, che cade, ma pur anela a risorgere.
Tu che hai generato, nello stupore di tutto il creato, il tuo santo Genitore!».

«Nello stupore di tutto il creato»! Queste parole dell’antifona esprimono quello stupore della fede, che accompagna il mistero della maternità divina di Maria. Lo accompagna, in certo senso, nel cuore di tutto il creato e, direttamente; nel cuore di tutto il popolo di Dio, nel cuore della Chiesa. Quanto mirabilmente lontano si è spinto Dio, creatore e signore di tutte le cose, nella «rivelazione di se stesso» all’uomo!147 Quanto chiaramente egli ha superato tutti gli spazi di quell’infinita «distanza», che separa il creatore dalla creatura! Se in se stesso rimane ineffabile ed imperscrutabile, ancor più ineffabile ed imperscrutabile è nella realtà dell’incarnazione del Verbo, che si è fatto uomo mediante la Vergine di Nazareth. Se egli ha voluto chiamare eternamente l’uomo ad essere partecipe della natura divina (2Pt 1,4), si può dire che ha preordinato la «divinizzazione» dell’uomo secondo le sue condizioni storiche, sicché anche dopo il peccato è disposto a ristabilire a caro prezzo il disegno eterno del suo amore mediante l’«umanizzazione» del Figlio, a lui consostanziale. Tutto il creato e, più direttamente, l’uomo non può non rimanere stupito di fronte a questo dono, di cui è divenuto partecipe nello Spirito Santo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Al centro di questo mistero, nel vivo di questo stupore di fede, sta Maria. Alma Madre del Redentore, ella lo ha provato per prima: «Tu che hai generato, nello stupore di tutto il creato, il tuo santo Genitore» ! 

52. Nelle parole di questa antifona liturgica è espressa anche la verità della «grande svolta», che è determinata per l’uomo dal mistero dell’incarnazione. È una svolta che appartiene a tutta la sua storia, da quell’inizio che ci è rivelato nei primi capitoli della Genesi fino al termine ultimo, nella prospettiva della fine del mondo di cui Gesù non ci ha rivelato «né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). È una svolta incessante e continua tra il cadere e il risollevarsi, tra l’uomo del peccato e l’uomo della grazia e della giustizia. La liturgia, specie nell’Avvento, si colloca al punto nevralgico di questa svolta e ne tocca l’incessante «oggi e ora», mentre esclama: «Soccorri il tuo popolo, che cade, ma pur sempre anela a risorgere»! Queste parole si riferiscono ad ogni uomo, alle comunità, alle nazioni e ai popoli, alle generazioni e alle epoche della storia umana, alla nostra epoca, a questi anni del Millennio che volge al termine: «Soccorri, sì soccorri il tuo popolo che cade» ! Questa è l’invocazione rivolta a Maria, «alma Madre del Redentore», è l’invocazione rivolta a Cristo, che per mezzo di Maria è entrato nella storia dell’umanità. Di anno in anno, l’antifona si innalza a Maria, rievocando il momento in cui si è compiuta questa essenziale svolta storica, che perdura irreversibilmente: la svolta tra il «cadere» e il «risorgere». L’umanità ha fatto mirabili scoperte e ha raggiunto risultati portentosi nel campo della scienza e della tecnica, ha compiuto grandi opere sulla via del progresso e della civiltà, e nei tempi recenti si direbbe che è riuscita ad accelerare il corso della storia; ma la svolta fondamentale, la svolta che si può dire «originale», accompagna sempre il cammino dell’uomo e, attraverso le diverse vicende storiche, accompagna tutti e ciascuno. È la svolta tra il «cadere» e il «risorgere», tra la morte e la vita. Essa è anche una incessante sfida alle coscienze umane, una sfida a tutta la coscienza storica dell’uomo: la sfida a seguire la via del «non cadere» nei modi sempre antichi e sempre nuovi, e del «risorgere», se è caduto. Mentre con tutta l’umanità si avvicina al confine tra i due millenni, la Chiesa, da parte sua, con tutta la comunità dei credenti e in unione con ogni uomo di buona volontà, raccoglie la grande sfida contenuta nelle parole dell’antifona sul «popolo che cade, ma pur anela a risorgere» e si rivolge congiuntamente al Redentore ed a sua Madre con l’invocazione: «Soccorri». Essa, infatti, vede – e lo attesta questa preghiera – la Beata Madre di Dio nel mistero salvifico di Cristo e nel suo proprio mistero; la vede profondamente radicata nella storia dell’umanità, nell’eterna vocazione dell’uomo, secondo il disegno provvidenziale che Dio ha per lui eternamente predisposto; la vede maturamente presente e partecipe nei molteplici e complessi problemi che accompagnano oggi la vita dei singoli, delle famiglie e delle nazioni; la vede soccorritrice del popolo cristiano nell’incessante lotta tra il bene e il male, perché «non cada» o, caduto, «risorga». Auspico fervidamente che anche le riflessioni, contenute nella presente Enciclica, giovino a! rinnovamento di questa visione nel cuore di tutti i credenti.

Come Vescovo di Roma, io mando a tutti coloro, a cui sono destinate queste considerazioni, il bacio della pace, il saluto e la benedizione in nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo – nella Solennità l’annunciazione del Signore – dell’anno 1987, nono di Pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25031987_redemptoris-mater.html

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San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale

San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale

Lettera Apostolica “Patris Corde” del Santo Padre Francesco

CON CUORE DI PADRE: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]

I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.

Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.

Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).

Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).

Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]

Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.

  1. Padre amato

La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]

San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]

Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]

In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]

La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).

Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

  1. Padre nella tenerezza

Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).

La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).

Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]

Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).

Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.

  1. Padre nell’obbedienza

Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]

Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.

Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).

In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).

L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.

San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]

In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.

Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).

Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).

Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]

  1. Padre nell’accoglienza

Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]

Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.

La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.

La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.

Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).

Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.

Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.

L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).

  1. Padre dal coraggio creativo

Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.

Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.

Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.

Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.

Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]

Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]

Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.

Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.

6 Padre lavoratore

Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.

In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.

Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!

  1. Padre nell’ombra

Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]

Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).

Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.

..*

«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.

Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.

Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).

I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.

Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.

Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]

Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.

A lui rivolgiamo la nostra preghiera:

Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.
O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen.

Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato. Francesco